1. La fotografia come pratica identitaria
Nel 2004 Robert Swope e Michael Hurst recuperano in un flea market di New York 340 fotografie realizzate tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta. Sono foto di donne trans, persone non binarie e cross-dresser, che posano sorridenti davanti a un obiettivo, in abiti femminili. La maggior parte è stata realizzata allo Chevalier d’Eon (1955-1963) e a Casa Susanna (1964-1969), due resort diretti da Susanna Valenti nella periferia dell’Upstate New York. Nello spazio messo a disposizione da Valenti si potevano sperimentare in sicurezza forme di identità non concesse altrove. Se al di fuori del resort i soggetti conducevano vite ordinarie e male-presenting, allo Chevalier d’Eon prima, e a Casa Susanna poi, potevano indossare parrucche e truccarsi, senza imbarazzo né timore. Qui si riuniva la comunità statunitense di cross-dresser, libera di impersonare alter ego femminili, senza cadere vittima dei dispositivi di controllo e regolamentazione del genere che caratterizzavano la società americana (De Leo 2021).
In questo contesto, la fotografia svolge un ruolo cruciale. Non si tratta della semplice documentazione di momenti all’interno della casa, ma di un attestato di esistenza per le identità femminili, che potevano essere esibite solo in quello spazio. Il medium fotografico appare lo strumento perfetto per la negoziazione identitaria (Hackett 2018), offrendo consistenza alle esperienze limitate ai fine settimana nel resort. I soggetti fotografati posavano esplorando con consapevolezza gli stereotipi femminili, adottando precise strategie estetiche per alimentare la narrazione della loro quotidianità. È la stessa Susanna a confermare la centralità della fotografia come garanzia di naturale femminilità, al pari – se non di più – di trucco e abiti (Valenti 1962). Valenti attribuiva il merito di un simile risultato a Edith Eden, ospite frequente dello Chevalier d’Eon, e fotografa amatoriale. All’interno della raccolta in analisi, nove stampe ai sali d’argento sono opera di Eden, denotando anche una certa ricerca stilistica, seppure dilettantesca. L’unica altra autrice identificata degli scatti è Andrea Susan. Come riporta il «New York Times», Susan disponeva di una camera oscura all’interno del resort, per evitare di far circolare i negativi all’esterno (Green 2006). Le restanti foto (280) non sono riconducibili a un’unica mano: le ospiti si passavano l’apparecchio, giocando davanti e dietro l’obiettivo. Eppure, come già Swope segnalava, senza conoscere molto delle foto rinvenute, uno spirito comune le informa: «Il senso della comunità, la tenerezza, la giocosità e molto spesso uno sguardo franco rivolto alla camera, come a dire: sì, questa sono io. Sono come te» (Swope 2005, p. 1) [fig. 1].
Una selezione degli scatti è stata pubblicata da Hurst e Swope nel libro Casa Susanna, e successivamente esposta in mostre internazionali. Oggi la collezione è conservata presso la National Gallery of Ontario. Si tratta di un archivio di grande interesse, che apre uno scorcio in una dimensione sconosciuta, risalente ad anni che precedono Stonewall (1969). D’altronde, prima della scoperta, le foto erano pensate per uso privato. In tal senso è emblematico che Swope e Hurst abbiano rinvenuto gli scatti all’interno di grandi album come quelli realizzati per le foto di famiglia: un modo per costruire e custodire la memoria personale.
Alla funzione privata se ne aggiungeva una sociale. Gli scatti erano infatti pensati anche per la condivisione epistolare e la vendita, pratiche collezionistiche frequenti all’interno della comunità. Alcuni venivano pubblicati su «Transvestia», rivista indipendente dedicata al mondo del cross-dressing fondata nel 1960 da Virginia Prince (anche lei ospite frequente del resort), dove Susanna Valenti curava un editoriale. Il periodico bimestrale dava estrema importanza alla fotografia, scegliendo alcune foto en femme inviate dalle persone abbonate come immagini di copertina, e all’interno di sezioni dedicate. Molti di questi scatti provenivano proprio dallo Chevalier d’Eon e da Casa Susanna. Le immagini, spesso accompagnate da racconti in prima persona dei soggetti, contribuivano a rinsaldare le identità rappresentate all’interno di un sistema di validazione sociale, e di partecipazione collettiva al medesimo immaginario visivo.
2. Eccedere la teoria
Queste immagini non artistiche portano con sé usi sociali idiosincratici: pratiche identitarie, comunitarie, erotiche e simboliche militanti, sussunte in quella storia – antichissima e ‘di serie B’ – del rapporto tra l’umanità e le sue immagini (Freedberg 1991, p. XI) che solo di recente i visual studies hanno iniziato a indagare. Oltre a iscriversi in questo paradigma, le immagini di Casa Susanna ne forzano i confini, producendo un sistema in cui l’oggetto analizzato co-informa il metodo di analisi. Emerge così una teoria della fotografia leggermente decentrata dai suoi assunti classici. Il primo scarto è di carattere categoriale: che immagini stiamo guardando? Barthes, in La camera chiara, individuava ‘tre emozioni’ cardine della pratica fotografica:
L’Operator è il Fotografo. Lo Spectator, siamo tutti noi che compulsiamo, nei giornali, nei libri, negli album, negli archivi, delle collezioni di fotografie. E colui che è fotografato, è il bersaglio, il referente, sorta di piccolo simulacro, di eidòlon emesso dell’oggetto, che io chiamerei volentieri lo Spectrum della fotografia dato che attraverso la sua radice questa parola mantiene un rapporto con lo ‘spettacolo’ aggiungendovi quella cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno del morto (Barthes 2003, p. 11).
In queste immagini scattate a turno dalle ospiti, e destinate a una comunità di fotografe, fotografate e collezioniste, Operator, Spectator e Spectrum collassano l’uno sull’altro, e con loro l’abituale gerarchia degli sguardi. Se «lo sguardo [...] è un elemento chiave nella costruzione della soggettività moderna, che filtra precise modalità di comprendere e ordinare il mondo» (Mulvey 2001, p. 5), la peculiarità delle fotografie di Casa Susanna sta nell’autoreferenzialità del loro gaze. Sono immagini tecniche che, contraddicendo Mulvey e Solomon-Godeau (1988), non costruiscono in modo dialettico la differenza sessuale, ma la confondono. Queste specificità delle foto di Casa Susanna – insieme alla loro natura ‘archeologica’ rispetto ai trans-studies – ne rendono l’analisi ‘eccentrica’ non solo in relazione ai feminist studies, ma anche alla teoria della fotografia trans*. Uno sguardo obliquo, obbligato dalla relazione che si instaura tra rappresentato e referente. I primi teorici della fotografia trans* vedevano nel ritratto fotografico un complesso rapporto di rispecchiamento e incarnazione tra i due termini:
La fotografia appare co-naturale con il corpo e può persino iniziare ad essere più referenziale al sé del corpo stesso [...] i media visivi promettono (come la transizione stessa) di rendere visibile ciò che inizia come impercettibile [...] e realizzano quell’immagine del ‘vero’ sé che è in origine solo apparente (Prosser 1998, p. 211).
Una posizione accusata dalla teoria successiva di ‘inavvertito essenzialismo’ che – facendo appello ai concetti di ‘verità, autenticità e fissità’ – perpetua un concetto di identità binario, alienando le esistenze trans* e, più in generale, attenendosi a una concezione problematicamente realista della fotografia (Lehner 2020, p. 61; Steinbock 2014, p. 543).
Casa Susanna sfida queste antinomie, ponendosi liberamente tra l’autobiografia e la teatralità, il ‘vero sé’ e la performance, mettendo in crisi ogni concezione univoca dell’immagine fotografica: «Non si tratta di autenticità, ma di rivelare come il sentimento e il desiderio corporeo siano contesi socialmente e spazialmente» (Hayward 2022, p. 256). Qui quel potere trasfigurante della fotografia, a cui i teorici classici guardavano con preoccupazione (Metz 1985, p. 84), assume un potenziale utopico, ingaggiando una complessa dialettica con la cultura visuale – questa sì, dominata dal male gaze – del tempo.
3. Elogio non ironico della banalità suburbana
Nel 1964 Susan Sontag pubblicava Notes on Camp, analizzando per la prima volta questa «particolare forma di estetismo […] che non guarda alla bellezza, ma al grado di artificio» (Sontag 1964, p. 367). Pur non riferendosi alla fotografia, le sue riflessioni risultano uno strumento prezioso per guardare ai nostri scatti, che pur differiscono in alcuni aspetti da quanto teorizzato nell’articolo. In questa differenza, si fonda la loro unicità nel panorama visivo.
Negli anni in cui Sontag definiva la sensibilità Camp come interscambiabilità fluida tra uomo e donna (Ivi, p. 371), Valenti confortava le lettrici di «Transvestia», preoccupate di non risultare abbastanza ‘belle’ en femme, invitandole a seguire i suoi consigli per assumere atteggiamenti che la fotografia avrebbe perfezionato. Più in generale, le identità en femme erano frutto di grande impegno, non solo di abbigliamento e trucco curati, ma anche di prove davanti allo specchio di pose tipicamente femminili (Hill 2007, p. 211): le mani sui fianchi, il modo di tenere la borsetta, le gambe accavallate, tutte pratiche di cui si trova riscontro nelle foto dell’archivio. La fotografia era un’alleata preziosa in tali esercitazioni, in cui si testava la gestualità davanti all’obiettivo, perfezionandola costantemente.
La comunità di Casa Susanna attingeva ampiamente ai riferimenti mediali femminili coevi, dalla televisione alla pubblicità, con particolare attenzione alla fotografia di moda. Non a caso, in una foto della raccolta, un’ospite stringe tra le mani un numero di «Vogue». Come nelle illustrazioni del magazine, oltre la metà delle foto consiste in ritratti singoli, dove i soggetti impersonano ruoli tipicamente femminili, tra cui la pin-up, la padrona di casa, la femme fatale. Tale interesse per i ‘valori di superficie’ degli stereotipi femminili rientra nella sensibilità Camp sontaghiana, così come l’esibizione di una femminilità ‘appariscente e stucchevole’, espressa in dive del cinema come Gina Lollobrigida, Jane Russell, e ne «l’inquietante vacuità androgina che traspare dietro la bellezza di Greta Garbo» (Ivi, p. 370). Sono nomi citati come modelli nelle pagine di «Transvestia», e non è difficile trovarne ‘imitazioni’ nelle foto di Casa Susanna.
Eppure, in questi atteggiamenti intercettiamo la distanza degli scatti dalle teorie di Sontag. Se per l’autrice il Camp mira all’eccesso con un’ironia che prende le distanze dal linguaggio di riferimento, queste foto rifuggono ogni stravaganza, con ordinaria sobrietà. Le cross-dresser posano sorridenti davanti al caminetto o sul portico; fanno giardinaggio, organizzano pic-nic e compleanni: «Non era uno ‘spettacolo’ […] eravamo come un qualsiasi gruppo di amiche durante una gita fuori porta nel weekend» (Prince 1961). Prendono sul serio questa rassicurante grammatica visiva, senza lo scarto ironico proposto da Sontag: cercano di costruire una ‘studiata illusione’ in cui il risultato è assimilabile al materiale di partenza. Qui risiede l’eccezionale paradosso delle foto di Casa Susanna: sono foto di ‘outsider’ che si collocano ‘ai margini’ della società, ma cercano di assomigliare il più possibile alla cultura mainstream di partenza, in un più o meno consapevole reenactment (cfr. Baldacci 2019; Schukis 2020).
Quello della comunità di cross-dresser era un punto di vista decentrato rispetto all’immaginario culturale di riferimento, che sistematicamente escludeva i soggetti queer. A Casa Susanna ci si appropriava del bagaglio iconico della fotografia di moda non per produrne una ripetizione, ma per dotarlo di un significato imprevisto, facendone un mezzo per codificare le proprie norme estetiche e avviare un’indagine identitaria autogestita. Per Baldacci, il processo di reenactment si conclude con la messa in circolazione delle nuove immagini prodotte. È quello che succede nello scambio delle foto tra cross-dresser e nella pubblicazione su «Transvestia»: qui viene sancito il nuovo valore, sovversivo, delle fotografie.
4. Una casa transfemminista
La natura parzialmente performativa delle fotografie di Casa Susanna è inscritta nella rappresentazione della casa, e in alcuni elementi ricorrenti. Circa 1/7 delle fotografie non ha come sfondo il salotto di Susanna, ma un sistema di tende e sipari, che trasforma la casa in palcoscenico [fig. 2]. Elemento intrinsecamente polisemico – le tende servivano sia a isolare la casa dall’esterno (Bonnet 2018, p. 303) sia come ‘set’ per le fotografie e le performance – la tenda, come gli specchi (uno dei pochissimi accessori nei ritratti), costituisce una sorta di mise en abîme della casa. Dispositivi in grado di «far emergere l’intelligibilità e la struttura formale dell’opera» (Dällenbach 1977, p. 18), questi elementi ritornano continuamente sulle dialettiche principali dell’identità performata in Casa Susanna – sospesa tra interno ed esterno, rivelazione e nascondimento – svelando affinità segrete tra i tessuti che fanno da sfondo ai ritratti, l’ambiente domestico, lo spazio e i processi della fotografia. La tenda fa della casa insieme rifugio (impenetrabile agli sguardi esterni) e teatro (per il gioco interno degli sguardi) per le identità che scelgono di abitarla.
Lo spazio domestico che viene raccontato dalla, e per, la comunità trans*, presenta dunque caratteristiche atipiche rispetto a quelle che la critica femminista attribuisce tradizionalmente all’archetipo ‘casa’ (teorizzate con chiarezza proprio negli anni di vita del resort), testimoniando concezioni spaziali che, negli anni Cinquanta e Sessanta, sfidavano discretamente quelle della cultura patriarcale, e delineando forme di identità femminili che – solo tra le mura/tende domestiche – potevano sperimentare i propri margini di esistenza. Se dunque è innegabile che – come notavano, tra le altre, Simone de Beauvoir (1949) e Luce Irigaray (1992) – «La casa priva le donne del supporto necessario per la loro identità e per i loro progetti» (Young 2005, p. 115), andrebbe forse aggiunto, in prospettiva transfemminista e intersezionale, che questo non valeva per tutte.
Già bell hooks, in Homeplace (a site of resistance) (1994), riconosceva la dimensione della casa come punto di partenza imprescindibile per i processi di soggettivizzazione delle comunità oppresse (in questo caso, nere):
Nonostante la brutale realtà della dominazione, la casa era l’unico luogo in cui ci si poteva confrontare liberamente con la questione dell’umanizzazione, in cui si poteva resistere. Le donne nere hanno resistito costruendo case in cui tutte le persone nere potessero provare a essere soggetti, non oggetti [...] in cui potessimo restituire a noi stessi la dignità negata all’esterno, nel mondo pubblico. [...] Non potevamo imparare ad amarci o a rispettarci nella cultura della supremazia bianca, all’esterno; era all’interno, in quel ‘luogo di casa’ [...] che avevamo l’opportunità di crescere e svilupparci, di nutrire i nostri spiriti, creando un luogo di casa, facendo della casa una comunità di resistenza.
Le fotografie di Casa Susanna restituiscono e testimoniano – costruendo uno sguardo ‘comunitario’ che ‘flirta’ con la cultura di massa, se ne appropria e la sovverte – uno sforzo di far emergere forme di soggettività e socialità impossibili altrove, comunità di resistenza e utopie di esistenza. Come notavano Martin e Talpade Mohanty (1986, p. 192):
Sia i leftists che le femministe si sono resi conto dell’importanza di non consegnare le nozioni di ‘casa’ e ‘comunità’ alla destra. Troppo spesso, però [...] hanno risposto al fascino della retorica della casa e della famiglia riproducendo semplicemente le articolazioni più convenzionali di questi termini nei loro scritti.
Casa Susanna offre invece l’immagine di una riscrittura possibile delle relazioni tra ‘casa’, ‘identità’ e ‘comunità politica’. In Photoshoot Andrea Susan, circondata dalla sua comunità – dalle sue amiche, compagne di casa e fotografie – fissa sé stessa e loro, sorridente e decisa, allo specchio, il volto parzialmente sovrapposto alla polaroid: «All’improvviso diventai la ragazza che avevo sempre cercato di essere, e soprattutto non dovevo nascondermi da nessuno o avere paura di essere scoperta. Che sensazione meravigliosa» (Marilyn 1961, p. 9).
* Le autrici hanno collaborato all’ideazione del testo e suddiviso la stesura come segue: i paragrafi 1 e 3 sono di Yasmin Riyahi, mentre i paragrafi 2 e 4 di Camilla Balbi. Dove non segnalato, le traduzioni sono delle autrici.
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