Romeo Castellucci, The four seasons restaurant

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Romeo Castellucci e la Socìetas Raffaello Sanzio tornano sul palcoscenico del Romaeuropa Festival (The art reacts – XXVIII edizione) con la ‘prima’ nazionale di The four seasons restaurant, ultimo capitolo del ciclo Il velo nero del pastore, dichiaratamente ispirato all’omonima novella di Nathaniel Hawtorne. In The Minister's Black Veil il giovane pastore Hooper sconvolge l’equilibrio della piccola comunità di Milford presentandosi alla consueta funzione domenicale con il volto inspiegabilmente coperto da un velo nero, simbolo funesto che suscita dapprima curiosità, infine vero e proprio terrore. Un velo di opacità caratterizza anche lo spettacolo ideato da Castellucci (Leone d’oro alla carriera nell’ultima Biennale veneziana), che dopo il debutto nel luglio del 2012 al Festival di Avignone è stato ora proposto al pubblico capitolino come naturale e necessario compimento di un ‘patto’ tra due sguardi quello dell’autore del testo e quello dello spettatore interprete sottoscritto in occasione della messinscena del capitolo d’apertura del ciclo Sul concetto di volto nel figlio di Dio (REF 2010), cui ha fatto seguito Il velo nero del pastore (REF 2011).

Va riconosciuto anzitutto che lo sguardo di Castellucci non è, in questo caso, sempre trasparente e immediatamente decifrabile, ma necessita di uno sforzo ermeneutico volto a ricostruire le trame complesse (e forse non sempre risolte) di una scrittura drammaturgica che procede spesso per associazioni di matrice onirica, secondo un criterio percettivo e non narrativo.

Il titolo dello spettacolo riprende il nome di un ristorante che si trova sulla 54a strada di New York, per il cui arredamento il pittore Mark Rothko realizzò nel 1958 alcune tele; solo in un secondo momento l’artista americano decise di ritirarle per sottrarle a un uso prettamente commerciale e decorativo. Il ‘ristorante’ inoltre assume per Castellucci chiare valenze simboliche, perché – come afferma lui stesso nelle note di sala – «allude alla fame, una fame che costituisce la radicale domanda dell’essere». Una domanda che viene messa in voce attraverso i versi di Hölderlin che appartengono alla tragedia incompiuta La morte di Empedocle, in cui il filosofo agrigentino si getta nell’Etna; per il regista non si tratterebbe però di un suicidio bensì di un totale ed estremo abbraccio con l’essere e con la natura, icasticamente rappresentate dal vuoto di un cratere.

Con la suggestiva citazione di un altro ‘vuoto’ inizia lo spettacolo: si spengono tutte le luci (comprese quelle di emergenza) e immersi in un buio totale in cui tutte le possibilità giacciono immobili, in attesa di presentarsi alla vista, gli spettatori possono udire il rumore – o meglio – la ‘musica’ di un buco nero realmente esistente nell’universo, le cui coordinate scientifiche vengono segnalate, con acribia forse eccessiva, attraverso una proiezione in bianco e nero sul sipario ancora chiuso. Dopo un crescendo dinamico, la ‘voce’ del buco nero (impulsi luminosi convertiti in impulsi sonori da alcuni ingegneri della Nasa) si fissa su un fortissimo che destabilizza o, se vogliamo, disturba per alcuni minuti l’uditorio, per poi crollare in un assoluto silenzio, propedeutico allo svelamento del palcoscenico. Esso si presenta spoglio, chiuso da bianche pareti e connotato fondamentalmente da una spalliera da palestra. Comincia allora una struggente processione femminile: dieci ragazze entrano una per volta munite di forbici, e con marcata lentezza arrivano a tagliarsi la lingua, richiamando la dimensione rituale di un gesto iniziatico e prospettando un’irrimediabile afasia. In tal modo si manifesta subito la cifra che sostanzia lo spettacolo e che lo lega alle vicende di Rothko e dell’Empedocle di Hölderlin: la perdita e la sottrazione come condizioni necessarie per una trasfigurazione, per una metamorfosi, per il raggiungimento di una verità più autentica; la perdita infatti genera un vuoto, condizione ineludibile perché ci sia il nuovo.

La recitazione dei versi poetici, a parti interscambiabili, si presenta stilizzata, innervata da un gesto artificioso e straniante che molto si approssima a un esercizio ginnico. La voce, strumento principe nell’espressione del sé, perde progressivamente volume, si ‘atrofizza’, alternandosi a una registrazione sonora volutamente in ritardo rispetto al playback. Il vero fulcro simbolico del testo spettacolare si manifesta però quando le interpreti mettono in figura la circostanza del parto, momento cruciale nella vita dell’uomo, quando, vergine e innocente, per la prima volta si affaccia alla vita. Ed è questa verginità che Castellucci vuole raggiungere, forse con la consapevolezza che – come sostiene Enzo Bianchi – essa è più una condizione di arrivo che un dato di partenza. Di sicuro si prospetta un faticoso viaggio verso l’origine che consegna, a chi lo compie, una sostanziale solitudine.

Le ragazze ri-nate si spogliano a vicenda per poi raggiungere, una per volta, lo spazio dietro le quinte; di loro rimarrà solo una crisalide, gli abiti hamish accuratamente disposti in un cerchio che diventa eco di un’immagine ormai compiutamente negata: non vedremo più un corpo ma sentiremo solo una voce.

Nel finale, Castellucci, si affida ancora una volta all’effetto spettacolare e alla sollecitazione plurisensoriale: se in precedenza lampi luminosi e assordanti scariche sonore avevano dato forma e colore al palcoscenico, adesso un vortice di materia, una sorta di vorace buco nero simbolo del caos primordiale riempie il proscenio. Dopo alcuni minuti si rivela alle sue spalle un fondale con la maschera gigante di una donna che ci nega emblematicamente il suo sguardo, e verso cui le vergini fanciulle, rientrate in scena, si accostano devote.

Quello che abbiamo visto è «la scia luminosa dell’oggetto che prende congedo dal nostro sguardo», la mise en abyme dell’immagine nel ventre del teatro; un teatro che, riprendendo il magistero di Testori è anzitutto ferita, nel caso di Castellucci, invece, provocatoria iconoclastia, fuga da un’immagine che ha perso la sua identità.

Regia, Scene e Costumi: Romeo Castellucci; musiche: Scott Gibbons; interpreti: Chiara Causa, Silvia Costa, Laura Dondoli, Irene Petris

Categoria: Recensioni, spettacoli