Serge Nicolaï, A puerta cerrada

di

     

Questa pagina fa parte di:

Buenos Aires diventa una meta sempre più ambita da chi il teatro lo sogna dall’altra parte dell’oceano. Un gusto per l’esotico misto forse alla nostalgia per un teatro d’artigianato richiama artisti da tutto il mondo, trasformando la metropoli porteña in un calderone d’arte in costante ebollizione.

La compagnia teatrale Timbre 4 è una delle più emblematiche realtà della Buenos Aires sotterranea che negli ultimi anni pullula di idee, artisti e utopie. Accanto ai circuiti commerciale e ufficiale, il teatro indipendente schiude uno scenario sempre più vivace. Timbre 4, fondata nel 1998 da Claudio Tolcachir, ha ricavato il suo spazio nel living di una antica casa chorizo, nel bel mezzo del barrio operaio di Boedo. Questa sede d’eccezione, nel 2012, ha ospitato la residenza di un grande protagonista del teatro europeo, l’attore e regista Serge Nicolaï, membro del Théâtre du Soleil.

La gigantesca macchina teatrale francese a braccetto con una piccola casa-teatro argentina svela un incontro inedito e fortunato.

Fedele al metodo di creazione collettiva proprio del Soleil, il regista sceglie di lavorare con un gruppo di 40 attori che nel corso del laboratorio diventeranno quattro: i prescelti per il nuovo spettacolo A puerta cerrada, da Huis clos di Jean Paul Sartre.

La scelta di un testo denso e, al tempo stesso, scarno d’azione scenica risiede sicuramente nella sua portata universale e quanto mai attuale. Sartre mette tutto il suo esistenzialismo in questa tragica teoria della libertà.

In scena quattro personaggi: il cameriere con la sua presenza evanescente, Estelle bella e aristocratica, Inés arrabbiata impiegata delle poste e Garcin, giornalista pacifico e vigliacco. Sono morti e vengono catapultati nell’inferno. Nessuna fiamma né bufere, fango o sterco ad accoglierli, l’aldilà tanto temuto è una stanza semivuota con al centro tre gelide sedie.

Nicolaï ha scelto una scenografia spoglia e asettica, tradendo le didascalie sartriane che proponevano un salotto del secondo impero, ricco di mobili e suppellettili. Lo spazio sembra fatto apposta per mettere in difficoltà i personaggi, per privarli di ogni comodità. Il filosofo, in fondo, vuole dirci che l’inferno è scomodo, insopportabile, ineluttabile. Il regista del Soleil, allora, rinuncia all’imbellettamento, per scrostare direttamente la superficie e raccontare da subito l’essenza del pensiero di Sartre. L’acciaio prende il posto del divano.

In una condizione sospesa tra la vita e la morte, perché da morti i tre superstiti respirano, urlano e ancora piangono, la loro condanna è vivere l’inferno senza interruzione, a luci accese, occhi sempre aperti, per sopportare le colpe in eterno. Nemmeno il buio, per un attimo, potrà occultarle.

A puerta cerrada è un esempio dell’impossibilità della comunicazione umana in una situazione di estremo isolamento. La solitudine però è preclusa: Estelle, Inés e Garcin vivono attraverso lo sguardo dell’altro, è il pensiero dell’altro che li definisce in quanto esseri umani.

Non possiedono contorni, sono tratteggiati da mille e una sfumatura. Ognuno di loro smette di esistere per sé. Così Garcin è codardo e pure eroe, Estelle è seducente assassina inconsapevole, e l’anima di Inés cade in balia di un fantomatico Dio, degli altri che la giudicano feroce, di se stessa che non si assolve.

La regia è una mano invisibile, che lascia spazio ai corpi e ai fiumi di parole. I personaggi stentano a oltrepassare la barriera dello stereotipo, del già detto, del già pensato. Probabilmente perché sono figure statiche, che non si evolvono. L’interpretazione degli attori invece diventa più autentica man mano che lo spettacolo scorre, tanto da inglobare lo spettatore, chiamato a condividere quella condizione, possibile, temuta o solo immaginata, di costrizione.

Ben più interessante si rivela la sperimentazione linguistica, testimone e portavoce del processo creativo, che propone un’inedita miscela ispanofona: argentino, castigliano e uno spagnolo dalla vibrante uvulare. Gli attori, infatti, conservano la propria biografia e la sperimentano in scena come risorsa: Maday Méndez nei panni di Inés porta sul palcoscenico il suono delle sue Canarie, Josefina Pieres alias Estelle resta fedele al suo strascicato rioplatense, l’attore francese Nikolas Sotnikoff sorprende col suo spagnolo straniero.

La ricerca musicale di Jean-Jacques Lemêtre si dimostra all’altezza del testo e della recitazione. Quieta, inquieta, a tratti esplosiva, la partitura sonora trova il momento di massima tragicità, insieme con la luce che improvvisa esplode sulla scena, quando i tre condannati, confessate le proprie miserie, danno l’ultimo addio al mondo terreno.

Lo spettacolo non si chiude col sipario. Fuori dal teatro siamo veramente liberi di scegliere? E dopo la morte c’è concesso ancora redimerci?

Di sicuro, come ci insegna Sartre attraverso l’interpretazione di Nicolaï, nessuno può salvarsi da solo.

Per le foto © Chiara Ferrin