Sulla fotografia di Ferdinando Scianna, o sulla fotografia come racconto della realtà

di

     
Abstract: ITA | ENG

La posizione di Ferdinando Scianna, tra i più noti e prolifici fotografi italiani, è per molti versi originale rispetto al contesto culturale di cui è protagonista, l’Italia del secondo Novecento. Egli, infatti, non concepisce – e non ha mai concepito – l’immagine fotografica né come documento di valenza quasi scientifica, né tantomeno come puro prelievo di realtà. A partire dal 1965, quando con Leonardo Sciascia realizza Feste religiose in Sicilia, fino ai giorni nostri, come dimostra anche il recente libro Visti&Scritti, è evidente una matrice letteraria nel suo fotografare, la chiara intenzione di costruire un racconto del mondo nelle immagini e con le immagini. Risulta interessante, però, nel riflettere su questi particolari caratteri, scoprire anche alcuni aspetti significativi che pongono la ricerca di Scianna in linea con la riflessione sullo statuto ontologico dell’immagine fotografica e sulle modalità della comunicazione visiva che essa mette in atto.

The role of Ferdinando Scianna, who is one of the most popular and productive Italian photographers, is to a certain extent original when compared to the visual culture in Italy in the second half of the last century. In fact, in his works, the photographic image has never been conceived as a scientific document nor as a fragment of reality. Since 1965, when he published with Leonardo Sciascia Feste religiose in Sicilia, and even recently in his book Visti&Scritti, the literary approach in his photos is always clear, in particular for what concerns the explicit intention of telling the world in images and through images. Lingering on these peculiar features, it is thus interesting to discover some meaningful aspects that link Scianna’s activity with both the thought on the ontological status and the visual communicative expressions of the photographic image.

 

La fotografia, nella modernità tecnologica, gonfia di orgogli e di sfide metafisiche, ha dato agli uomini l'ennesima, affascinante illusione di essere riusciti, almeno in una immagine, a fermarlo davvero il tempo, anche soltanto un istante.

 

Ferdinando Scianna

 

 

1. Breve premessa

Il nesso stringente tra immagine fotografica e racconto è, nel caso di Ferdinando Scianna, un elemento fondante e sostanziale che, nella sua complessità, per metafora possiamo immaginare come una matassa fitta fitta, della quale è bello, e soprattutto interessante, cercare di seguire il bandolo. Nell’universo creativo di Scianna, peraltro, la dialettica tra immagine e narrazione è questione molto articolata e si snoda su più livelli di senso. Partiamo dalla considerazione più elementare, dalla constatazione di come vi sia sempre un racconto sotteso, evocato, suggerito, al limite costruito, nelle fotografie di Scianna, singoli cristalli di memoria densi di significato, che in qualche misura non si danno mai come perfettamente concluse in sé stesse: difficilmente, infatti, le potremmo leggere come perentorie affermazioni di realtà, portatrici di una istanza prettamente assertiva, nel suo esserci stata, bensì le possiamo guardare come tracce di memoria, con tutto lo spessore che questa definizione suggerisce. Pensiamo poi al fatto che Scianna ha spesso esplicitamente costruito un racconto con le sue fotografie, tessendo una trama di rapporti tra le immagini, di rimandi e riferimenti grazie ai quali esse non solo si esaltano e si arricchiscono vicendevolmente, ma diventano lessico di una più ampia narrazione. Così accade, platealmente, nei suoi numerosi libri – forma espressiva d’elezione per Scianna, perché in piena sintonia con la sua intenzionalità e, soprattutto, con la sua concezione dell' immagine stessa – nei quali il testo scritto interviene non a completare il discorso, quanto piuttosto a creare una nuova valenza di senso per la fotografia.

Non dobbiamo però, a parer mio, trascurare di mettere in gioco pure il vivido racconto della sua esperienza di fotografo che in più occasioni ci ha regalato l’autore stesso. Anzi, credo che si possa assumere il suo racconto sulla pratica della fotografia come metafora del suo racconto sul mondo, fatto, quello, con il linguaggio fotografico. Scianna non è certamente avaro quando si tratta di condividere aneddoti, vicende, osservazioni, pareri e riflessioni sul medium che egli utilizza da ormai cinquant’anni, come testimonia l’intervista qui pubblicata. Egli ha un bagaglio di esperienza che sa tradurre in parole, restituendo con immediatezza la necessità, il senso e la natura del suo lavoro attraverso un discorso che mai indulge al tono didascalico o didattico e che risulta scevro di complicate cadenze di marca concettuale. Soprattutto Scianna, anche nel riflettere sul processo fotografico o sulla natura dell’immagine, rifiuta tassativamente una dimensione strutturata e un procedimento sistematico: il pensiero è cristallino, a tratti tagliente, ma è comunicato attraverso paradossi, provocazioni, metafore, ricordi, sempre sul filo dell’autobiografia, senza mai assumere propriamente il tono, la struttura o la veste del saggio. Il registro, anche qui, è più esplicitamente quello dell’affabulazione, il piano non è mentale ma concreto, immerso nella realtà. Un fotografo d’altro canto, da quella, dalla realtà, non può mai prescindere.

 

2. Il racconto del mondo

Mi prendo la libertà di non procedere con ordine e di iniziare una breve riflessione sulla fotografia di Scianna proprio a partire da quella che al momento si può intendere come l’ultima tappa di un percorso, cioè Visti&Scritti,[1] un libro indubbiamente interessante, ma soprattutto illuminante rispetto alla concezione che dell’immagine ha il nostro autore. Questo libro è significativo a partire dal titolo, che evoca con immediatezza la natura del lavoro ad esso sotteso, pur non senza una certa ambiguità: esso, infatti, restituisce intuitivamente il binomio immagine/scrittura, sulla cui dialettica è impostato, e al contempo ci suggerisce più sottilmente la natura del procedimento fotografico stesso, del rapporto di Scianna con il mondo, con i personaggi che egli ha ritratto, che sono stati visti e poi scritti, sia con le immagini sia, contestualmente, con le parole.

Visti&Scritti, 2014 © Ferdinando Scianna

Documento visivo e testo letterario si pongono come il frutto di due registri linguistici, parallelamente praticati, che vanno a comporre la ‘scrittura’ del testo, in un rimando continuo, che non mortifica affatto la valenza di ciascuno dei due linguaggi, bensì ne esalta i caratteri. In primo luogo, va sottolineato che l’operazione messa in atto in questo libro, come in altri – soprattutto tra quelli più recenti penso a Le forme del caos (1989), Quelli di Bagheria (2002), La geometria e la passione (2009) e Autoritratto di un fotografo (2011) – presuppone una specifica concezione della natura dell’immagine fotografica, uno statuto ontologico, che le consente di essere usata, o meglio riutilizzata, in un contesto totalmente alieno, differente per la sua stessa natura da quello che ne ha visto la nascita. Si tratta di un passaggio piuttosto interessante, mi sembra. Se la fotografia fosse intesa nei termini di una fedele registrazione del dato di realtà, il suo legame con esso renderebbe vincolante e indissolubile anche quello dell’immagine con il contesto da cui è presa: senza questi riferimenti, astratta dalla contingenza dello spazio e del tempo, essa risulterebbe pressoché incomprensibile. Se, invece, la fotografia è concepita come un segno, che trova il suo senso nelle stratificazioni della memoria, nel racconto che intorno ad esso, con esso, si costruisce, allora acquisisce una sua esistenza autonoma, una sua ragion d’essere, che va anche al di là del bressoniano attimo pregnante.

Una volta che la fotografia è presa, racchiude una potenzialità di significato che può essere nuovamente agita, messa in campo. Essa, memoria di realtà, può farsi protagonista di un’altra storia e, coerentemente col suo significato, intrinseco e profondo, va ben oltre il dato iconografico, diventa verbo nelle mani del fotografo che la inserisce in una nuova sintassi, attribuendole una rinnovata vitalità. Scianna, infatti, non raccoglie nei suoi libri una hit di immagini significative, o peggio belle, per mostrarle tutte assieme ma costruisce una storia che, grazie allo spessore del ricordo che ogni fotografia porta con sé, assume un senso più articolato, che le trascende tutte come episodi singoli. Il fatto che il fotografo utilizzi i propri scatti con un atteggiamento scevro da istanze filologiche in qualche misura sottolinea proprio il valore, l’autonomia lessicale delle immagini e, al contempo, costituisce una operazione che ha delle evidenti ricadute sulla stessa concezione dell’immagine fotografica, le quali si pongono in linea con alcune attuali tendenze che si fondano proprio sull’idea della fotografia non come trascrizione del proprio referente, bensì come elemento linguistico 'riutilizzabile'.[2]

Credo poi opportuno fare un’osservazione sull’impostazione del libro, nel quale le immagini sono proposte in ordine apparentemente, forse sostanzialmente, però non realmente, cronologico.

Compagni d’oratorio, Bagheria, 1960 © Ferdinando Scianna

La narrazione si snoda di fronte ai nostri occhi dandoci l’illusione della piana linearità, conducendoci per mano attraverso quasi cinquant’anni di vita, vissuta: abbiamo la sensazione di attraversare la storia, per lo meno quella che si è svolta intorno a Scianna, facendo la conoscenza di alcuni suoi protagonisti, dalla metà degli anni Sessanta all’oggi. Se, invece, ci obblighiamo a fare attenzione e assumiamo un certo distacco, allora subito notiamo che in realtà questa storia non procede cronologicamente, se non sostanzialmente: il percorso è costellato da alcuni salti temporali, allunghi e ritorni, che non infastidiscono, essendo il racconto impostato su accostamenti suggestivi di senso, di rispondenza, che si oppongono al ritmo piano del mero passare del tempo.

Si tratta di un aspetto fondamentale perché la libertà con cui Scianna narra di queste persone, amici e conoscenti, noti e sconosciuti, rifugge dalla tentazione di ogni atteggiamento sistematico, di ogni vis catalogatoria, ci allontana totalmente dal registro dell’indagine, portandoci invece in una dimensione letteraria, di visione personale, dettata da una intenzionalità poetica, nel senso etimologico del termine, e certamente non di matrice conoscitivo-documentaristica.

Compagne di scuola, Bagheria, anni Sessanta © Ferdinando Scianna

Lo stesso carattere che possiamo cogliere in ogni singola immagine, in ogni lettura dei soggetti che Scianna si è trovato di fronte: è la medesima matrice che caratterizza molti suoi lavori, a partire dal celeberrimo Feste religiose in Sicilia[3] nel quale il giovanissimo fotografo, insieme a Leonardo Sciascia, racconta – per episodi, potremmo dire – l’intensa natura del sentimento religioso che si scatena in occasione delle feste in Sicilia, e lo fa senza cedere a tentazioni di ordinamento, catalogazione, tipologizzazione, con la capacità di cogliere quello che, anche per caso, la realtà offre. Un po’ bressonianamente, Scianna guarda a quanto gli viene incontro e blocca nella memoria, con uno scatto, quel brano di realtà. Sciascia scriveva, della fotografia in generale ma in rifeirmento specifico alle immagini di Scianna, che essa è

forma generata dall’istante e istante generato dalla forma […]. Tutto è dovuto all’istante, all’attimo che si suol dire fuggente. L’aggettivo ‘istantanea’ giustamente, a buon diritto, è diventato sostantivo: tutte le fotografie, anche le pose, le nature morte, i monumenti, sono istantanee: per eventi di luce, di spazio, di geometria e d’animo anche impercettibili. Quel che corre tra la realtà e l’occhio del fotografo, e che l’occhio del fotografo trasferisce all’occhio della macchina, attiene alla casualità e, se si vuole, alla fatalità. […] Il fatto che il fotografo non si trovi a guardare da un’altra parte, che colga quel momento irripetibile e insostituibile, quella forma generata dall’istante e quell’istante generato dalla forma, si costituisce in fatalità, vocazione e stile.[4]

Quando Scianna affronta il reale, dunque, non si appresta a compiere una indagine sistematica, una verifica sul campo a partire da un’idea teorica, né si impegna nella dimostrazione di alcunché. Semmai si pone nella condizione di costatare la realtà e di costruirne il ricordo.

Festa dell’Assunta, Aspra (Bagheria), 1964 © Ferdinando Scianna

Egli stesso in più occasioni ha fatto notare come le operazioni che compie il nostro cervello nel recuperare un ricordo siano assimilabili ad una forma di narrazione, di ricostruzione di un tessuto di rapporti e siano dunque ben più complesse del semplice recupero di un dato. Sappiamo bene che la fotografia ha a che fare con la memoria, con l’esserci stato, come diceva Roland Barthes: «la Fotografia non dice (per forza) ciò che non è più, ma soltanto e sicuramente ciò che è stato».[5] Mi sembra significativo concepire il documento della memoria per eccellenza come un meccanismo di comunicazione che funziona in maniera analoga alla memoria stessa. Così Scianna coglie e restituisce in immagine episodi, fatti, accadimenti, brani di realtà che traduce in linguaggio (visivo, quando fotografa, ma non è il solo linguaggio che coltiva). Di fronte al mondo, Scianna si pone nella condizione di accogliere la realtà, facendo certo delle scelte, privilegiando degli aspetti, fermando dei momenti che letteralmente salva dal flusso continuo del reale e mette in scrittura, secondo una inclinazione che egli sente come profondamente innata, consustanziale all’essere umano. Egli, infatti, ha in più occasione ribadito il suo pensiero al proposito, che ben è riassunto in questo brano:

siamo uomini per la semplice ragione che a un certo punto dell’evoluzione qualche cosa ci ha dotato di un linguaggio. Il linguaggio è la cosa che ci contraddistingue. Contrariamente agli altri esseri viventi, infatti, noi non solamente sentiamo, ma abbiamo cominciato a pensare, e pensiamo e sentiamo, attraverso un sistema complesso, che chiamiamo coscienza e che si esprime attraverso il linguaggio. Non è quindi possibile avere coscienza, ed essere uomini, quindi pensare, sentire e utilizzare il linguaggio senza voler comunicare. Si vuole comunicare quello che si è, quello che si sente, si cerca di appropriarsi dell’altro e che l’altro si appropri di noi. È la vita, è lo scambio, è il senso stesso del vivere.[6]

3. La realtà mostrata

Per Scianna è stato, quindi, naturale avvicinarsi, con successo, al reportage, che in qualche misura è la forma comunicativa per definizione. Sul finire degli anni Sessanta, quando si trasferisce a Milano, egli inizia la sua collaborazione con una testata importante, l’Europeo, una rivista che vanta alcune tra le migliori firme del giornalismo italiano e per la quale egli svolge, peraltro, anche attività di giornalista. Può stupire, forse, ma non c’è alcuna contraddizione in fondo: Scianna è sempre stato attratto dalla scrittura e, come proprio in quegli anni i fotoreporter cercavano di dimostrare, o meglio di far comprendere, il fotoreportage è a tutti gli effetti una forma di giornalismo, benché per immagini. Nella veste di corrispondente da Parigi, Scianna ha occasione di conoscere meglio la cultura francese e ne frequenta i protagonisti: tra i tanti intellettuali con cui può confrontarsi, fondamentale è chiaramente la conoscenza diretta di Henri Cartier-Bresson, il cui lavoro egli già conosceva e apprezzava e con il quale si sentiva in sintonia, in un rapporto di stima reciproca, per altro, visto che nel 1982 il maestro ha introdotto Scianna, primo italiano, nell’agenzia Magnum. Credo che la pratica del reportage, nella quale Scianna si è distinto realizzando servizi di grande valore, abbia costituito per lui certamente uno sbocco naturale, e al contempo un’ulteriore spinta verso una idea di fotografia che era già chiara nella sua mente, fondata su un confronto serrato, diretto, vicendevole e dialettico con il reale, in una dimensione che non lascia margini di divagazione.

La geometria e la passione, 2009 © Ferdinando Scianna

Scianna si pone di fronte al fatto pronto a restituirlo in immagini che non vanno certamente lette in termini estetici, simbolici o evocativi, bensì sono la traccia visiva di eventi che erano da raccontare, o sarebbe meglio dire, da mostrare. Ci aiutano a comprendere meglio come Scianna interpreti un ruolo tanto delicato, ancora una volta, le riflessioni che l’autore ha pubblicato sul reportage, in un testo più specificatamente dedicato ad una questione pregnante, soprattutto oggi: l’etica nel reportage.

Non è questa la sede per approfondire quello che è un problema fondamentale nel giornalismo, ma vale la pena di soffermarci su alcune affermazioni che implicitamente fanno chiarezza su quelle che secondo Scianna sono le caratteristiche precipue del linguaggio fotografico tout court. Egli, infatti, perentoriamente com’è sua abitudine fare, afferma:

la fotografia mostra, la fotografia non dimostra. La funzione ideologica di una fotografia, non diversamente in questo caso, da qualsiasi altra immagine, viene generata dal ‘testo’ che virtualmente ognuna di esse contiene. Nel caso di una fotografia, il testo che aveva in mente chi l’ha scattata, ma soprattutto l’interpretazione che chi la usa e chi la riceve danno di quella immagine. Insomma, la fotografia ci mostra il morto, raramente la causa della morte e, quanto all’assassino, quello ce lo mettiamo noi.[7]

È certa, d’altro canto, «l’irriducibile ambiguità della fotografia quando essa viene utilizzata non per documentare una cosa, un fatto, ma per dimostrare una tesi», magari, facendo riferimento a modelli, a immagini già note. Per comprenderne bene la natura e gli usi, per saperla leggere, bisogna fondamentalmente riportare la fotografia «alla sua natura di linguaggio che, in quanto tale, può mentire come dire la verità».[8] Insomma,

quello che dobbiamo sapere è che la fotografia, come tutti i linguaggi, va presa con le pinze, che non può essere in sé prova e dimostrazione di alcunché perché quello che prova è quello che mostra, non quello che significa. Questa consapevolezza tuttavia non elimina nella natura specifica della fotografia il suo tecnicamente ineliminabile residuo di documento.[9]

È, infatti, innegabile che fare, o sarebbe meglio dire, come si fa nel mondo anglosassone, “prendere”, fotografie è una pratica che si fonda necessariamente su una totale immersione nella realtà e che comporta una partecipazione fisica, quindi non solo effettiva e concreta ma anche coinvolgente in modo totalizzante, a quanto accade. («So che la mia fotografia è legata non solo alla curiosità intellettuale, ma anche alla passione di vivere, alla curiosità fisica dei luoghi, al desiderio di raggiungere l’ipotetico istante in cui una fotografia è possibile»[10]). Allora diventa chiaro perché Scianna ritiene che la fotografia sia un linguaggio di natura differente – radicalmente e sostanzialmente differente – rispetto alla pittura, cui invece è stata spesso accostata, pur essendo entrambe immagini in cui la tridimensionalità della realtà viene tradotta sulla bidimensionalità del supporto. Se il pittore crea una realtà illusionistica dà vita a qualche cosa che prima non esisteva, il fotografo, invece, non prescinde dal reale, lo percepisce, lo legge e poi lo racconta: con il reale il fotografo, non solo il fotoreporter, deve sempre e necessariamente fare i conti, a partire dal momento stesso in cui, con un click, ne cattura una immagine. Il fotografo, quando realizza il suo scatto, è immerso nella realtà che ci vuole mostrare, ne fa egli stesso parte, come ben argomentava Italo Zannier in un articolo del 1973:

credo sia un personaggio assurdo e comunque improbabile, quello del fotografo come osservatore distaccato della realtà, la sua collocazione topologica – la sua presenza nello spazio, al vertice di un cono ottico fluido e indeterminato – stabilisce un intimo amalgama con questa realtà, anche supponendo di considerare asetticamente (come se si trattasse di un robot meccanico però a sua volta “programmato”) la situazione dinamica, che si svolge non dinanzi, ma che lo coinvolge nella medesima vicenda umana. Egli, quindi, il fotografo, viene a determinare una nuova, imprevedibile realtà, per il fatto stesso d’esserne partecipe – non importa se come attore o spettatore – poiché questa condizione non lo pone passivamente dinnanzi alla realtà – come accade d’altronde anche in teatro – ma in dialogo con essa, attivo e determinante nella evoluzione dell’happening.[11]

Questo rapporto, come ogni rapporto, è dialettico, e quindi ogni volta in fieri, non si può fondare su alcuna pregiudiziale intenzione e il risultato, l’immagine, nasce proprio dalla contingenza di questa relazione. La fotografia è un’ interpretazione, sempre personale, mai univoca, perché l’autore è in qualche misura a sua volta un protagonista degli accadimenti, degli incontri, fa delle scelte, ma in tempo reale, dettate da scarti improvvisi e mette in questa dinamica tutto se stesso in gioco. Se tale atteggiamento è evidente nell’agire del fotoreporter, questo complesso nesso che si stabilisce tra il fotografo e la realtà non riguarda esclusivamente la fotografia giornalistica: nel caso di Scianna pensiamo subito ai ritratti – dialoghi per immagini – , e alla fotografia di moda, nella quale, sin dai tempi della celebre collaborazione con Dolce & Gabbana, il fare di Scianna mi pare si possa definire, in qualche misura, 'eccentrico', nel senso di personale e originale, seppur coerente con i suoi modi e con il suo vivere la pratica fotografica. Lascio volentieri la parola a Claude Ambroise, che fu appassionato esegeta dell’opera di Leonardo Sciascia e che ci ha regalato un’intelligente lettura del lavoro del nostro autore. Egli, riflettendo su Scianna fotografo di moda, ha fatto alcune interessanti osservazioni, che vale la pena di rileggere. Egli scriveva:

nella pratica di Scianna, l’emozione più che una dialettica, promuove una alchimia. La fotografia è sempre stata arte d’alchimista. Il fotografo è colui che, ad un certo punto, riesce a ricomporre e fermare ciò che si muove. […] Quando irrompe Marpessa nel mondo sciannesco è una emozione: qualcosa si muove veramente dentro e fuori, un mondo di forme e valori viene destabilizzato. Ma specularmente, come verrà ripetuto nei reportage di moda successivi, proiettando sulla modella, sul suo universo, uno sguardo venuto da fuori, Scianna destabilizza il sistema della moda, la retorica della rappresentazione sociale che esso vorrebbe imporre.[12]

Ambroise prosegue col constatare che, come già in Feste religiose, «nel fotografare le modelle Scianna rifiuta la sacralizzazione della moda, impossessandosi di sguardi estranei. Lo stesso atteggiamento era reperibile nel suo primo reportage. Il tema scelto, perché non si verificasse una identificazione con il sacro, imponeva che venisse recuperato uno sguardo da fuori».[13]

Quindi,

ad uno sguardo attento alla foto di moda così come viene concepita da Scianna, non sfuggirà che la modella, lungi dal cancellare la presenza di quanto la circonda, ci costringe invece a scoprire che cose e persone vi hanno una qualità intrinseca che non le rende meno degne di chi indossa il tailleur di Saint-Laurent o l’abito di Ferrè. E ciò per il semplice fatto che ogni foto, anche se scattata per un rotocalco, è, nella mente di Scianna, rete di relazioni tra loro congiunte. Non è possibile, in queste condizioni, non diventare attenti a coloro che indossano i vestiti, non per darli a vedere e ammirare, ma perché con essi si muovono nella quotidianità della vita.[14]

Testimonianza di come Scianna abbia inteso il suo rapporto con la moda in senso ampio, andando certamente oltre l’esaltazione dell’abito, è il celebre libro dedicato, appunto, a Marpessa, la modella che egli ha conosciuto ai tempi della fortunata campagna per Dolce & Gabbana, nel 1987. Immortalata nei servizi di moda, Marpessa è diventata, attraverso i suoi intensi ritratti, la protagonista di un racconto sulla bellezza, sulla femminilità ed è così entrata a pieno titolo nel novero dei personaggi che hanno costituito l’immaginario di Scianna, dimostrandosi oggetto di una attenzione senza la quale non avrebbero potuto esserci le tanto fortunate campagne di moda. [15]

Nella fotografia di moda, infatti, Scianna ha sempre messo in scena una narrazione più complessa di quanto ci saremmo aspettati, costruendo ogni volta un nuovo racconto del mondo, della vita. Perché questo è quanto a lui interessa, sempre, nella sua veste di fotografo: i suoi modi e il suo linguaggio, nella loro sostanza più profonda, non cambiano certo in base al soggetto o alla destinazione dell’immagine, ma coerentemente restano uguali a se stessi in tutte i differenti ambiti in cui l’autore li ha declinati.

Marpessa, Palermo, 1987 © Ferdinando Scianna

 

 


1 F. Scianna, Visti&Scritti, Roma, Contrasto, 2014, quarta di copertina.

2 Si veda al proposito C. Casero, ‘Fotografando immagini. Come la fotografia diventa simulacro’, in C. Casero, M. Guerra (a cura di), Le immagini tradotte. Usi passaggi trasformazioni, Reggio Emilia, Diabasis, 2011, pp. 32-45.

3 L. Sciascia, Feste religiose in Sicilia, con fotografie di Fernando Scianna, Bari, Leonardo Da Vinci, 1965.

4 L. Sciascia, ‘Fotografo nato’, in I grandi fotografi. Ferdinando Scianna, Milano, Fabbri, 1983, p. 4.

5 R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, trad. it. R. Guidieri, Torino, Einaudi, 1980, p. 86.

6 ‘Il sole mi interessa perché fa ombra. Intervista con Ferdinando Scianna’, in V. Fagone (a cura di), Ferdinando Scianna. Fotografie 1963 – 2006, catalogo della mostra, Fondazione Ragghianti, Lucca, 8 luglio – 1 ottobre 2006, Lucca, Edizioni Fondazione Ragghianti Studi sull’Arte, 2006, pp. 11-12.

7 F. Scianna, Etica e fotogiornalismo, Milano, Electa, 2010, pp. 9-10.

8 Ivi, p.11.

9 Ivi, p.14.

10 Ferdinando Scianna. Lo specchio del fotografo, in I Grandi Fotografi Magnum Photos. Testimonianze e visioni del nostro tempo, Milano, Hachette, 2004, p. 4.

11 I. Zannier, ‘L’ago dentro e l’immagine purificatrice’, in Il Diaframma. Fotografia Italiana, n. 181, aprile 1973, p. 36.

12 C. Ambroise, ‘Fotografie come modelle’, in Scianna. Altrove Reportage di moda, Milano, Federico Motta Editore, 1995, p. 11.

13 Ivi, p. 14.

14 Ivi, p. 15.

15 F. Scianna, Marpessa, un racconto, Milano, Mondadori, 1993.