1.1. Una lettura pericolosa

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Una prospettiva di lettura forse o almeno in parte nuova di questa materia potrebbe allestirsi partendo dal constatare l’aver Dante da subito messo in scena una situazione di stravolgimento – così suo come delle anime – rispetto all’immagine di serena concordia, potremmo dire, tra filosofia e poesia, che ci è dato trovar rappresentata e figurata nell’episodio del ‘nobile castello’ del canto IV infernale (Aversano 2015, pp. 409-10). Ora i peccatori carnali sono tormentati dalla bufera almeno quanto coi loro desideri non sottomessi a ragione furono ‘molesti’ creando disordine, rompendo convenzioni e patti; è su questo agire perverso che il poeta intende imporre una visione del cosmo appresa all’etica cristiana del miglioramento e della perfezione collettivi, pronta ad articolarsi in opposizione alle prospettive limitate e illusorie che qualificano l’uomo attraverso le parole della poesia o della filosofia. Si tratta come è noto di un’immagine provvisoria di armonia o di concordia che sul momento fa dimenticare persino a Dante gli orrori incrociati nell’attraversare il vestibolo dell’Inferno o nell’affrontare la trista rivera d’Acheronte, e farà quindi sentire i propri effetti oserei dire fino allo shock del richiamo di Catone, incaricato di aprire nuovi orizzonti percettivi nell’area oramai pre-purgatoriale. Col canto V Dante entra in un’atmosfera che dalle prime battute risulta di alterazione, divisiva, appunto ‘diversa’ dalla precedente: dove risuonano parole di dolore, «diverse lingue, orribili favelle» (Inf. III, v. 25), tali appunto da impostare un’idea di comunicazione distante da quella, in tutta apparenza ordinata e positiva, che aveva spinto il poeta-pellegrino a inorgoglirsi per essere stato accolto dai maggiori intellettuali dell’antichità e immaginare forse un primo acquisto di una magnanimitas sotto la protezione di un già esclusivo ma ora partecipato modello classico per la propria attitudine, sia poetica che esistenziale. Il vistoso effetto di contrasto sul quale si apre il canto spinge forse il lettore a chiedersi, a norma di ragione e non di ‘affetti’, quale sia stato il valore più vero di quell’antico insegnamento, specie guardando al nuovo orientamento che la poesia dantesca dovrà mostrare alla luce dell’etica della salvezza cristiana sotto il cui segnacolo si svolge l’appena principiato itinerario di un poeta che intende presentarsi come nuovo.

Ecco dunque accamparsi intanto la singolare presenza di un giudice infernale del mito pagano come Minosse che «orribilmente ringhia», e tanto punge «a guaio» da potenziare al sommo la condizione già dolorosamente segnata dei dannati; riflettendosi allora sul lamentabile regnum – traccia virgiliana emergente nel «doloroso ospizio» del v. 16, che Dante mette subito lì come segnale per riprenderlo nientemeno che in Purgatorio XII, 20 («[…] per la puntura de la rimembranza / che solo a’ pii dà de le calcagne», accompagnandola con lacrime che nascono dal pentimento per i propri peccati e non certo dalla nostalgia del vivere passato), proprio al fine di agganciare il lettore alle valenze di legame che stringono il verbo pungere, quasi invariabilmente nella Commedia, alla condizione elegiaca del ricordare (Aversano 2015, pp. 405-6).molesta quasi fosse in essa stessa il condensato unico della pena degli umani lussuriosi. E solo a seguire si tratterà davvero dell’irrompere del tema dell’amore pur esso, ovviamente, in termini di stravolgimento; a mostrarsi in tutta la sua forza di turbamento e sovversione del normale ordine dell’esistere (usualmente invece proiettato al fine di perfezionamento dell’anima individuale), dunque quell’amore che fu già veicolato dalla poesia cortese come prima ancora, vedremo, e altrettanto potentemente dalla poesia antica. Per adesso però giova tener conto di queste prime impressioni, di molestia e di «ruina», delle strida e del compianto, di lamenti e di bestemmie, attraverso cui il poeta si sta avviando verso un più ampio discorso destinato a coinvolgere la forza di un amore concreto, non astratto ma specialmente individuale quale fu quello conosciuto attraverso le ‘prose di romanzi’ o la lirica d’amore: un discorso impostato sul valore della parola che parla d’amore e sulla poesia che se ne fa carico in termini di esperienza personale, concreta (Gragnolati 2013).

E a voler restare ancora per poco sul tema portante di una situazione di contrasto o di disordine che caratterizza le prime battute di questo canto, non potremo non rilevare come anche nelle prime due similitudini aviarie, sulle quali sembra molto insistere il poeta, l’opporsi del caos degli stornelli al fare «in aere di sé lunga riga» delle gru potrebbe effettivamente anticipare l’idea di un incanalamento o superficiale controllo delle passioni esercitato all’interno delle rigide e convenzionali formule di quella poesia cortese d’amore (e prima ancora che di questa specifica materia si faccia parola nel canto), che vedremo essere elemento centrale della narrazione dell’episodio-guida di tutti questi versi così come dell’immagine delle colombe assunta a simbolo del canto da Tom Phillips: [fig. 1] quelle colombe che, «con l’ali alzate e ferme», nel testo dantesco mimano un aereo amplesso (Freccero 2009, pp. 14-16; Pirovano 2015, pp. 5-7), per figurare anch’esse come prese dentro un discorso d’amore e una sua rappresentazione in parola di poesia. Le colombe risulteranno in vario modo legate ad alcune delle ben nove occorrenze della parola amore concentrate nel canto V; dalla parte di questa stessa figurazione (ripresa nel poema come ognun sa da Virgilio, Aeneis, VI, 190-91 «geminae cum forte columbae / ipsa sub ora uiri caelo uenere uolantes» e dal V, 216-17, «[…] aëre lapsa quieto / radit iter liquidum celeris neque commouet alas») sta altresì la convocazione dei due dannati in forza di un disio – «dal disio chiamate» – unita al loro spostamento in ragione di un voler – «dal voler portate». Intendo: comincia da qui ad articolarsi una narrazione che risulta fortemente vincolata alle funzioni sulle quali la parola poetica ha inteso modellare un discorso d’amore, e con le quali Dante viene a confrontarsi in quanto poeta.

Altro segnale dal quale possiamo dire possibile ricavare la dichiarazione dantesca di un effettivo coinvolgimento dentro un amore terrestre, potenzialmente pericoloso in quanto umano nonché di poetica risultanza, sta a mio avviso nel sintagma al v. 88, «animal grazioso e benigno», giusta un’allocuzione dentro la quale vistosamente, quanto almeno parzialmente, Dante si assimila alla condizione ‘animalesca’ che caratterizza i tanti amanti folli. Perché con esso sintagma sembrano anche aprirsi alcune importanti linee interpretative del canto relative al personaggio-poeta: ‘essere animato’, appunto, ma a differenza degli astanti dotato del dono della Grazia che gli permette una certa qual distinzione rispetto a quei peccatori da lui ritenuti anche troppo a lui prossimi in ragione della sua storia precedente e terrestre (e talmente vicini da sprofondare lui stesso in chiusura di canto, assai pericolosamente, in analogo destino di morte).

Avvisati d’altronde della costruzione di un ragionamento anche poematico, emergente sotto la trama di curiosità indotte dalla presentazione di vari personaggi-amanti del passato, ci fanno la presenza e la funzione di Virgilio richiamate e come intensificate all’interno di questo canto. Presenza e funzione che non stanno strette ovviamente al solo comparire del giudice Minosse o all’immagine del volo regolare delle gru, o anche al defilé degli amanti perversi di vistosa rilevanza classica; piuttosto l’ipotesto virgiliano pare singolarmente effettuale nell’insistere dantesco sull’essere questi peccatori ‘senza speranza’ – come ha rilevato Virgilio stesso a proposito del Limbo e di sé: «sanza speme vivemo in disio» (Inf., IV, v. 42), che significa aver essi identificato nel solo desiderio quella pulsione che ha finito per allontanarli dalla salvezza (di cui la speranza è un anticipo), presi proprio i personaggi dell’epica antica – sulla via di una dannazione certa – da una passione che è priva di uno scopo costruttivo in senso cristiano. Questi ‘soggetti desideranti’ non troveranno mai pace, pari guarda caso alle colombe di cui nel salmo 54, 7, comunque con segno rovesciato di senso, il salmista desidera possedere le ali per raggiungere la quiete finale della morte, secondo la lettura dell’Agostino delle Enarrationes in psalmos.

Sono i primi ma importanti cenni allusivi calati nella prospettiva dantesca intesa a definire un’esperienza, quella dell’amore umano e deviato dalle passioni in eccesso, che comincia ad essere considerato privo di evoluzione positiva, privo di un futuro degno, anzi destinato a una morte che vedremo sarà figurata qui così nel suo aspetto proprio (attraverso la memoria di casi passati) come nel suo esito traslato, con la ‘morte’ metaforica dello stesso personaggio-poeta.

Di più, gli effetti di una forte riflessione di taglio poematico restano garantiti lungo l’intero arco del canto dalla presenza funzionale del personaggio letterario Virgilio, appellato ad esempio ‘poeta’ per la prima volta nella Commedia e con la figura di Didone ad agire quasi da guida per Francesca (uscendo le anime dei due amanti dalla schiera ov’è Dido, appunto), entro la configurazione di un episodio tragico quant’altri mai anche perché riparato all’ombra dell’Eneide e della riscrittura dei suoi canti II e VI (Villa 1999); liquidandosi contemporaneamente a questa scelta di campo i libri contenenti romanzi cortesi come il Lancelot en prose, le tante altre esperienze costruite su Ovidio e sull’estetica del solo desiderio, ma anche quella poesia lirica d’amore volgare portata a emersione con le citazioni formulari dei tre celeberrimi statements lirici dei vv. 100-106, che dicono di un antico accesso dantesco proprio a questo tipo di modelli poematici o insomma di libri che parlano dell’amore umano. Portare allora in campo il libro d’amore come fa Claudio Bonichi nel suo dipinto [fig. 2] ha senso speciale anche in ragione del farci ricordare il ruolo vieppiù rilevante qui di Virgilio, rimasto troppo tempo fioco perché reso distante, disatteso e deviato dai suoi più originali portati giusto dalle esperienze dei più recenti mediatori in poesia. E saranno le triadi eroiche a portare in campo gli amanti tragici dell’antichità come coloro che, secondo il narrare di tanti libri, trasformarono la passione in lussuria, l’amore in voglia senza misura, assieme ai «cavalieri» ricordati al v. 71, proprio mentre lo speciale assetto di questa parte del canto viene a convalidare il legame pure dantesco con una poesia antica impostata su quella così caratterizzante immedesimazione emotiva, in particolare evocata attraverso le tracce di lacrime di compassione sparse qui dentro un alto numero di versi (Fenu Barbera 2017, pp. 41 ss.).

Sarà Dante stesso a dirsi preso poi da compassione e immedesimazione analoghe a quelle che avevano definito la parabola degli antichi amanti folli e i libri della poesia che ne aveva cantato i destini. Fino a riconoscersi erroneamente pio (v. 117) nel senso dell’aver mostrato una pietà maldiretta e dunque spesa su circostanze di una voglia senza misura che, a seguire la distesa dei personaggi della storia antica e della finzione letteraria, è proprio quella evocata da Francesca con le citazioni dei versi di più o meno esplicita apparenza stilnovistica: Paolo e Francesca avranno fatto agli occhi di Dante una lettura ‘carnale’ del libro del Lancelot, come guidati dal cattivo esempio della poesia volgare d’amore o se volete dell’esperienza d’amore a quella poesia ispirata, improntata a un desiderio incondito, non frenato dalla ragione né ispirato a prospettive di speranza oltremondana. L’assenza di speranza riguarda di fatto i tanti personaggi ricordati qui anche nelle triadi, portati a morte senza possibilità di futuro riscatto da una passione che l’aiuto di una lettura ‘folle’ ha trasformato in lussuria.

Bene si intende quale densità di sfumature trattenga un verso come «Caina attende chi a vita ci spense», che pare rinviare nel secondo emistichio proprio al senso di ‘colui che ci privò della possibilità di una vita eterna’, impedendoci appunto di pentirci o di rimediare cristianamente al nostro peccato (Pierotti 1993). Ecco perché la Caina – o Caino traditore, secondo alcune interpretazioni – attenderebbe Gianciotto, portando in campo una forma di rancore da parte di Francesca per averla il marito uccisa o fatta uccidere in stato di peccato, impedendole diciamo così di continuare nella lettura e quindi di pentirsi o di scontare ancora in vita la colpa commessa; o meglio ancora – seguendo la traccia del discorso anche poematico sulla quale è costruito l’intero episodio – di leggere finalmente ogni testo d’amore anche adulterino in un senso meglio guidato da ragione e dunque salvifico. E sarà allora l’accumulo di questi segnali orientati nella prospettiva di un suggerire una forma cristiana e razionale per l’amore degli umani a dare significato assai rilevante pure all’espressione «quel giorno più non vi leggemmo avante», intelligibile a pieno solo se legato alla constatazione del non avere i due amanti avuto la possibilità di leggere anche quella parte del testo del Lancelot comprensiva del pentimento di Lancillotto e del suo riscatto dalla colpa.

Sono dunque le lacrime, sparse per ogni dove in questo canto, a dirci della forte partecipazione emotiva da parte di un Dante ‘lettore’ assimilabile ai due amanti; quello stesso coinvolgimento che, fondendo assieme pianto e parola («dirò come colui che piange e dice», v. 126, in vistosa rispondenza coi vv. 139-140), stinge pericolosamente per il poeta sul ricordo di letture che di affetto, di lacrime e di immedesimazioni dovrebbero fare a meno: ora che la prospettiva dell’uso di ragione e l’obiettivo finale di salvezza cominciano ad allontanare dalla mente del poeta le sue giovanili stagioni poetiche definite proprio all’ombra di quei valori (ora disvalori) di umano appassionamento. E sono le stagioni poetiche evocate dalla triplice declamazione di Amor…Amor…Amor a portare nella materia del poema il rischio appunto di una ‘cattiva’ lettura di quei testi d’amore, come quella solo narrativa e emozionale operata da Francesca e Paolo, presa dall’incantamento di una finzione narrativa che letteralmente ha impedito agli amanti di andare al di là dal «punto che li vinse» (Lombardi 2014). Questo a significare sia il luogo testuale dove l’immedesimazione in una lettura ‘carnale’ ha raggiunto l’apice, sia il momento della completa confusione tra finzione e realtà; dell’identificazione cioè – attraverso la pratica della lettura e l’uso dei libri d’amore – di Francesca e Paolo con Lancillotto e Ginevra, avvenuta in forza dello scatenarsi di un sentimento di reciproca pietà quale effetto di reciproca compassione e non esattamente di conoscenza del peccato; della pratica allora di una passio in eccesso per quanto ‘accade’ fra le parole di un testo non regolato dall’uso di ragione.

Insiste perciò su questi campi semantici anche il parallelismo, eseguito a più livelli di senso, fra gli amanti e le colombe presenti ai vv. 82-84, essendo queste da sempre espressione dei desideri umani circoscritti alla sfera sensibile e quasi forme canoniche di una negligenza portata a quel fine di salvezza che deve riguardare ogni essere umano (Shoaf 1975). Nel canto di Casella, in Purgatorio, verrà a configurarsi una situazione analoga, con le anime dimentiche del fine «d’ire a farsi belle» e dunque paragonate proprio a colombe in quanto contente solo della falsa consolazione di un canto d’amore, di una distrazione cortese, della falsa promessa di un Amor che nella mente ragiona loro («sì contenti, / come a nessun toccasse altro la mente»), finendo per avere facile gioco con chi si affida solo al disio, a una voglia pari a quella materiale di una colomba in cerca di cibo o, per analogia, al gusto per una poesia da aula cortese, insufficiente alla salvazione perché troppo e solo attrattiva, dotata così di ‘false imagini di bene’ come di false promesse di amore eterno. Anche in questo caso sarà messa in campo la seduzione del canto profano nei termini del principale «scoglio che impedisce di vedere dio manifesto», veicolato appunto da un libro.

Ormai credo possiamo considerarci convinti, specialmente in ragione di quanto appena rilevato, del fatto che al centro della narrazione del canto V Dante ha posto una sua propria e approfondita riflessione attorno al valore della parola letteraria espositiva del verbo d’Amore. Parola di tenore profano che può in ogni momento ‘disviare’ l’intelletto dal proprio obiettivo di virtuoso perfezionamento. E coinvolto qui più volte l’atto del leggere anche nella prospettiva del farne una direttrice di senso in stazioni successive dello stesso ragionare dantesco (Popolizio 1980)moto spiritale generatore inesausto di una gioia impermeabile ai valori dell’annientamento:

 

così l’animo preso entra in disire
ch’è moto spiritale e mai non posa
fin che la cosa amata il fa gioire.
 

Quindi identificare nel «disire / ch’è moto spiritale» il più vero obiettivo dell’amante cristiano consegue all’implicito sollecito ad andare oltre la lettera di quei testi ai quali Francesca e Paolo hanno affidato identità e vita senza avvisarsi del fatto che i tradizionali testi d’amore comunicavano prospettive prive di speranza, avvinte a un desiderio erotico fine a se stesso allorquando si resti presi nel giro di questi valori superficiali della parola d’amore e non delle superiori sostanze del verbum divini amoris.

E infine. Un intertesto per nulla estraneo al tema di una ‘pratica di lettura’, da Dante echeggiato forse in filigrana a questo straordinario episodio di riflessione poematica, è quello che porta in campo un luogo delle Confessiones agostiniane (VIII, 12) che anche solo sulla punta del «dicebam haec et flebam» incastonato nel dantesco «dirò come colui che piange e dice» altro non può se non portare il ricordo di un momento intensamente drammatico della vita e dell’opera agostiniana: mentre il saggio di Madaura legge le parole di san Paolo in merito al disvalore dei testi profani, una voce che dice «Tolle lege, tolle lege» riesce a distogliere il lettore da quell’impegno in una letteratura intesa alle declinazioni delle emozioni, a una superficiale empatia si direbbe oggi e non alla costruzione del sé nella chiave cristiana della cognizione del peccato. Dopodiché scatta un’espressione che nessuno potrà mai negare reimmessa da Dante – ma con segno mutato – così nel dire di Francesca come nel suo proprio riflettere sul valore delle parole dei testi antichi, dei romanzi d’amore, della lirica del suo tempo giovanile: «nec ultra volui legere nec opus erat».

La vicenda d’amore di Francesca e Paolo – già compartecipata da Dante – è dunque figura di una colpa nel senso che nella ricostruzione operata nell’area dei lussuriosi infernali corrisponde a una lettura ‘appassionata’ e come letterale dei testi che trattano d’amore, inducendo un tipo talmente sbagliato di pietà – equivalente a affetti e affanni e talento e «dubbiosi disiri» – da portare a nient’altro che alla morte, così dei protagonisti di quelle storie come dei poeti che ne prendono ispirazione e come anche dei lettori che vi ripongono più di una superficiale credenza. Morte definitiva e non suscettibile di salvezza, dato che impedisce alla mente qualsivoglia operazione di riscatto; e morte figurata nientemeno che dallo stesso Dante in chiusura di canto nella rilettura di una fase del suo fare poetico, fortemente appresa a uno stato di identificazione con passioni che i testi d’amore non finiscono mai di consegnare a un’interessata lettura, troppo distante però e oramai condannabile alla luce dei nuovi orizzonti di senso offerti alla stessa poesia d’amore dalla nuova poesia cristiana e allegorica, per l’accesso alla quale Dante sta predisponendo ogni suo strumento verbale.

 

Bibliografia

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