1.2. Le fonti figurative del V canto dell’Inferno

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Nell’identificazione degli eventuali precedenti figurativi di cui Dante poté eventualmente tenere conto nella costruzione scenografica del V canto dell’Inferno, possiamo senza dubbio partire dalla figura di Minosse che il poeta desume dal VI libro dell’Eneide di Virgilio ma che nella Commedia perde le caratteristiche dell’austero quesitor virgiliano (Eneide, VI, 432) che scuote l’urna dei fati, convoca l’assemblea dei morti silenziosi, li interroga e ne apprende i delitti, per assumere invece alcuni tratti tipicamente demoniaci. Il temibile giudice infernale, privato della profonda dignità che ancora manteneva nell’autore latino, diviene difatti in Dante un essere mostruoso e animalesco che ringhia «orribilmente» (v. 4) e avvolge la coda attorno al corpo tante volte quanti sono i cerchi che il dannato dovrà discendere. Sono proprio questi primi elementi con cui l’infernale macchina di giustizia si presenta al viator a delinearne il nuovo aspetto bestiale, assente nelle fonti classiche: una connotazione ferina e demoniaca, che all’altezza del XXVII canto dell’Inferno, per voce di Guido da Montefeltro, si preciserà ulteriormente per l’inserimento di un dettaglio aggiuntivo: il «dosso duro» (v. 125) che, unito al ringhio terrifico e alla lunga coda (le cui connotazioni eminentemente falliche sono state più volte evidenziate dalla critica), completerà la costruzione immaginifica di questa creatura bizzarra, strumento di quella giustizia divina, di cui rappresenta, in sostanza, la stravolta parodia. Mentre la coda che si annoda come serpe, quasi entità a sé stante, benché al servizio del bestiale giudice infernale, in qualche maniera istituisce un nesso rispetto alle note rappresentazioni della Lussuria diffuse in epoca medievale, il mostro dantesco, inteso nel suo insieme, richiama con evidenza un’altra iconografia ben attestata nel Medioevo romanico e gotico, quella del demone giudicante, di cui pare che il poeta più ancora della fonte classica abbia voluto tener conto per ambientare opportunamente il personaggio nel cerchio dell’inferno che si trova a presidiare.

Cerchiamo allora di identificare quelle immagini che Dante poté estrarre dalla ricca biblioteca interiore, fatta di immagini viste e meditate, osservate e sofferte, durante i suoi tragitti lungo la penisola, prima e dopo l’esilio. Di sicuro possiamo annoverare l’enorme e terribile Lucifero concepito da Coppo di Marcovaldo fra 1260 e 1270 per il settore dedicato all’inferno nel battistero di San Giovanni, il «bel San Giovanni» di Inferno XIX, 17. Enorme e corpulento, il demonio fiorentino domina possente un’orribile «stipa di serpenti» (Inf. XXIV, 82) e di dannati sottoposti a orribili martiri [fig. 1]. Le serpi lo circondano con le loro spire inanellate e lui stesso siede sui corpi delle più imponenti, forse generate e vivificate dalla sua stessa figura e da leggere come strumenti e sostegni del maligno, né più né meno della coda annodata dal Minosse dantesco.

Durante il probabile soggiorno trevisano, presso la corte di Gherardo da Camino (1304-1306), il poeta poté forse visitare il palazzo arcivescovile della città e vedere gli affreschi, eseguiti già attorno al 1260, che allora ricoprivano le pareti della cappella episcopale, al primo piano dell’edificio. Sotto la grande Anastasis, oggi frammentaria, che, assieme all’Entrata di Cristo a Gerusalemme, doveva far parte di un più vasto ciclo della Passione, un demonio tutt’altro che umiliato, come di norma appare nell’iconografia della Discesa agli inferi, in quanto schiacciato dalle porte scardinate del Limbo, siede invece ancora sovrano del suo regno [fig. 2]: il principe dell’inferno artiglia con forza le protomi delle due serpi che ne animano la seduta o che di nuovo come code sortite dal «dosso duro» (Inf. XXVII, 125) e villoso del diavolo ne costituiscono il funesto completamento. Un’altra significativa rappresentazione di demonio, giudice infernale, che poté forse attrarre l’attenzione dell’Alighieri e trovare spazio in quell’ampio repertorio di fonti figurate cui attingere nell’ideazione dell’immagine poetica, si trova effigiata nel Giudizio universale che riveste la controfacciata della basilica di Santa Maria Assunta a Torcello, mosaico eseguito alla fine del secolo XI con interventi sostanziali nel secolo successivo. In questo documento figurato cui si vuole attribuire valenza di fonte a tutti gli effetti, anche per quanto concerne la presenza di Dante nella laguna, Satana, un vecchio barbuto di colore blu intenso, domina l’intero settore infernale con l’Anticristo in grembo [fig. 3]. Il demonio siede su una sorta di trono animato, costituito da un drago a due teste divoranti altrettanti peccatori (interpretazione ‘vivente’ e mostruosa dell’antico trono a faldistorio) e tiene la mano destra alzata come per sentenziare, perentorio, a quale settore dell’inferno saranno destinate le anime ancora indiscriminatamente immerse nelle fiamme che lo attorniano. Ai suoi piedi i dannati appaiono difatti collocati in sei scomparti distinti, tipici del Giudizio bizantino, riconducibili secondo alcuni a una già consolidata rappresentazione del settenario, ovvero alla figurazione dei supplizi corrispondenti ai sette peccati capitali (gli scomparti sono sei, più il settore infuocato in cui troneggia Satana), ma da interpretare forse più coerentemente come rappresentazioni ancora embrionali delle principali pene che secondo i teologi si applicavano indistintamente a tutti i dannati. Benché difatti si possa già a quest’epoca prospettare una diversificazione delle punizioni conforme alla diversità dei peccati, le pene prospettate, e soprattutto raffigurate, rimangono per lungo tempo indiscriminate e consistono principalmente nel definitivo allontanamento da Dio, il castigo più grave, cui si associano non meno dolorosi patimenti sensoriali costituiti principalmente dal fuoco, dai vermi, dal freddo e dalle tenebre; senza cioè quella precisa corrispondenza tra peccato e pena che verrà codificata concettualmente e visivamente solo nel secolo XIV, anche grazie al contributo decisivo dell’Alighieri. Che alludano o meno a un’esplicita scansione dei sette peccati capitali, di certo i sei scomparti musivi del mosaico di Torcello, sette se si conta pure quello sul quale incombe il trono di Lucifero, dovettero esercitare un certo stimolo sulla fantasia del poeta, il quale, mentre all’epoca delle probabili visite veneziane concepiva una struttura punitiva notevolmente più complessa, poteva comunque trarre alcuni suggerimenti anche dall’impressionante mosaico lagunare. Da questo mosaico suggestivo, che prospettava comunque una precisa e rigida compartimentazione degli spazi infernali, il poeta poté certamente recupere per il suo Minosse i tratti specificatamente demoniaci di quel giudice severo e impassibile che con un gesto imperioso stabilisce le sorti dei dannati che si presentano al suo cospetto.

Si può inoltre facilmente ipotizzare che il poeta, recandosi a Roma in occasione della concitata ambasceria del 1301 o per il Giubileo indetto da Bonifacio VIII nell’anno 1300, si sia fermato a Tuscania, altro luogo cruciale per il tema iconografico che ci interessa. Nella facciata della chiesa di San Pietro (1250) un grande rosone separa due bifore dedicate l’una, quella di sinistra, al regno dei cieli, l’altra evidentemente a quello di Satana [fig. 4]. Nel settore dedicato all’inferno una maschera a tre volti, coronata e munita di corna, si colloca al di sopra della bifora; dalle due bocche laterali escono racemi entro le cui volute si dispongono infiorescenze bizzarre e creature dal volto umano con artigli di rapace e code sinuose. Le volute terminano nelle bocche spalancate di un secondo mostro triforme situato al di sotto della bifora medesima, sempre dotato di corna, il quale preme sul proprio petto le spire avvolte di un grosso serpente. Anche in questa cittadina del Lazio settentrionale, cui proprio l’odiato pontefice Bonifacio VIII cambiò il nome in Toscanella, un enorme demonio giudicante si palesa dunque, potentissimo, sulla facciata di una chiesa, contrapponendosi nelle dimensioni ardite all’Agnus Dei che presidia il settore dedicato al paradiso e sfoggiando, fra l’altro, quella forma triplice del volto che poté semmai fungere da incisiva fonte di ispirazione per il trifronte Lucifero dantesco. Avvolto dalle spire di un serpente sinuoso il demonio di Tuscania è inoltre associato ai racemi di un arbusto metamorfizzato che si «avvinghia» (Inf. V, 6) più volte lungo la parete esterna della basilica, cingendo nelle volute, come a popolare i vari settori di quell’inferno sinteticamente evocato, le figure ibride e mostruose che lo abitano. La fantasia del poeta, così corposa e capace di estrapolare dagli ipotesti gli elementi utili alla rappresentazione del suo oltremondo, seppe certamente cogliere da questi inferni e dai loro principi, i tratti utili alla descrizione di quelle creature che, pur derivando dalla tradizione classica, si rinnovavano attraverso la rielaborazione poetica della vivida cultura figurativa medievale.

Difficile invece reperire nella tradizione illustrativa del Medioevo la terribile bufera con cui Dante punisce i lussuriosi, trascinandoli e sbattendoli da un lato all’altro del secondo cerchio. Il poeta non sembra infatti recepire la tipica iconografia della Lussuria che nella compenetrazione fra umano e serpe, degradazione moralizzata dell’antico connubio che caratterizzava alcune divinità pagane della fertilità, esprimeva nell’arte romanica e gotica il peccaminoso cedimento dell’essere umano alle più infime pulsioni della carne. Il motivo della commistione fra uomo e rettile adottato per la figurazione di quel peccato e che Dante recupera semmai per rappresentare il violento contrappasso dei ladri, defraudati proprio dalle serpi della più intima e sacra tra le qualità umane, quella naturale della propria persona fisica, trovò grandissima diffusione nell’arte del Medioevo tanto nell’ornamentazione interna quanto in quella esterna ai luoghi di culto. Coniugato in una varietà incredibile di soluzioni, facilitate anche dall’estrema adattabilità alle superfici degli elementi che lo compongono, tale motivo veniva utilizzato per evidenziare una nudità provocatoria e ostentata, per lo più femminea, di cui la serpe poteva appropriarsi, violandone in vario modo l’intimità. Se gli episodi più significativi si situano per lo più in suolo francese e nella Spagna romanica (Vezelay, Perrecy-les-Forges, Sanguesa, Lomilla de Aguilar) e se in quelle regioni, mai visitate peraltro dal poeta, il tema viene espresso con maggiore frequenza e continuità, non mancano tuttavia alcuni esempi di un certo rilievo anche nella nostra penisola. La Lussuria viene rappresentata da una fanciulla dalla sessualità ostentata, i cui seni vengono addentati da un grosso serpente annodato e da un bue, in un capitello conservato nel chiostro della chiesa di Santa Sofia a Benevento [fig. 5 - sec. XII]. I capelli, che quando scomposti sono nel Medioevo simbolo certo di incontenibile intemperanza, appaiono sciolti sulle spalle nude come accade anche in un altro capitello di pilastro situato nel portale dello Zodiaco nell’ Abbazia di San Michele della Chiusa, sulla vetta del monte Pirchiriano in Piemonte [fig. 6 - secolo XII]. Il corpo sinuoso e senza veli di giovane donna può in taluni casi confondersi con quello notoriamente ambiguo e ingannevole della sirena, amplificando ed esplicitando in tal modo l’irruenza peccaminosa e provocatoria di queste figure femminee, complici nutrici degli anguidi che le addentano: così accade, per fare un esempio, in un capitello conservato nel Museo civico di Pavia e proveniente dall’ormai scomparsa chiesa di San Giovanni in Borgo [fig. 7 - sec. XII].

Che Dante abbia o meno avuto modo di osservare lungo i suoi tragitti di politico e di esule esempi simili a quelli qui indicati, rimane il fatto che per il contrappasso dei lussuriosi decise di percorrere altra strada, forse più lieve e semmai meno oltraggiosa nei riguardi della figura femminile che, per quanto peccatrice, nel V canto dell’Inferno suscita nel poeta non soltanto compassione, ma anche trasporto commosso e partecipe, pietà e smarrimento. In questo canto dove la disumanità infernale si stempera nelle tonalità raffinate e seducenti ispirate al mondo della letteratura cortese non v’era spazio per quell’immagine di carnalità colpevole e lasciva, orribilmente oltraggiata dal serpente: alla bestialità comunemente associata ai «peccator carnali» il poeta contrappone e sostituisce l’incontenibile tempesta dei sensi e l’assoluta incapacità di controllo sui propri desideri. Da qui forse il rifiuto, o meglio, l’inammissibilità di quella pena che il Medioevo aveva da sempre comminato in particolare alla donna, colpevole di aver ceduto agli istinti più infimi, lasciando prevalere le pulsioni del corpo sulla sobrietà garantita dalla ragione.

Quella figura femminea violata dalle serpi, simbolo bestiale di indomite pulsioni carnali, rimaneva tuttavia nell’immaginario comune. Con quelle serpi addosso saranno sempre e solo fanciulle dai seni procaci e dai lunghi capelli, a espiare negli inferni medievali, prima e dopo la Commedia, l’eccessiva concupiscenza della carne che turba la ragione, sopisce la volontà e acceca la mente. Se dunque il suggerimento dantesco verrà tradotto con fedeltà nei manoscritti miniati della Commedia, quell’immagine feroce che Dante aveva accantonato, rimarrà, al di fuori del testo dantesco, condiviso e prediletto simbolo di Lussuria. Ciò è tanto più evidente se si considera il fatto che persino in un contesto in cui la Commedia viene espressamente citata, come accade nel Giudizio finale dipinto attorno alla metà del secolo XV nella chiesa di San Giorgio di Campochiesa ad Albenga, l’artista ignoto, pur inserendo nel suo inferno Dante e Virgilio, Conte Ugolino e l’arcivescovo Ruggieri, vorrà rappresentare comunque la Lussuria come fanciulla procace avvolta dalle spire di un serpente [fig. 8]. I tempi non erano ancora pronti per la modernità della seducente ‘bufera’ dantesca, per quella passione d’amore che Paolo e Francesca non possono controllare, certamente da punire ma anche da comprendere: non lo era il Medioevo, non lo sono spesso neppure i nostri tempi, cosiddetti moderni.

 

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