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  • «Noi leggiavamo…». Fortuna iconografica e rimediazioni visuali dell’episodio di Paolo e Francesca fra XIX e XXI secolo →

Nell’identificazione degli eventuali precedenti figurativi di cui Dante poté eventualmente tenere conto nella costruzione scenografica del V canto dell’Inferno, possiamo senza dubbio partire dalla figura di Minosse che il poeta desume dal VI libro dell’Eneide di Virgilio ma che nella Commedia perde le caratteristiche dell’austero quesitor virgiliano (Eneide, VI, 432) che scuote l’urna dei fati, convoca l’assemblea dei morti silenziosi, li interroga e ne apprende i delitti, per assumere invece alcuni tratti tipicamente demoniaci. Il temibile giudice infernale, privato della profonda dignità che ancora manteneva nell’autore latino, diviene difatti in Dante un essere mostruoso e animalesco che ringhia «orribilmente» (v. 4) e avvolge la coda attorno al corpo tante volte quanti sono i cerchi che il dannato dovrà discendere. Sono proprio questi primi elementi con cui l’infernale macchina di giustizia si presenta al viator a delinearne il nuovo aspetto bestiale, assente nelle fonti classiche: una connotazione ferina e demoniaca, che all’altezza del XXVII canto dell’Inferno, per voce di Guido da Montefeltro, si preciserà ulteriormente per l’inserimento di un dettaglio aggiuntivo: il «dosso duro» (v. 125) che, unito al ringhio terrifico e alla lunga coda (le cui connotazioni eminentemente falliche sono state più volte evidenziate dalla critica), completerà la costruzione immaginifica di questa creatura bizzarra, strumento di quella giustizia divina, di cui rappresenta, in sostanza, la stravolta parodia. Mentre la coda che si annoda come serpe, quasi entità a sé stante, benché al servizio del bestiale giudice infernale, in qualche maniera istituisce un nesso rispetto alle note rappresentazioni della Lussuria diffuse in epoca medievale, il mostro dantesco, inteso nel suo insieme, richiama con evidenza un’altra iconografia ben attestata nel Medioevo romanico e gotico, quella del demone giudicante, di cui pare che il poeta più ancora della fonte classica abbia voluto tener conto per ambientare opportunamente il personaggio nel cerchio dell’inferno che si trova a presidiare.

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  • Barbablù. Il mito al crocevia delle arti e delle letterature →

 

 

Trasformare in immagini un racconto verbale è un processo articolato che implica, da parte dell’illustratore, una serie di scelte interpretative; è un atto critico che va ben oltre il semplice passaggio di contenuti da un medium all’altro (Scharcz 1982; Nikolajeva 2006; Woźniak 2015). In alcuni casi l’operazione è resa ancor più complessa dall’assenza di rappresentazioni precedenti, costringendo di fatto il disegnatore a creare nuovi modelli figurativi attingendo dal patrimonio iconografico tradizionale. Il caso di Barbablù ne è un esempio.

Nel 1953 la Morgan Library di New York acquistò una copia manoscritta dei racconti di Perrault, precedentemente ignorata. Il volume, rilegato in marocchino rosso con lo stemma della nipote di Luigi XIV, Élisabeth Charlotte d’Orléans, a cui fu dedicato dall’autore, porta il titolo Contes de ma mère l’Oye e, datato 1695, precede di due anni la prima edizione a stampa. Miniature a guazzo di autore anonimo illustrano il frontespizio e aprono alla lettura delle rispettive storie (La bella addormentata, Cappuccetto Rosso, Il gatto con gli stivali, Barbablù e Le fate).

L’immagine di apertura [fig. 1.], poi ripresa quasi integralmente nell’edizione originale, riproduce in qualche modo l’ambiente e la circostanza in cui questi racconti del tempo passato prendono vita: uno spazio domestico, in una fredda serata invernale illuminata dal bagliore del fuoco e da una bugia posata sulla spoglia mensola del camino. Una vecchia nutrice, il cui profilo si staglia sullo sfondo di una porta chiusa, è assisa su uno sgabello e, nel filare la lana col suo fuso, dipana anche i suoi racconti catturando l’attenzione del suo pubblico: due fanciulli i cui abiti raffinati – si noti il manicotto della giovinetta – ne attestano l’elevato rango sociale e un gentiluomo, forse l’autore, seduto vicino al camino che osserva la narratrice in azione. Come ben postilla Louis Marin, siamo di fronte ad una «mise en scène de l’oralité dans ses représentants canoniques, la toute puissante maîtresse de la voix narratrice et ses destinataires, enfants et adolescents, fille et garçons, dans la fascination de l’écoute» (Marin 1992, p. 20; Heidmann 2014).

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