3.4. La visione di Medea. Pier Paolo Pasolini e Maria Callas

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La diva Callas, nelle lettere indirizzate a Pier Paolo Pasolini e scritte tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, si firma «Maria (fanciullina)». Pasolini non ebbe un rapporto stretto con quasi nessuno degli attori dei suoi film, esclusi gli amici – poi nel tempo diventati attori-feticcio – come Ninetto Davoli o Franco Citti; forse l’eccezione è rappresentata proprio da Maria Callas, protagonista di Medea (1969), che insieme racchiudeva i ruoli e i caratteri di interprete, amica, confidente. Nel loro periodo di frequentazione, durante le riprese del film (girato a Grado, in Siria, in Turchia e in Piazza dei Miracoli a Pisa), e nei pochi anni successivi, prima dell’omicidio del regista, il rapporto tra i due si fa molto stretto. Negli anni si è vociferato di una sorta di amore non corrisposto da parte della soprano verso Pasolini, complici anche alcuni aneddoti diventati via via emblematici: l’anello regalato alla Callas da Pasolini negli ultimi giorni di lavorazione del film, nella laguna di Grado; le molteplici fotografie che li ritraggono durante le vacanze in Grecia (celebre quella di loro in barca a Skorpios, insieme ai due barboncini della diva) o in Africa, accompagnati da Alberto Moravia e Dacia Maraini; le lettere ritrovate anni dopo, ricche di affetto, confidenze, reciproche consolazioni (in particolare la Callas consola il poeta dopo l’abbandono di Davoli).

Oltre all’aspetto affettuoso del loro rapporto, questo periodo è evidentemente contraddistinto anche da una vena fortemente produttiva e creativa, di rilancio da un lato della figura della Callas dopo le tribolazioni successive alla separazione da Aristotele Onassis, e dall’altro di Pasolini stesso. Quest’ultimo ritorna in questi anni alla scrittura poetica, componendo dieci poesie a lei dedicate poi raccolte in Trasumanar e organizzar, e inoltre realizza una serie di ritratti della stessa Callas, alcuni portati a termine sul set del film che giravano insieme. Il profilo della Callas, immortalato su carboncino, viene poi lavorato da Pasolini con rimasugli organici, frutta, terriccio, avanzi di cibo, mostrando così l’idea di un legame privilegiato e simbolico tra il volto della cantante e l’ancestralità della terra e della natura.

È però, più di tutto, il lavoro per Medea che rivela la produttività creatrice di questi anni, e l’interesse profondo che il regista nutre verso la Callas. Da un certo punto di vista lo statuto di diva della Callas, non chiamata ad interpretare il ruolo come un’attrice canonica, viene destrutturato e depotenziato sotto più aspetti, soprattutto rispetto alla scelta di privarla della sua caratteristica più riconoscibile, quella della voce. Da un altro punto di vista, però, viene potenziato un suo ruolo atemporale e simbolico, in modo che il personaggio di Medea quasi si sovrapponga a quello della Callas: l’attrice viene investita di una potenza ancestrale, vitalistica, rappresentante della violenza arcaica e fiera del mondo antico (quello mitico ma anche quello popolare), soprattutto attraverso un’attenzione della macchina da presa al volto di Maria Callas/Medea, ripreso quasi sempre in primo o primissimo piano, scandagliato, osservato, bramato. Quando la Callas non è ripresa in piano ravvicinato, è rappresentata in tutta la sua statuarietà simbolica, addobbata con vesti lunghe e coprenti, appesantita da collane e gioielli, mostrata in tutta la contraddittorietà della sua figura. Maria Callas è scelta da Pier Paolo Pasolini come figura mitica di forza, femminilità, assenza di compromesso, come presenza archetipica che, in fondo, più che la vendetta (Medea era sacerdotessa della dea Ecate, la dea della morte), rappresenta l’amore come totalità e chiarezza assoluta, spinte fino alla violenza dell’infanticidio.

Nella fotografia proposta, che immortala regista e attrice in Cappadocia sul set del film Medea, la diva è mostrata proprio con i costumi di scena, una pesante veste scura da sacerdotessa, con un orlo blu, impreziosita da immagini e richiami, e poi con i vari ornamenti al collo, il trucco, i capelli acconciati. Pasolini è accanto a lei, in piedi, guarda verso il basso come se stesse riflettendo tra sé, mentre lo sguardo della donna è fisso verso il volto del suo regista; tutt’intorno, il paesaggio aspro della Turchia, che avrebbe dovuto rappresentare quello barbarico e astorico della Colchide. Questa e altre fotografie che immortalano i due sul set di Medea sono esemplificative di una comunione professionale e umana particolarmente significativa, tanto nella carriera di Pasolini quanto nel cinema italiano dell’epoca. A quarant’anni dalla morte, forse il loro legame professionale rimane uno dei più profondi, ancora tutto da indagare. A partire proprio da quella dimensione visuale che contraddistingue il lavoro sul corpo della Callas in Medea, e quello di diversi fotografi nel ritrarre l’attrice e il regista impegnati sul set. Il concetto di visione è già centrale nell’idea teorica che Pasolini ha del personaggio di Medea, rispetto alle arti magiche della sacerdotessa ma anche rispetto a quella che inizialmente doveva essere la chiave interpretativa del mito di Euripide, prediligere cioè la magia e l’onirismo delle visioni della donna (il titolo provvisorio del film, non a caso, era Le visioni di Medea). Inoltre, nella pellicola pasoliniana, come detto, si lavora sul primo piano del volto, astratto e feticizzato dal resto del corpo in una dimensione assoluta e potente, anche qui arricchita di un significato intangibile e visionario. L’astrazione del primo piano, che taglia e destruttura l’unità del corpo della diva, è un procedimento stilistico che rimanda alla frattura umana di Medea, e al contempo al tema del frammento, dello smembramento, vero e proprio motivo pasoliniano, in Medea e in molti altri film. È così che nelle mani di Pasolini la Callas doveva essere un materiale ancora grezzo da rompere, modellare e riportare a nuova vita, da far rigenerare – come nel sacrificio umano riprodotto nel film, sulla scia delle teorie antropologiche di Eliade –, da mostrare infine sotto una nuova luce. Tanto nei disegni dove il volto viene poi trattato e modificato con materiali naturali per essere in qualche modo rigenerato, quanto nel film, dove il volto viene smembrato ed elevato ad elemento unico di rappresentazione, ritorna l’idea che Pasolini bene esprime in un passo di una lettera per la Callas, scritta sul medesimo set di Medea: «Tu sei come una pietra preziosa che viene violentemente frantumata in mille schegge per poi essere ricostruita di un materiale più duraturo di quello della vita, cioè il materiale della poesia».

 

Bibliografia

M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema, Scandicci, La Nuova Italia, 1996.

P.P. Pasolini, Medea. Un film di Pier Paolo Pasolini, Milano, Garzanti, 1970.

P.P. Pasolini, Lettere (1955-1975), a cura di Nico Naldini, Torino, Einaudi, 1988.