3.2. La ragazza subacquea: l’anti-corpo del cinema italiano?

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Che cosa ci aspettiamo dalla figura della ragazza sullo schermo? Se l’immagine della donna nel cinema italiano tradizionalmente rappresenta il corpo politico-nazionale (Marcus 2000), quella della ragazza nel cinema italiano contemporaneo offre proprio una specie di anticorpo, promettendo la cura della nazione con la sua presenza. Come osserva Dana Renga (2014, p. 329), la produzione cinematografica più recente di alcune registe italiane mette in scena giovani eroine che dimostrano il «fallimento della metafora paterna». Inoltre, dal 2012, numerosi film con ragazze come protagoniste dimostrano che anche registi uomini hanno interesse ad approfondire le «potenzialità per la resistenza» (Projansky 2014) insite nella figura della ragazza.

Come mai quest’ultima si presta così spesso a questo significato di resistenza nel cinema maschile degli ultimi dieci anni? Catherine Driscoll sostiene che la figlia nella società non capitalista è «una specie di denaro» e che, anche in un contesto capitalista, offre «sistemi di valutazione di prestigio e ricchezza o rappresenta la continuità del lavoro riproduttivo e domestico» (Driscoll 2002, p. 109). La riflessione di Driscoll sui processi di mercificazione legati alla figlia è importante ai fini del mio discorso, in quanto è proprio attraverso tali processi che la figura della ragazza si dimostra capace di resistere. A livello simbolico, la sua resistenza può valere per ognuno di noi in qualità di spettatrici e spettatori, soggetti a processi di disumanazione simili. Spesso in queste rappresentazioni il legame dell’amicizia femminile costituisce una falsariga utopica per la gioia della collettività (Swindle 2011), e anche dalla sua fisicità ludica scaturisce la sua ‘potenzialità per la resistenza’. Però, la resistenza quasi sovraumana che il corpo della ragazza promette è anche una fantasia di ‘resilienza’, proprio nel senso di ‘amazing bounce-backable woman’ che Gill e Orgad identificano nel loro studio sui periodici femminili, sulla letteratura self-help e sulle app per lo smartphone (2018). Nel caso della ragazza, l’enfasi sulla necessità di ‘confidence building’ nei media popolari si esprime soprattutto attraverso il corpo (Banet-Weiser 2017). Così il corpo della ragazza diventa proprio l’anticorpo essenziale alla salute della società odierna, perché la sua capacità di resilience offre la rassicurazione che l’individuo può sempre sopravvivere se s’impegna abbastanza.

Con questo contributo vorrei concentrarmi sul modo in cui la corporalità della ragazza viene espressa nel cinema sia come pericolo sia come forza. Pericolo perché percepita dagli altri quale seduzione; forza precisamente perché ancora ragazza, e non ancora donna. Mi focalizzerò su alcune istanze in cui la ragazza dimostra particolare forza fisica e coraggio attraverso il nuoto. Fiona Handyside nota la ricorrenza del nuoto nei ‘girlhood film’ francesi (diretti da registe), in cui l’acqua simbolizza il divenire incerto della ragazza, e sostiene che l’uso della colonna sonora in queste scene ci permette di accedere ai suoi sentimenti (Handyside 2016). Tuttavia, l’acqua offre anche un’immagine della ‘modernità liquida’ descritta da Zymunt Bauman e, come ho detto sopra, sostengo che la figura della ragazza nel cinema italiano incarni le tensioni economiche e politiche del presente. Questi due approcci non sono affatto esclusivi. Come scrive Eva Ilouz, il nostro rapporto con il capitalismo è profondamente emotivo. Se alla ragazza è permessa l’esperienza affettiva più intensa, lei diventa il tramite del rapporto umano liquido e profondamente incerto con il capitale. Come la musica, la dinamica tra corpo e acqua confonde la divisione dell’emozione dal sé, permessa dal linguaggio, e ci riporta all’emozione incarnata. Mi concentro qui su tre momenti di fantasia nella rappresentazione della giovane nuotatrice, in cui una narrativa altrimenti portata verso il realismo diventerebbe soggettivissima, rappresentando fantasie piuttosto che realtà.

È già ben noto che l’immagine del nuoto sincronizzato – teso tra l’apparire perfetto in superficie e il lavoro frenetico sott’acqua – viene spesso impiegata ai fini di una critica alla femminilità postfemminista e, in tal senso, è stato esplorato con sensibilità dalla regista Céline Sciamma in Naissance des pieuvres (2007). Tale immagine serve uno scopo simile in vari film italiani recenti come Un giorno speciale (Comencini, 2012) [fig. 1], Vergine giurata (Bispuri, 2016) e soprattutto Cloro (Sanfelice, 2014), in cui vengono evidenziate le pressioni economiche, temporali e fisiche del diventare donna. In Cloro in particolare, l’ossessione della protagonista Jenny (Sara Serraiocco) per il nuoto sincronizzato costituisce l’arco narrativo del film, che inizia con scene molto simili al film di Sciamma, in cui si vedono le gambe delle ragazze che si attorcigliano sotto la superficie dell’acqua per mantenere la perfezione delle loro posizioni per lo spettatore diegetico [fig. 2]. La prima scena del film di Sanfelice, tuttavia, riprende Jenny e la sua partner di concorso, Flavia, mentre nuotano specchiandosi l’una nell’altra [fig. 3]. Eliminata qui la possibilità del desiderio lesbico che segna il film di Sciamma, Cloro si conclude con un gioco di sguardi tra le due amiche, sottolineando quanto sia importante il tema del doppio per le rappresentazioni del femminile esaminate qui.

Dopo la morte di sua moglie, il padre di Jenny perde il lavoro e la loro casa a Ostia, e lei si trova costretta a traslocare in Abruzzo dove uno zio presta loro una baita. Lì Jenny deve prendersi cura del padre malato e del fratellino, subendo la logica dello scambio patriarcale-capitalista in cui la figlia sostituisce la madre. Jenny sogna sempre di tornare a Ostia, per poter partecipare al concorso di nuoto sincronizzato con Flavia. Lo sforzo della ragazza di costruirsi un futuro proprio, davanti alla devastazione economica ed emotiva della sua famiglia, si esprime attraverso la passione per il nuoto. Se quest’ultimo offre spesso una metafora elegante per la disciplina del soggetto postfemminista, anche qui il controllo del tempo e del fisico si esprime nel contare ripetuto della musica da parte delle ragazze nella loro pratica per sincronizzarsi, scandito dalla colonna sonora con un ritmo metallico. Tale disciplina contrasta con il momento successivo al tentato suicidio del padre di Jenny, quando lei, nella sua fantasia turbata, si lascia andare nelle acque scure del caos per sdraiarsi sul fondo della piscina [fig. 4]. Qui la macchina da presa si avvale della possibilità di portarci verso il mondo interiore femminile, quale proiezione di paure più estese. Nel distendersi immaginario del corpo di Jenny sul fondo di una piscina torbida, incontriamo la paura indotta del crollo del patriarcato, un sistema oltre il quale sembra esistere solo la morte. La fine del film, tuttavia, vede la protagonista di nuovo a Ostia, soddisfatta tra la piscina, la promessa del concorso con Flavia e il mare, e con l’aria di una ragazza ben pronta ad affrontare il caos.

In contrasto con il nuoto sincronizzato, quello nel mare connota spesso aspetti più liberi e piacevoli, per esempio nel film Bellas mariposas (Mereu 2012) offre all’eroina Cate (Sara Podda) una fuga dalla vita opprimente di un quartiere impoverito, e l’opportunità per l’amicizia femminile e per la scoperta del sé.[2] Nel quadro più bello del film, Cate gode di un momento di riflessione e di ‘rispecchiamento’ del sé, che esprime un mondo femminile diverso se non utopico all’Irigaray [fig. 5]. Questa è l’unica scena in cui la voce narrante della ragazza accompagna le immagini, tradendo forse le sue origini letterarie.

Prima di entrare in acqua, Cate esprime una resistenza alla possibile sessualizzazione del bikini, preferendo ‘il costume olimpionico perché è come una corazza da guerriera’ [fig. 6], anche perché lei, solo una ragazzina e non ancora in possesso di caratteristiche sessuali secondarie, è forse una dichiarazione di sconfitta da parte del regista che altrimenti non saprebbe rappresentarla. Il corpo della ragazza in costume pone lo stesso un problema per la macchina da presa, in quanto minaccia uno sfruttamento fin troppo ovvio. Un aspetto degno di nota delle scene scelte è la loro natura subacquea, come se scendere sotto la superficie dell’acqua ci permettesse di accedere all’interiorità della ragazza, proteggendo il suo corpo dallo sguardo pubblico, almeno quello diegetico. Il mistero di questa profondità è sottolineato dall’oscurità che affrontiamo nelle immagini. Solo nel caso del film sardo quest’acqua rimane limpida, ma acquisice nella sua limpidezza abbagliante un aspetto mitologico, ricordandoci come questi momenti si affidano anche all’iconografia della ragazza-sirena, Ondina, che trova il suo elemento ideale fuori dal linguaggio, nella sfera pre-linguistica e squisitamente femminile dell’acqua. Come dice Adriana Cavarero: «La figura di Ondina, almeno nel suo coincidere con le sue icone tradizionali, è in effetti anche questo: una donna dell’immaginario amata e rinnegata, docile al richiamo e passiva nel subire i ravvedimenti di lui negli eterni giochi maschili di trasgressione e sicurezza» (p. 231). Da questo punto di vista, allora, vediamo come nelle scene subacquee le ragazze vengono spinte anche verso la sfera del non-umano (come dice Cate, «dovevo nascere pesce») nella loro alterità, e nel loro simboleggiare poteri quasi sovrannaturali.

Un modo in cui il nuoto resiste a una sessualizzazione molto più drammatica, che si traduce in una fuga vera e propria, viene proposto nel film Indivisibili (De Angelis 2016). Le sorelle gemelle siamesi (Angela e Marianna Fontana), sfruttate dai loro genitori come cantanti neomelodiche, cercano l’aiuto di un impresario invaghitosi di una di loro. Lui gli offre dei soldi, ma si aspetta in cambio certe ricompense. Una delle due sorelle resiste a tale tentativo di seduzione, o meglio a uno stupro nel suo caso, convincendo l’altra a buttarsi in mare con lei anche se non sanno quanto sia lontana dalla riva la barca in cui si trovano. Qui il nuoto delle due sorelle rappresenta la fuga dallo sfruttamento, dal rapporto corpo-soldi, così come la fantasia della ‘resilienza’ femminile, verso la sorellanza e la libertà. In un momento fantastico, proprio quando le sorelle sembrano stiano per annegare sprofondando sott’acqua, la musica sostituisce le loro voci e vediamo i soldi che galleggiano intorno alle ragazze che si guardano con amore, liberate dalla mercificazione indotta dai genitori [fig. 7]. Il montaggio ci porta alla loro ricomparsa sul litorale, che viene interpretata come un miracolo [fig. 8]. Appena prima di questa scena, il film riconosce che l’immagine dei corpi bianchi delle ragazze che sopravvivono al mare soppianta la storia più comune dei corpi/cadaveri dei migranti, quando fa vedere due uomini africani che trovano il proprio miracolo nelle banconote gettate a riva.

L’immagine della ragazza rinata dall’acqua ha una genealogia femminista, che forse risale anche a quella meravigliosa scena di rinascita di The Piano (Campion, 1993). Là, però, si tratta una donna matura che risale verso la superficie. Nel cinema italiano, invece, è la ragazza che non solo è ‘bounce-backable’ ma infinitamente ‘floatable’, capace di galleggiare e tornare in superficie. Purificata e sollevata dall’acqua, promette un mondo in cui la giovane femminilità sopravvive sempre alla minaccia dello sfruttamento e alle instabilità economiche. Rappresenta l’anticorpo che scorre nei mari, nelle vene della nazione. Ed è difficile scegliere se celebrarla o sottolineare il suo status doppiamente fantastico, come testimoniano gli esempi che ho esaminato in questi film.

 

 

Bibliografia

S. Banet-Weiser, ‘“I’m Beautiful the Way I Am”: Empowerment, Beauty and Aesthetic Labour’, in A. S. Elias, R. Gill, C. Scharff (a cura di), Aesthetic Labour: Rethinking Beauty Politics in Neoliberalism, New York, Palgrave, 2017, pp. 265-282

A. Cavarero, Corpo in figure: filosofia e politica della corporeità, Milano, Feltrinelli, 1995.

R. Gill, S. Orgad, ‘The Amazing Bounce-Backable Woman: Resilience and the Psychological Turn in Neoliberalism’, Sociological Research Online, 2018.

F. Handyside, ‘Emotion, Girlhood and Music in Naissance des pieuvres (Céline Sciamma, 2007) and Un amour de jeunesse (Mia Hansen-Løve, 2011)’, in F. Handyside, K. Taylor-Jones (a cura di), International Cinema and the Girl: Local Issues, Transnational Contexts, New York, Palgrave, 2016, pp. 121-134.

E. Illouz, Cold Intimacies: The Making of Emotional Capitalism, Cambridge, Polity Press, 2007.

M. Millicent, ‘The Italian Body Politic is a Woman: Feminized National Identity in Post-War Italian Film’, in D. E. Stewart, A. Cornish (a cura di), Sparks and Seeds: Medieval Literature and its Afterlife – Essays in Honour of John Freccero, Turnhout, Brepols, 2000), pp. 329-47.

S. Projansky, Spectacular Girls: Media fascination and celebrity culture, New York, NYUP. Press, 2014.

D. Renga, ‘Italian Teen Film and the Female Auteur’, in D. Hipkins, R. Pitt (a cura di), New Visions of the Child in Italian Cinema, Oxford, Peter Lang, 2014, pp. 307-329.

M. Swindle, ‘Feeling Girl, Girling Feeling: An Examination of “Girl” as Affect’, Rhizomes 22, ˂http://www.rhizomes.net/issue22/swindle.html˃.


1 Vorrei ringraziare la mia collega Alessia Risi per i suoi preziosi consigli nella stesura di questo contributo.

2 Dana Renga osserva come spesso, nei film da lei studiati, le scene girate in prossimità dell’oceano sviluppano le soggettività delle protagoniste-ragazze, p. 328.