3.3. Una nessuna centomila: genealogie femminili nel cinema di Alina Marazzi

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Un crocevia perduto del nostro divenir donne si trova nel confondersi e nell’annullarsi delle nostre relazioni con la madre e nell’obbligo di sottometterci alle leggi dell’universo degli uomini.

Luce Irigaray, Il tempo della differenza

 

 

Nel panorama del cinema italiano contemporaneo l’opera di Alina Marazzi occupa un posto di rilievo sia per le scelte stilistiche che la contraddistinguono, innovative e sperimentali in un’area di intersezione tra cinema di finzione e cinema documentario, sia per l’attenzione a tematiche riconducibili a un’indagine sul femminile. In una inedita commistione di linguaggi eterogenei, attraverso l’uso di found footage, immagini d’archivio e di famiglia, ma anche interviste, animazione e così via, Marazzi compie un’operazione culturale di re-visione dell’immagine della Donna nella società italiana degli ultimi decenni indagando personaggi di donne reali che proprio perché «non aderiscono a modelli prestabiliti», vivono un forte senso di displacement e inadeguatezza nei confronti dei ruoli femminili tradizionali (Rich 1972). In quella che può essere definita la trilogia sulla maternità – che comprende Un’ora sola ti vorrei (2002), Vogliamo anche le rose (2007) e Tutto parla di te (2012) – la regista presta particolare attenzione al complesso legame madre-figlia, laddove la maternità è esplorata come una condizione problematica dell’identità femminile (Gamberi 2013). Afferma a questo proposito la regista:

Di consapevole [in questa trilogia] più che altro, c’è la decisione e l’impegno che mi sono presa di indagare il femminile. […] Con il mio primo documentario ho capito tante cose, compreso il fatto che mi interessava continuare sulla strada del cinema ‘ibrido’, del documentario di narrazione, di montaggio. E al tempo stesso ho capito che volevo impiegare la possibilità che ho di fare film per parlare di donne, partendo dagli aspetti che interessano a me, con la presunzione di sperare che interessino anche ad altri.

Intorno al rapporto reale, ma anche simbolico, fra madre e figlia, a partire dal tentativo sperimentale di un cinema in prima persona di Un’ora sola ti vorrei, Alina Marazzi ha infatti risposto da una parte alla profonda urgenza personale di definire la sua identità di figlia rispetto alla figura della madre – morta suicida a causa di una grave depressione quando la regista era ancora bambina – ma ha anche saputo restituire figure di madri simboliche che, dimenticate o rimosse dalla storia ufficiale, non hanno aderito ai modelli: sia esterni della società (come nel caso delle tre storie al centro di Vogliamo anche le rose) che scelti e introiettati (come per le monache di clausura in Per sempre) [fig. 1].

Si tratta di ‘donne in opposizione’, personaggi che la regista coglie in un momento di conflitto con se stesse, con la famiglia e con le aspettative sociali che le vorrebbero conformate a ruoli convenzionali. È un conflitto personale, ma implicitamente anche politico, che sprigiona da una sintassi sperimentale vicina al ‘cinema di poesia’ di Pier Paolo Pasolini, che la regista orchestra in maniera mirabile grazie a una tessitura formale e stilistica innovativa, ma precisa: il contrasto fra la dimensione soggettiva, in prima persona, impersonata dalla voce femminile che prende vita dalla lettura dei diari, nelle interviste e nei racconti, e il materiale del found footage e degli home movies, che epitomizza il registro pubblico, politico e sociale, che risignificato dallo sguardo registico, ci svela come il documento visivo originale non sia una registrazione fissa, pura e autentica della realtà, ma al contrario un documento continuamente aperto, mutevole e soggetto a infinite interpretazioni (Bruzzi 2006).

La continua tensione fra immagine e parola produce cortocircuiti, deragliamenti e ambiguità, e genera una complessa rappresentazione del femminile, resa possibile grazie a un uso sapiente del montaggio che permette all’autrice, aiutata dalla montatrice Ilaria Fraioli, di inserirsi all’interno di una tradizione di registe pioneristiche – come Maya Deren, Jane Shimane, Anita Thacher, Cécile Fontaine, Peggy Ahwesh, Louise Bourque che hanno operato per sottrarre la rappresentazione delle donne al desiderio dello sguardo maschile (Mulvey 1971). È infatti nella sala di montaggio, divenuta una sorta di ‘stanza tutta per sé’, che Marazzi compie il vero e proprio atto di risignificazione delle immagini, sovvertendo la logica che aveva presieduto alla produzione dei filmati originali, decostruendone la coerenza cronologica, rileggendo con il proprio sguardo critico le narrazioni dominanti (siano quelle del nonno che riprende la propria vita famigliare che quelle stereotipate della militanza femminista) con l’obiettivo di liberare l’archivio della memoria e dissotterrare ciò che sembrava sepolto dall’accumulo disordinato di immagini ufficiali: le storie di vita di donne che, trasgredendo, hanno interrogato i ruoli di madre e figlia che erano stati consegnati loro.

L’uso dei diari in Un’ora sola ti vorrei e Vogliamo anche le rose, e delle interviste in Tutto parla di te, sembra infatti rispondere alla volontà di riportare alla luce genealogie femminili a partire dal rapporto fra madre e figlia [fig. 2]. Ciò mostra come il diario non vada inteso come una semplice narrazione intima della sfera personale, ma quale spazio narrativo dove è messa in luce la tensione fra la dimensione privata e quella pubblica, dove il processo di formazione dell’identità non è altro che il parziale risultato di situazioni storiche, relazioni di potere e fattori sociali che hanno un profondo impatto sulla vita di colei che scrive rivelando la dimensione intrinsecamente intersoggettiva della soggettività narrante (Cavarero 1997). L’uso delle storie di vita da parte di Marazzi si inserisce dunque in una pratica autobiografica del partire da sé culturalmente più ampia, che corrisponde sul piano letterario alla riscoperta degli scritti autobiografici, le lettere, i diari e le memorie delle donne, e sul piano sociale a quella «presa di parola» che a partire dagli anni Settanta ha invocato il movimento femminista sul piano politico.

Volevo raccontare la storia da un punto di vista soggettivo perché è così strettamente collegata al femminismo. Volevo fare un film soggettivo. […] Quello che ha fatto il femminismo è stato di dare valore all'esperienza personale delle donne, e degli uomini […] facendo diventare il personale politico (Bale 2010, traduzione mia).

La prospettiva fortemente soggettiva è anche il frutto della scelta, tecnicamente inconsueta per il cinema tradizionale, di ricorrere alla voce femminile fuori campo. Nei documentari di Marazzi, infatti, l’Io femminile occupa una posizione di privilegio nello svolgersi della trama: il controllare la narrativa condiziona lo spettatore/spettatrice e ribalta la consueta gerarchia fra immagine e parola (Silverman 1988).

Queste innovazioni stilistiche, di linguaggio e di strategie narrative paiono preannunciare un profondo ripensamento anche delle categorie culturali con cui tradizionalmente è stata rappresentata la figura materna, che sembra fallire nel corrispondere allo stereotipo culturale forgiato sull’immagine della madre rassicurante, asessuata, dedita alla cura e al sacrificio [fig. 3]. Al contrario le figure materne interrogano questo immaginario con forme di sovversione che includono la follia, la malattia, il desiderio, l’assenza. Il legame genealogico con la madre è rivendicato per permettere alla figlia di trovare un luogo nel presente, ma questo legame è lontano dall’essere idealizzato o romanticizzato. Marazzi vuole invece sostare nella complessità parlando di un materno come luogo di confine, ambivalente e poco rassicurante, situato fra corpo e mente, ancora sommerso nelle zone inesplorate dell’identità femminile:

Ogni madre conosce quel sentimento in bilico tra l’amore e il rifiuto per il proprio bambino. Una tensione dolorosa da vivere e difficile da confessare, perché va contro il senso comune di quel legame primordiale. Con questo film ho voluto raccontare l’ambivalenza del sentimento materno e la fatica che si fa ancora oggi ad accettarla e affrontarla. Per restituire la complessità di questo sentimento ho voluto integrare la fiction con materiali diversi: filmati d’archivio, animazioni, elementi documentari, con i quali evocare i vari livelli emotivi che questa tensione muove in chi la vive.

 

 

Bibliografia

M. Bale, ‘We Want Roses, Too: A New Language for Italian Feminism’. The L Magazine (23 Aprile 2010). <http://www.thelmagazine.com/TheMeasure/archives/2010/04/23/we-want-roses-too-a-new-language-for-italian-feminism> [Accessed 23 May 2012]

S. Bruzzi, New Documentary. Second Edition, Abingdon, Routledge, 2006.

A. Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Milano, Feltrinelli, 1997.

T. de Lauretis, Alice Doesn’t: Feminism, Semiotics, Cinema, Bloomington, Indiana University Press, 1984.

C. Gamberi, ‘Envisioning Our Mother’s Face. Reading Alina Marazzi’s Un’ora sola ti vorrei and Vogliamo anche le rose’, in M. Cantini (a cura di) Italian Women Filmmakers and the Gendered Screen, Basingstoke, Palgrave, 2013.

L. Irigaray, Il tempo della differenza. Diritti e doveri civili per i due sessi per una rivoluzione pacifica, Roma, Editori Riuniti, 1989.

A. Marazzi, Tutto parla di te, note di regia, 2013.

L. Mulvey, ‘Visual Pleasure and Narrative Cinema’, Screen, 16, 3, 1975, pp. 6-18.

A. Rich, ‘When We Dead Awaken: Writing as Re-Vision’, College English, 34, 1, 1972, pp. 18-30.

K. Silverman, The Acoustic Mirror: The Female Voice in Psychoanalysis and Cinema, Bloomington, Indiana University Press, 1988.