4.1. Dantesco indeciso. Note su Paolo e Francesca (Raffaello Matarazzo, 1950)

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Al momento della sua uscita nel 1950, il film Paolo e Francesca si inserisce in modo emblematico (sebbene in una posizione, per così dire, ‘defilata’) all’interno delle complesse dinamiche che caratterizzano l’industria cinematografica del secondo dopoguerra [fig. 1]. Com’è noto, negli anni immediatamente successivi al 1945 la cinematografia italiana è abbastanza «malconcia» (Spinazzola 1974, p. 60), con il cosiddetto neorealismo ‘maggiore’ che spesso fatica a fare presa sul pubblico e l’alluvione di storie, divi ed emozioni provenienti da oltreoceano. A parte la buona tenuta del genere comico, e in particolare il grande successo dei film con Totò, le «serie più tipiche e massicciamente presenti sul mercato in quel periodo» sono certamente «quelle del feuilleton in costume e del cinema lirico» (Aprà 1976, p. 41; si vedano anche: Morreale 2011, pp. 119-125; Spinazzola 1974, pp. 56-67, tra gli altri). Al volgere del decennio, tuttavia, la relativa fortuna del film-opera e del melò storico tratto dai (o modellato sui) romanzi d’appendice ottocenteschi si esaurisce (o, quanto meno, si ridimensiona), a favore del nuovo filone del melodramma familiare ambientato in epoca contemporanea. Grazie all’incredibile risultato al botteghino della trilogia composta da Catene (1949), Tormento (1950) e I figli di nessuno (1951), diretti proprio da Matarazzo per la Titanus – che incassano rispettivamente 750, 730 e 950 milioni di lire nella loro stagione di uscita (Spinazzola 1974, p. 70) –, nei primi anni Cinquanta il melodramma diventa quindi il genere più apprezzato dai pubblici italiani, arrivando quasi a pareggiare la popolarità dei film americani (Sorlin 1996, p. 107).

Inquadrata in uno scenario trasformativo di questo tipo, una pellicola come Paolo e Francesca appare come un’operazione per certi aspetti ‘anfibia’. Da un lato, la sua ambientazione e la tipologia di personaggi raccontati lo rendono un prodotto in un certo senso ‘di retroguardia’, non solo considerando quello che sta accadendo in generale all’industria italiana dell’epoca, ma anche e soprattutto rispetto alla direzione che sta prendendo la produzione di Matarazzo stesso – ricordiamo che il regista inizia a girare Catene circa due mesi prima di cominciare le riprese di questo suo meno fortunato dramma storico (Fusco 2007, p. 91). Dall’altro, il film presenta al proprio interno una serie di elementi già perfettamente ‘evoluti’, che rendono perlomeno problematica la sua assimilazione esclusiva al feuilleton in costume, accomunandolo di fatto anche e soprattutto al melodramma contemporaneo. Se dovessimo, infatti, sintetizzare in poche righe il contenuto del film (il suo sostrato profondo, verrebbe da dire), potremmo prendere a prestito le parole di Gino Frezza, quando suggerisce che Paolo e Francesca si concentra sul

 

restituire il senso di un dramma sentimentale in una cornice storica resa con netta chiarezza di contorni, secondo gli stilemi di un modello intenso e tragico di melodramma agito entro la sfera familiare, in cui l’amore sincero fra due giovani viene impedito dalle circostanze e avvelenato dal sospetto (2016, p. 97; corsivi miei).

 

Una descrizione che, pure nel mettere in risalto l’importanza degli aspetti di ricostruzione ambientale che certamente permettono di includere la pellicola nella serie dei film in costume, non smetterebbe forse di essere valida (una volta abbandonati i panni medievali) se associata ad altri melò matarazziani del periodo, come lo stesso Tormento, o di qualche anno successivi, come Vortice (1953) o Torna! (1954) – solo per citare i primi titoli che affiorano alla mente.

Questa sorta di ‘indecisione’ generica che caratterizza Paolo e Francesca si rispecchia probabilmente in un’altra sua ambiguità costitutiva, e cioè nella sua relazione tutto sommato ‘lasca’ con il testo dantesco di partenza, del quale evidentemente rappresenta più che altro una «rilettura» e una «dilatazione» (Masoni, Vecchi, 2003, p. 278).

L’incipit sembra tratto da «un cinegiornale Incom o LUCE» (Noto 2011, p. 56), per il taglio documentaristico della messa in scena e per «il tono stentoreo» (Ibidem) della voce over, e ci porta direttamente nel bel mezzo della guerra tra Ravenna e Rimini. Nel tentativo di sbloccare le sorti del conflitto, Paolo (Armando Francioli), fratello minore del Signore di Rimini, Gianciotto Malatesta (Andrea Checchi) [fig. 2] si introduce di nascosto a Ravenna allo scopo di dare fuoco alle riserve di grano che permettono agli avversari di resistere all’assedio. Scoperto, Paolo viene inseguito e ferito da un gruppo di ravennati, riuscendo però a trovare rifugio in un convento, dove una gentile e bellissima giovane (Odile Versois) lo medica e lo aiuta a tornare sano e salvo a Rimini. I due si innamorano a prima vista e Paolo promette di rientrare un giorno a Ravenna, ma non come nemico. Gianciotto, intanto, decide di seguire il suggerimento di Matteo, l’astrologo di Corte (Aldo Silvani), e propone un’alleanza al Signore di Ravenna (Nino Marchesini), da suggellarsi attraverso il matrimonio con la sua unica figlia. Francesca, il cui cuore è ormai votato al giovane sconosciuto, precipita in uno stato di dubbio e sconforto. Tuttavia, dopo aver percorso le strade della città e avere constatato le terribili condizioni in cui versa la popolazione, decide di piegarsi al proprio destino [fig. 3]. Il giorno delle nozze, Gianciotto (impegnato nel ritiro delle sue truppe) invia Paolo in sua vece a pronunciare i voti [fig. 4]. Alla scoperta che sta per sposare il fratello dell’uomo che ama, Francesca cade svenuta. Lo sposalizio si celebra, ammantato di un’aura di pena e sciagura (in mezzo ai due avviliti ‘sposi’ troneggia, infatti, la spada di Gianciotto, sostituto simbolico del vero marito assente). Arrivati a Rimini, i due giovani non possono che prendere atto della loro terribile sorte, promettendo comunque di aiutarsi vicendevolmente a sopportarla. Gianciotto, da uomo abituato solo alla battaglia, non riesce a capire come far felice la moglie, anche perché consapevole del proprio aspetto rozzo e sgradevole (è claudicante dal piede sinistro). Esasperato dalla sensazione di essere per lei fonte di disgusto, una notte entra nelle sue stanze e la prende con la forza. Nel frattempo, Matteo insinua in Gianciotto il dubbio che Francesca e Paolo si amino alle sue spalle e, nel tentativo di portare al proprio Signore la prova del tradimento, tortura un paggio e rapisce l’ancella di Francesca (Dedi Ristori) per estorcere (inutilmente) informazioni. Privata anche della presenza dell’unica amica, Francesca cerca conforto nelle stanze di Paolo, dove i due leggono il libro «galeotto» e si baciano [fig. 5]. La giovane, sconvolta dal proprio imperdonabile cedimento, si reca da Matteo per chiedergli una medicina che l’aiuti a dormire. L’astrologo le fornisce un potente veleno, raccomandandole di prenderne una sola goccia onde evitare che il sonno diventi «lunghissimo». Il marito assiste al colloquio da dietro una grata, non riuscendo però a udire le parole che i due si scambiano; Matteo ha così la possibilità di ‘provare’ le proprie illazioni: mentendo a Gianciotto, gli dice infatti che la moglie gli ha chiesto di procurarle un filtro d’amore. Istigato dal malvagio consigliere, Gianciotto finge di doversi assentare il giorno successivo per poter cogliere i due amanti sul fatto. Paolo propone a Francesca di fuggire, ma la donna rifiuta per la paura di dover vivere per sempre nel tormento del rimorso. Su iniziativa di Francesca, i due decidono dunque di morire insieme. Non fanno però in tempo ad assumere il veleno, che Gianciotto sopraggiunge e li pugnala. Con le sue ultime parole, Francesca rivela al marito che quello che lui credeva essere un convegno d’amore era in realtà un convegno di morte.

Già da questi dati essenziali appare chiaro che, almeno per quel che concerne strettamente gli eventi narrati,

il soggetto del film di Matarazzo ha a che fare col canto dantesco soltanto indirettamente, ed esclusivamente per quanto attiene alla parte finale, mentre in realtà il corpo generale del racconto filmico è riferito a una ricostruzione simil-storica, derivata da informazioni contestuali, di genere soprattutto storiografico. (Frezza 2016, p. 99)

Come nota, cioè, lo stesso Frezza, di per sé la «potenza evocativa della scrittura dantesca […] non offre se non parchi segmenti […] di azione narrativa, ossia pochissime indicazioni di gesti e di snodi d’azione in grado di costituire e comporre una storia per lo schermo» (Ibidem). Mentre, al contrario,

il meccanismo espressivo del film narrativo […] implica uno sviluppo di premesse motivazionali, situazioni che consentano di incrociare e confrontare personaggi, notazioni d’ambiente, visualizzazione scenica, dinamiche di gesti e dialoghi contemporaneamente finalizzati a ritagliare le fisionomie dei personaggi implicati nella storia (Ibidem).

L’articolazione del plot deve perciò necessariamente lavorare a favore della costruzione di una certa «credibilità narrativa» (Ibidem), che gli autori della sceneggiatura (lo stesso Matarazzo insieme a Vittorio Calvino e Vittorio Nino Novarese) sembrano trovare anzitutto nelle convenzioni interne a uno specifico alveo generico. In altre parole, è grazie alla combinazione di alcuni blocchi semantici e strutture sintattiche (Altman 1984) ascrivibili al film feuilleton dell’epoca che si vengono a formare i materiali di base (personaggi, situazioni, ambienti, motivazioni, relazioni, ecc.) fondamentali per la creazione e il funzionamento di un racconto plausibile, materiali che per forza di cose non erano presenti (o lo erano soltanto parzialmente e, per certi versi, ‘sotto traccia’) nel testo fonte: una guerra sanguinosa in fase di stallo, un’azione segreta finita male, un inseguimento, l’insperato soccorso di una giovane sconosciuta, gli sciagurati consigli di un sinistro astrologo, un matrimonio coatto dalle nefaste conseguenze, una sapientemente dosata mistura di incontri segreti e malevoli sospetti, figure che spiano nell’ombra, il ricorso alla coercizione e alla violenza da parte di personaggi intrinsecamente crudeli, fino al funesto epilogo che ben conosciamo – epilogo che, tra l’altro, attraverso l’inserimento dell’elemento ‘apocrifo’ del veleno e il palese rimando alla tragedia di Romeo e Giulietta, sembra ulteriormente trascendere le suggestioni dantesche, per incorporare (almeno allusivamente) diverse altre storie di amanti infelici glorificati dal mito e dalla letteratura.

Il tutto si colloca, inoltre, in un’ambientazione che, se nella prima parte pare allinearsi perfettamente ai moduli del filone ‘cappa e spada’, nel corpo centrale del film sembra invece scivolare verso una prefigurazione visuale (la casa dei Malatesta che ricorda in tutto e per tutto una prigione, con i suoi interni spogli e inospitali, resi attraverso scelte luministiche in cui prevalgono le tenebre sulla luce) e aurale (le grida dei torturati, il rumore minaccioso e a tutti gli effetti spettrale dei passi ‘asimmetrici’ di Gianciotto, che in una delle scene più interessanti del film si sovrappone a quello, languido e sommesso, del pianto di Francesca, fino a quasi a sovrastarlo) del filone gotico-orrorifico nostrano che si sarebbe sviluppato di lì a poco, inaugurato come è noto da I vampiri di Riccardo Freda (1957). Anche in questo caso, Paolo e Francesca non si discosta, comunque, dalla tendenza ‘goticheggiante’ comune a svariati drammi in costume dell’epoca, come ad esempio l’altra trasposizione dantesca Il conte Ugolino (Riccardo Freda, 1949), o gli adattamenti dagli omonimi romanzi di Carolina Invernizio (Il bacio di una morta) e Francesco Mastriani (La sepolta viva), diretti da Guido Brignone nel 1949, tra gli altri (Curti 2011, pp. 23-31).

Il film storico-feuilletonistico fornisce dunque a Matarazzo un solido fondamento ‘di genere’ sul quale costruire l’ossatura narrativa di questa sua rivisitazione della vicenda di Paolo e Francesca; eppure, come già si è detto, la pellicola presenta più di un elemento genericamente ‘spurio’, in qualche modo saturandosi di una sensibilità melodrammatica decisamente più contemporanea. Per ragioni di spazio, mi limiterò a illustrare brevemente alcuni di questi aspetti, tra loro interrelati. In primo luogo, è proprio la struttura drammaturgica sostanzialmente più ‘scarna’ del film a mostrare uno scarto rispetto alla norma rappresentata dal canone narrativo del filone. A fronte, cioè, del consueto vortice di personaggi, situazioni, luoghi, svolte inaspettate, agnizioni, viaggi e inesorabili interventi (provvidenziali o ferocemente ciechi) del destino, Paolo e Francesca sembra invece improntato a una sorta di «snellimento dei moduli di racconto», ovvero a quella «relativa linearità dell’ordito, che non prevede sviamenti digressivi e limita i giochi di coincidenze a incastro multiplo» (Spinazzola 1974, p. 74) caratteristica invece del melodramma matarazziano propriamente inteso. Tale semplificazione morfologica (pochi personaggi, un’unica storyline, ambienti ridotti all’essenziale) trova inoltre riscontro in un’impostazione della messa in scena che si concentra quasi esclusivamente sui protagonisti e sulle loro relazioni. In altri termini, le soluzioni compositive adottate dal regista nel suo film dantesco si pongono in quasi perfetta consonanza con la scrittura visiva che informa i suoi melodrammi più celebri, una scrittura «fatta di dialoghi, piani americani e primi piani, di inquadrature strette, che fin dalla messa in quadro escludono il contesto, lo spazio della vita» (Cardone 2007, p. 43): come in Catene ed epigoni, cioè, anche qui il «fulcro dell’azione sono sempre […] gli uomini e le donne […] compresi nell’inquadratura, con il loro carico di sentimenti, dolori, emozioni» (Prudenzi 1990, p. 43), poco importa che si tratti di Armando Francioli e Odile Versois invece che di Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson.

Oltre a questo ‘sfoltimento’ a livello strutturale (e forse correlatamente a esso), Paolo e Francesca presenta almeno un altro elemento di innovazione rispetto al feuilleton storico, ovvero la centralità assoluta del personaggio di Francesca. Più precisamente, sono i movimenti ‘del suo cuore’ a costituire l’architrave patemica profonda che sostiene l’intera dimensione tematico-narrativa dell’opera. In questo senso, dunque, il film sembra essere imperniato sul medesimo «percorso di passione della protagonista» che, secondo Lucia Cardone, plasma con il suo meccanismo ripetitivo i melò matarazziani ‘maturi’ (Cardone 2007, p. 42; sul protagonismo femminile in Matarazzo si vedano anche: Aprà 1976, p. 49, Spinazzola 1974, pp. 74-75). Sono molteplici i passaggi in cui la centralità passionale di Francesca si dispiega in tutta la sua potenza melodrammatica. Per necessaria brevità, mi soffermerò unicamente sul primo di questi momenti, quello in cui Francesca decide di accettare le nozze combinate con Gianciotto.

In questo caso, la strada che viene intrapresa a livello di sceneggiatura è significativa: non viene, cioè, immaginato uno scenario in cui le nozze vengono brutalmente imposte dal padre in nome della Ragion di Stato (come forse sarebbe avvenuto in un film-feuilleton più tradizionale); e neppure ci si appoggia alla tradizione boccaccesca, secondo la quale il matrimonio sarebbe stato celebrato con l’inganno, facendo credere a Francesca di stare sposando davvero il fratello più avvenente del Malatesta – sebbene rimanga una traccia di questa versione nella scena del matrimonio ‘per procura’, le cui premesse narrative e il cui portato drammatico sono comunque evidentemente molto diversi. Al contrario, l’enfasi è posta sulla difficile decisione che l’eroina è chiamata a prendere e, soprattutto, sul terribile sacrificio personale che si trova a dover compiere per la salvezza del proprio popolo. Rivelatore, da questo punto di vista, è il colloquio che la giovane intrattiene con la madre badessa del convento (Angela Lavagna), alla quale si rivolge per chiedere un aiuto e che la esorta a seguire la via più coraggiosa: nelle parole della religiosa, infatti, viene reso esplicito che il dover rinunciare non solo all’orgoglio o alla repulsione per il nemico, ma anche e soprattutto a «qualche cosa di infinitamente più puro e più prezioso» (l’amore), rafforza l’importanza del gesto di Francesca, conferendo a esso un valore quasi sacrale [fig. 6]. Se, come afferma giustamente Cardone, la «disponibilità al sacrificio è una caratteristica connaturata alle protagoniste di Matarazzo» (Cardone 2007, p. 45), nel suo essere destinata a un doloroso percorso di abnegazione a favore di un bene più ‘alto’, Francesca non è quindi poi tanto diversa dalle varie Rosa, Elena, Maria, e Luisa che popolano i melodrammi ambientati nella contemporaneità, i cui sacrifici sono certo più prosaici, ma non per questo meno mortificanti e narrativamente pregnanti.

Sarebbero ancora numerosi gli aspetti più genuinamente (e ‘modernamente’) melodrammatici che traspaiono tra le maglie medievali di Paolo e Francesca. Un altro nucleo tematico molto interessante, e che richiederebbe un ulteriore approfondimento, è ad esempio quello del trattamento ambivalente che il film riserva all’istituzione matrimoniale, concepita come un vincolo sacro e indissolubile (pena il tormento eterno) e al contempo come una gabbia a tinte fosche all’interno della quale la donna è sopraffatta fisicamente e degradata moralmente – in quest’ultima accezione, estremamente rilevante è la scena della cena con canti e balli organizzata da Gianciotto nell’inutile tentativo di compiacere Francesca, scena che segue immediatamente quella dello stupro e nella quale il marito si dilunga su piccanti racconti goliardici a sfondo sessuale davanti alla moglie, ormai ‘deprezzata’ dopo la consumazione del matrimonio: «E che male c’è? Una donna maritata certe cose le può anche sentire…» [fig. 7]. Facendo propria (mutatis mutandis) quella stessa ambiguità nei confronti della famiglia e del matrimonio che rappresenta uno dei cardini ideologici sotterranei del larmoyant matarazziano ‘puro’ (Aprà 1976, passim; Cardone 2007, p. 47 e passim; Cardone 2012, pp. 95-101), Paolo e Francesca instaura dunque con la contemporaneità (o, meglio, con alcune delle tensioni socio-culturali proprie dell’epoca che l’ha prodotto) una relazione molto più complessa di quanto non sia dato inferire dalla sua collocazione in un periodo storico remoto – o, per tornare da dove siamo partiti, dal suo semplice accostamento a un filone così poco interessato alle pressioni del sociale come quello del feuilleton in costume (Spinazzola 1974, pp. 61-62).

Nel finale, la dialettica tra ambientazione storica e afflato moderno che caratterizza il film sembra però in un certo senso ‘scompaginarsi’. O, meglio, sembra dissolversi nel tentativo di una (im)perfetta adesione narrativa e simbolica alla lettera del Canto V, anzitutto a livello di messa in scena. Dopo l’assassinio, un carrello all’indietro ci allontana dai due amanti, lasciandoli mollemente distesi sul pavimento, mentre le tende delle finestre sono violentemente scosse da un vento potentissimo, che è già una «bufera infernal, che mai non resta» [fig. 8]. Durante questo movimento di macchina, tre didascalie che riportano le note formule dantesche – «Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende», «Amor, ch’a nullo amato amar perdona», «Amor condusse noi ad una morte» – compaiono in sovraimpressione sullo schermo, reclamando senza più alcuna mediazione quella «corrispondenza fra il film e i versi» del Poeta che fino a quel punto era stata «tenuta alla larga, perfino evitata» a livello di racconto (Frezza 2016, p. 102). In queste didascalie, cioè, sembra davvero essere intrinsecamente racchiusa tutta l’essenza dantesca del film – l’amore improvviso sbocciato come un automatismo nei due giovani dal cuore nobile, la reciprocità obbligatoria di tale sentimento, fino alla necessaria morte d’amore –, al di là degli espedienti narrativi mutuati dal feuilleton in costume e della sensibilità ‘moderna’ importata dal melodramma.

Questa sequenza assume inoltre dei connotati ancora più destabilizzanti se letta alla luce del «percorso di passione» di Francesca. Già prima dell’intervento del pugnale del marito, è infatti la giovane a decidere in prima istanza di sublimare il proprio sentimento proibito, eternandolo nella morte. Osservata da questa prospettiva, Francesca sembra discostarsi dall’eroina matarazziana classica, con la quale (come abbiamo visto) mantiene comunque dei punti di forte tangenza: le figure femminili di Matarazzo sembrano essere infatti costantemente lacerate dall’impossibilità di scegliere tra «l’amore puro, Eros, il “desiderio senza fine” e il matrimonio, Agapé, il focolare domestico» (Cardone 2007, p. 49; de Rougemont 1977 [1939]), finendo per non risolvere mai interamente questa tensione, nemmeno negli happy ending che le vedono tornare (dopo dolorose peripezie) in seno alla coppia e alla famiglia; al contrario, Francesca prende una posizione netta, abbracciando Eros senza riserve, e dunque andando convintamente incontro alla morte come unico esito possibile. In altre parole, la fine di Paolo e Francesca ci rivela che la sua protagonista, al fondo, per quanto simile alle donne del melodramma ‘contemporaneo’ per intensità passionale e vocazione al sacrificio, è e rimane un personaggio ‘medievale’, più vicino ai dettami dell’amor cortese che alla «nostalgica modernità» (Cardone 2007, p. 51) del cinema di Matarazzo degli anni Cinquanta.

 

Bibliografia

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