4.3. Grembiule, scopa e rossetto. Una lettura intersezionale delle rappresentazioni del lavoro domestico nel cinema e nella televisione italiana (1950-1980)

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Nelle brevi note che seguono espongo i primi risultati di una ricerca tuttora in corso sulle rappresentazioni visuali del lavoro domestico sia nella sua forma retribuita – governanti, cameriere, domestiche o cuoche –, che in quella gratuita svolta dalle donne all’interno della famiglia.

In prospettiva intersezionale, ovvero attenta all’imbricazione tra genere, classe, ʻrazzaʼ e sesso-sessualità, l’analisi di queste rappresentazioni, dei loro processi di costruzione e delle trasformazioni che le investono nell’arco di tempo considerato, contribuisce a far emergere le specificità di un nuovo dispositivo discorsivo e visuale.

 

1. Casalinghe e domestiche: tra modernità e arcaismo

Nel cinema le rappresentazioni di donne che nel ruolo di madri, mogli, figlie, amanti, sono impegnate nello svolgimento di diverse mansioni domestiche – pulizia, cucina, cura dei bambini e degli anziani, spesa, etc. –, sono talmente frequenti che l’idea di stilarne un repertorio esaustivo sembra impresa impossibile. Tuttavia, spesso queste attività si riducono a momenti fuggevoli, azioni senza particolare rilevanza se non per una funzione meramente descrittiva dei personaggi femminili, donne e quindi ʻnaturalmenteʼ dedite a queste mansioni.

Più rare le occasioni in cui il lavoro domestico acquista centralità come nella memorabile sequenza di Una giornata particolare (1977) di Ettore Scola, dove la macchina da presa segue la casalinga proletaria Antonietta – una magnifica Sophia Loren dal volto disfatto – che all’alba fa il caffè, lo porta al marito, raccoglie dall’asse gli abiti stirati, sveglia i sette figli, prepara e serve la colazione, assiste nei preparativi la famiglia che deve andare alla parata fascista. Restata sola si concede del caffellatte – i resti avanzati nelle tazze – e guardando il disordine che la circonda commenta che di mamme ce ne vorrebbero almeno tre, ovvero «una che pulisce, una che sistema la cucina e la terza, io, che si rificca a letto» [fig. 1]. Su un registro diverso è la dimensione domestica nel quarto episodio del film Siamo donne, diretto da Domenico Scala nel 1953. La protagonista – un’attrice ricca e famosa che rimpiange di aver sacrificato per la carriera famiglia e figli – soccorre per strada un bambino ferito e si ritrova ad assumere per un giorno il ruolo di ʻmammaʼ del piccolo, della sorellina e dei fratelli, svolgendone le ʻtipicheʼ mansioni: mettere a letto i bambini, farli mangiare, coccolarli e intrattenerli [fig. 2]. O ancora la scena di Correva l’anno di grazia 1870 di Alfredo Giannetti (1971), in cui Anna Magnani – nel ruolo della moglie di un patriota incarcerato nelle prigioni pontificie – si affaccenda in cucina, rassetta e prepara la cena – un povero piatto di cicorie –, sgrida e consola il figlio.

Anche per il lavoro domestico retribuito la schiera di cameriere, cuoche, bambinaie e governanti è vastissima, e caratterizzata da una grande eterogeneità: dalla ʻservettaʼ in Umberto D. di Vittorio De Sica (1952) con la celebre scena girata in cucina al risveglio, a Elsa Merlini in Cameriera bella presenza offresi… di Giorgio Pastina (1951), dalla governante interpretata da Rina Morelli in Senso di Luchino Visconti (1954) al personaggio di Caramella in Pane, amore e fantasia di Luigi Comencini (1953), ruolo che diede a Tina Pica grande notorietà e che fu riproposto nei successivi Pane, amore e gelosia (1954) e Pane, amore e… (1955) di Dino Risi [fig. 3]. O ancora la cameriera veneta di mezza età, interpretata dall’attrice non professionista Gina Busin in Camilla di Luciano Emmer (1954), o la sempre veneta protagonista di La cameriera di Roberto Bianchi Montero (1975). Nella maggioranza dei casi però anche qui si tratta di comparsate, donne senza nome di cui intravediamo a malapena le mansioni svolte, come ad esempio in Le cameriere di Carlo Ludovico Bragaglia (1959). Talvolta la presenza di queste lavoratrici all’interno della casa è solo evocata o è un mero dettaglio che, al pari di costumi e elementi di scenografia, serve a connotare l’alta estrazione sociale del nucleo familiare rappresentato. In questo caso le lavoratrici, a differenza di quelle che si muovono in ambienti popolari o della piccola e media borghesia, indossano sempre una livrea, e spesso sono affiancate (o del tutto sostituite) da personaggi maschili, come in La donna della domenica di Luigi Comencini (1976) in cui il cameriere è un uomo, tra l’altro rimproverato dalla datrice di lavoro – la nobildonna interpretata da Jacqueline Bisset –, proprio a causa della divisa in disordine, senza guanti e con i bottoni del colletto sbottonati.

Negli stessi decenni la televisione, soprattutto nei filmati pubblicitari, offre rappresentazioni di casalinghe e domestiche altrettanto eterogenee, ma per ovvi motivi tende a privilegiare le prime rispetto alle seconde. Talvolta vi è la tendenza a stabilire una sorta di contiguità tra le due figure, come in La donna di servizio, spot della serie per il detersivo Bio Presto (1968-1976) girato nel 1968 da Piero Benedetti. Il protagonista – interpretato da Franco Cerri, chitarrista jazz di fama internazionale ma noto al pubblico come ʻl’uomo in ammolloʼ – si reca in un’agenzia di ricerca personale per assumere una donna di servizio, ma per errore entra in un’agenzia matrimoniale. Un primo fraintendimento causato da una significativa ambiguità terminologica – la richiesta di una ʻdonnaʼ è intesa dall’impiegato come ricerca di una moglie – stabilisce un equivoco che si amplifica quando il protagonista afferma di non avere preferenze, sarà sufficiente che ʻla donnaʼ sappia occuparsi della casa e dei bambini. L’equivoco si scioglie solo nel finale: Cerri, oramai invitato a pranzo dalla famiglia di colei che lo crede un pretendente, convinto da parte sua di aver trovato la domestica perfetta, esclama «mia moglie sarà contenta!».

In generale nelle pubblicità la donna-casalinga è orgogliosa di pulire e tenere in ordine la casa, coadiuvata dal progresso tecnico: l’invenzione degli elettrodomestici, di nuovi è più efficaci detersivi, di prodotti per la cucina quali dadi e brodi pronti, facilitano e rendono meraviglioso il lavoro domestico, permettendole di avere più tempo per marito e figli. L’enfasi è posta dunque sulla necessaria ʻmodernizzazioneʼ di questo lavoro e del ruolo di casalinga, come mostrano anche i cinque documentari Grammatica della massaia (1960-1969) [fig. 4], ideati con finalità pedagogiche-pubblicitarie sul finire degli anni Cinquanta e realizzati da Filippo Paolone e dal documentarista Giuliano Tomei, autore tra l’altro di Eva nera (1953).

Il coevo Le due casalinghe, spot della Spic&Span, illustra questa tensione attraverso la messa in scena di due donne intente a lavare i pavimenti. La prima è colta nell’atto di pulire in ginocchio, con straccio, secchio e grande fatica. La seconda invece, grazie al nuovo detergente, pulisce senza sforzo, eretta, vestita elegantemente, ben truccata e pettinata. L’immagine poco seducente della prima – grassa, brutta, con uno sformato abito-grembiule, inginocchiata e quindi a stretto contatto con la sporcizia – rinvia a una delle forme di rappresentazione più diffuse della domesticità, quella servile. L’enfasi sul divario tra modernità (la ʻnuovaʼ casalinga) e arcaismo (la domestica-serva), tra civilizzazione e primitivismo, attinge e rimanda a un immaginario ben sedimentato storicamente nel contesto italiano, ovvero quella retorica della missione civilizzatrice utilizzata verso le classi subalterne del sud prima e i popoli colonizzati in seguito; e non estranea al processo di ʻrazzizzazioneʼ del lavoro domestico che comincia a configurarsi in Italia in maniera netta proprio negli anni Cinquanta, quando alle lavoratrici domestiche provenienti dalle zone più povere del paese (Meridione e regioni depresse del nord, quali il Veneto) cominciano ad aggiungersi e poi si sostituiscono un numero sempre maggiore di donne provenienti dalle ex-colonie e altri paesi del sud del mondo.

 

2. Dalla serva nera alla moglie bianca

Elementi che emergono anche nell’analisi di alcuni degli episodi della serie pubblicitaria per l’Olio Sasso (1963-1976), dove Matilde, governante del protagonista, è interpretata dall’attrice africana-americana Edith Peters [fig. 5], nota al grande pubblico per il ruolo della ʻcolf” in Il bisbetico domato (1980) di Castellano e Pipolo. La costruzione della figura di Matilde – abbigliamento, struttura fisica, accento veneto che sostituisce il ‘parlare da negro/a’ usato nel doppiaggio di tanti interpreti neri – condensa alcuni dei tratti peculiari della ʻmammyʼ: la domestica grassa, bonaria e fedele che insieme alla Jezebel (la Venere nera dagli appetiti sessuali insaziabili) è una delle maggiori icone dell’immaginario razzista statunitense, popolarizzata anche in Italia via il successo di film come Via col vento di Victor Fleming (1939) con la celebre governante interpretata da Hattie McDaniel [fig. 6], ruolo che sarà del resto la stessa Peters a interpretare in una trasposizione del film trasmessa dalla Rai in otto puntate nel 1964.

Il successo televisivo e cinematografico della figura della ʻmammyʼ risiede anche nel suo essere sessualmente ʻnon desiderabileʼ e sterile, e quindi rassicurante poiché rende invisibili alcuni degli aspetti più censurati del dominio coloniale: il desiderio ʻinterrazzialeʼ, lo stupro e/o lo sfruttamento sessuale delle donne nere. Una dimensione ben presente nelle vicende coloniali italiane via la figura della ʻmadamaʼ, per lungo tempo tollerata come dispensatrice di servizi sessuali (e domestici) ma di cui si era sempre osteggiato l’accesso a rapporti di ʻindole coniugaleʼ, poi definitivamente proibiti con la proclamazione dell’impero nel 1936.

Negli ultimi spot della serie per l’Olio Sasso, mandati in onda nel 1976, Edith Peters non c’è più così come non c’è l’altra attrice nera che l’aveva sostituita in alcuni episodi. Resta però il personaggio di Matilde, che ora è una donna bianca e, significativamente, non è più la governante del protagonista bensì sua moglie. Una trasformazione strettamente connessa al contesto sociale e politico degli anni Settanta, ma anche alle eredità del passato razzista e coloniale. La metamorfosi del personaggio di Matilde conferma il posto assegnato alle donne nere attraverso rigide dissimmetrie di potere (di genere, ʻrazzaʼ, sesso-sessualità, classe e bianchezza). Le nere non possono che essere donne ‘a servizio’, ma mai mogli e madri della nazione. D’altra parte, lo spot svolge anche una funzione prescrittiva verso le donne bianche, in anni in cui le femministe rivendicavano una radicale rimessa in discussione dei ruoli sessuali e di genere imposti dalla società patriarcale, denunciando tra l’altro la casa e il lavoro domestico come luogo di sfruttamento specifico delle donne (anche se generalmente con scarsa attenzione per il lavoro domestico retribuito e i suoi processi di razzizzazione). Contro queste rivendicazioni lo spot restituisce e impone l’immagine rassicurante e normativa della donna italiana moglie e casalinga perfetta, bianca e quindi legittima ma – come suggerisce il legame di continuità che viene stabilito con la governante nera di cui eredita il nome – sempre e necessariamente ʻservaʼ.

 

3. Dalla madama alla bella governante di colore, tra colonia e postcolonia

Nello stesso periodo anche la frequente proposizione, in particolare nei filoni cinematografici della commedia all’italiana e del porno soft, di donne disinibite e compiacenti in specie se nere – basti pensare ai ruoli interpretati da Zeudi Araya in film come La ragazza dalla pelle di luna (1972) e La ragazza fuori strada (1973), entrambi diretti da Luigi Scattini –, svolge la stessa funzione, ovvero rassicurare lo spettatore maschio italiano circa la saldezza del suo ruolo di dominio (di genere, sessuale e neocoloniale). Il fatto che molte delle protagoniste di questi film siano domestiche – le bianche Laura Antonelli e Daniela Giordano rispettivamente in Malizia (1973) di Salvatore Sampieri e il già citato La cameriera, e le nere Carla Brait in La cameriera nera (1976) e Ines Pellegrini in Una bella governante di colore (1976) di Luigi Russo [fig. 7], per citarne solo alcuni –, è funzionale ad accentuare questo rapporto di dominio. Non è casuale, in queste rappresentazioni, la presenza quasi costante della livrea, storicamente segno della subalternità delle lavoratrici (e lavoratori) domestiche, e del prestigio e potere della famiglia che le impiegava.

Elementi che invitano a continuare a problematizzare le contiguità e le disimmetrie tra i ruoli assegnati alla ʻcasalingaʼ e alla ʻdomesticaʼ nel processo di costruzione della ʻfemminilità modernaʼ maggioritaria (bianca, eterosessuale, di classe media), dalla quale le donne non bianche continuano ancora oggi ad essere escluse.

 

 

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