È stata definita «la presa del Louvre» (Kieffer 2018). Nel videoclip APESHIT (stilizzato in lettere maiuscole e spesso attenuato dagli asterischi) Beyoncé e Jay-Z si appropriano di un emblema della modernità artistica occidentale per officiare in mondovisione la loro cerimonia di incoronazione. Il rito è destinato a un pubblico le cui proporzioni superano, di fatto, quelle di ogni impero del passato (soltanto su Youtube il video ha collezionato più di 235 milioni di visualizzazioni, senza contare le condivisioni e i likes sulle altre piattaforme). I corridoi e i padiglioni del museo più visitato al mondo, normalmente traboccanti di turisti e visitatori, appaiono adesso eccezionalmente vuoti, riservati ai danzatori e ai cantanti: lo spazio aperto e l’eco che rimbomba nelle sale dell’antica residenza regale francese diventano così i segni eloquenti della compiuta consacrazione della coppia di artisti, che nel brano si ripetono a vicenda «I can’t believe we made it». Chi ha denunciato in Apeshit il delirio autocelebrativo e mitomane delle due maggiori celebrità dell’industria musicale, un arrogante oltraggio kitsch dei «nuovi monarchi della cultura» nei confronti della «Cultura» (Devillers 2018), è fuori strada. L’occupazione del Louvre non risponde all’esigenza della coppia di celebrare la propria carriera e il proprio matrimonio, ostentando il potere e l’enorme successo finanziario raggiunto, ma è pienamente funzionale a una rivendicazione dalla portata senz’altro scandalosa ma altamente coerente e fondata, come vedremo, su una interpretazione dell’arte e della storia che le categorie dantesche aiuteranno a mettere a fuoco.
Come è stato riconosciuto dai tutti i commentatori, il videoclip rappresenta il culmine del discorso con cui Bejoncé e Jay-Z hanno fronteggiato lo sradicamento e la cancellazione dell’identità nera nell’arte e nella società occidentali, in corrispondenza con la più avanzata elaborazione teorica con cui il prodotto intreccia suggestive consonanze (penso all’ultimo volume di Dan Hicks, The Brutish Museums). La sfida alla white supremacy lanciata dai Carter in Apeshit porta a compimento un processo di riappropriazione identitaria assai consapevole e lungamente preparato, come dimostra la dimestichezza dei due artisti con l’opera di Jean-Michel Basquiat e di altre icone dell’arte nera (Savryn 2016, pp. 1-26), la splendida narrazione fotografica della gravidanza di Bejoncé e le visite-evento della famiglia Carter al Louvre testimoniate nel corso di sei anni su Instagram (El Hissy 2019, pp. 3-5). Non sono mancate interpretazioni avverse all’impostazione del problema da parte dei due artisti, al loro costante riferimento a imperialist racial tropes rispetto a cui misurare il proprio successo, in cui troverebbe conferma la logica dell’identità black come forma di alterità rispetto alla whiteness (Lochard 2018, p. 43). La situazione è resa ancora più complessa dall’intrecciarsi dell’argomento coloniale con la loro lucida revisione della bad sexuality tipica del genere e che in Apeshit appare definitivamente superata (Silberstein 2019). Questioni tanto importanti quanto delicate meritano analisi di ampio respiro. Dal canto nostro, riteniamo sia il caso di mettere in luce le categorie formali e ideologiche su cui, a nostro avviso, si fonda l’intera impalcatura del videoclip. Si tratterà, innanzitutto, di dare ragione dei modi attraverso cui Bejoncé e Jay-Z hanno potuto ravvisare nella loro personalissima vicenda il compimento dell’intera vicenda artistica umana. All’interno di una trama complessa di citazioni, allusioni e rimandi alla dimensione visuale (Vernallis 2018, pp. 28-40), la calibrata presenza di una tessera dantesca suggerisce la chiave interpretativa più adeguata cui accostare – in tutta la sua complessità – l’operazione messa in atto dai due artisti.
Sullo schermo ancora nero risuonano le campane di una chiesa [fig. 1]. È un’eco distinta, che introduce all’apparizione di un giovane alato, piegato sui talloni, con i gomiti poggiati alle ginocchia: un angelo di colore, silenzioso e meditabondo, tiene le mani davanti a sé e ha il volto coperto dalle treccine, le braccia nude e muscolose da fotomodello, i jeans strappati e le scarpe da tennis bianche come le ali meravigliose che gli scendono dalle scapole fino al pavimento della scalinata. Immobile in una piazza vuota e antica l’angelo attendeva un avvento: il nostro. I rintocchi si avvertono nitidamente e si mescolano alle sirene di una volante della polizia, in lontananza, e al suono dei nostri passi. L’angelo si sfrega le mani come per scaldarsi. Il gesto, compiuto con impassibilità, sembra l’imitazione di un gesto: è quasi impercettibile, e sembra voler assicurare allo spettatore la consistenza e la vitalità di quella epifania, niente affatto impalpabile né eterea. A parte questo, l’angelo resta immobile. Lo stacco, a questo punto, ci porta all’interno. Le inquadrature suggeriscono una nostra piena immedesimazione: siamo penetrati nel Museo del Louvre come privilegiati visitatori notturni. La silenziosa apparizione iniziale, angelica e terrestre, appartenente alla realtà ultraterrena e ai disordini urbani di una periferia in rivolta, ha subito incardinato la nostra esperienza visiva in una dimensione obliqua: lo sguardo dovrà mantenersi estraneo a ogni compiacimento turistico e disposto ad accedere a un diverso orizzonte di senso. All’interno, la visione è abbacinata dal profondo chiaroscuro dei magnifici affreschi, dallo spessore e dalla materialità dei volumi, dai colori delle pennellate che superano d’un tratto il buio della notte che ci siamo lasciati alle spalle. Cambia la saturazione dell’immagine, che rapidamente attraversa lo spettro dei colori riflettendo le luci dei lampeggianti di una volante, e le ombre sulla volta si allungano, animando le scene che sembrano prendere vita. Con un rapido movimento dello sguardo, poi, l’attenzione scende sui dipinti disposti lungo le pareti. Gli occhi sono attratti ora delle pieghe di una fascia che scende morbida sul capo di una donna, ora dai solchi di un cuscino in velluto che si increspa assecondando il peso di un corpicino che vi è poggiato, ora dal frammento di un volto, inaspettatamente a tutto campo: lo zoom ravvicinato impedisce una comprensione d’insieme della figura, maschile e canuta, e mette in risalto i tratti minimi dell’opera, il fondo scuro delle orbite, le sfumature bianche e grigie dei capelli, il panno acceso di rosso fiammante.
Questa sequenza iniziale [fig. 2], enigmatica e destabilizzante, sottolinea l’impatto estetico ed emotivo delle opere, escludendo da parte nostra una fruizione inerte e preparando, finalmente, l’ingresso di Bejoncé e Jay-Z. Parte il beat, l’inquadratura si allarga sulla sala, e si avvicina alla parete di fondo. L’immagine è forse la più nota dell’arte occidentale, ma si offre qui in una forma del tutto nuova, che la sottrae al rischio di uno svuotamento di senso: questa Gioconda è inedita, non è mai stata mostrata prima. Il soggetto della Gioconda è ora moltiplicato: all’immagine dipinta da Leonardo si sommano le fisionomie delle due superstar, che posano sfiorandosi le mani, dando le spalle al quadro. I Carter creano così un trittico che recupera e moltiplica la composizione del capolavoro originale, intensificandone tutti gli elementi formali. Il ritratto è diventato un autoritratto. È evidente come, in plateale contrasto con l’immediatezza e la velocità richieste a un prodotto destinato al consumo di massa, Apeshit condensi un messaggio visuale articolato e certamente ardito, che non fornisce un semplice supporto ma ambisce a offrire un vero e proprio commento figurativo alla canzone, un’interpretazione visiva del suo messaggio. Il raffinato corto-circuito tra le diverse immagini, come vedremo, riesce a estendere enormemente l’orizzonte del significato del brano, dando vita a un congegno multimediale che forza i limiti del genere e richiede un’attenta decodifica.
Abbiamo rievocato le lente sequenze d’apertura perché, a nostro avviso, lo stile dei primi trentotto secondi descrive con efficacia la grammatica dell’intero videoclip: Apeshit, infatti, si avvale di un sorvegliatissimo montaggio e di una peculiare mise-en-scène per conquistare la temporalità e la spazialità proprie del linguaggio visuale (Segre 2003). Le riprese, non a caso, insistono su composizioni prive di un reale dinamismo, e che sembrano offrirsi alla sola contemplazione degli spettatori, imitando il meccanismo in gioco nelle opere figurative. Il trattamento delle diverse scene è pittorico o scultoreo, non cinematografico: la marca caratteristica del discorso di Apeshit è la ricerca della durata propria dell’arte figurativa nella restituzione della figura umana e nella composizione delle immagini. Sullo schermo vediamo scorrere quasi una lunga carrellata di diapositive, che funzionano come una serie di tableaux vivants. La macchina da presa, certo, si muove per cogliere gesti, dettagli e scorci secondo diverse angolature: tale dinamismo, però, sembra riprodurre l’esperienza visiva di chi assiste a un concitato avvicendarsi di immagini, giustapposte violentemente, e prova a orientarsi e a cogliere i nessi e l’andamento del discorso. A ben vedere, infatti, il videoclip non costruisce alcun intreccio, non documenta lo svolgersi di una serie di azioni tra loro concatenate fino al raggiungimento di un telos, ma allestisce un palinsesto di immagini, che si dissolvono l’un l’altre. I movimenti di macchina, allora, ricalcano il lento spostarsi degli occhi di uno spettatore che osserva numerose tele da una posizione assai ravvicinata. Il racconto di Apeshit procede per immagini secondo una sintassi di forte tensione.
Le scelte estetiche all’interno delle singole riprese puntano a illanguidire, nella nostra progressiva decodifica, ogni sostanziale differenza tra lo statuto dei performer e quello delle opere del Louvre: i vestiti color pastello e le generose scollature aperte sul petto nudo dei Carter – non privo, questa volta, di gioielli dal valore incalcolabile – non sono che una brillante ‘ripetizione’ dell’abbigliamento della Gioconda [fig. 3a]. Ma è soprattutto il corpo degli artisti a configurarsi come l’elemento mimetico per eccellenza, poiché è il luogo in cui avviene una vera e propria ‘immedesimazione incarnata’. Tra la fisicità dei corpi e la matericità delle opere si realizza una completa assimilazione: le pose plastiche degli artisti riproducono le forme iconiche e universalmente riconoscibili dei modelli antichi, la coreografia cangiante ricalca i contorni di quelle immagini archetipiche. Beyoncé, Jay-Z e i danzatori ambiscono a conferire (o a rivelare) una nuova fisionomia alle celebri immagini di partenza, di volta in volta sovrapponendo una originale rielaborazione delle immagini alle impressioni retinali ancora vividamente impresse nella memoria, fino a sostituire le antiche figurazioni con le nuove. In questo processo di acquisizione e reinterpretazione creativa, ogni affanno viene celato: i volti resteranno sempre austeri e solenni, concedendo soltanto pochi, parsimoniosi sorrisi. Senza tradire alcuna volgarità o superbia, accomodati come antichi patrizi romani, i Carter esprimono una piena consapevolezza intorno alla gravità e alla scandalosa portata della loro operazione. La distanza ieratica negli sguardi rispecchia una fisicità quasi inattingibile, ormai consegnata al privilegio di una custodia perenne, al pari delle opere esposte al Louvre: anche in questo modo il videoclip intende sottrarre i soggetti alla decadenza del tempo umano, per inscriverli nella dimensione assoluta degli innumerevoli capolavori dell’arte di ogni tempo che scorrono, senza sosta, sullo schermo.
Il montaggio di Apeshit mantiene un andamento fortemente paratattico: i diversi fotogrammi sono violentemente giustapposti a significare l’omogeneità sostanziale dei soggetti inquadrati (siano essi in carne e ossa, dipinti o scolpiti nel marmo) [fig. 3b]. Il continuo slittamento dei piani segue, infatti, una direttrice costante, a suggerire la dialettica di immedesimazione tra i Carters, i danzatori e i grandi capolavori del Louvre. Tale con-fusione culmina nelle sequenze in cui i performer e le opere condividono il medesimo spazio scenico: qui il rigore si stempera nelle coreografie, che realizzano al massimo grado di amplificazione il rapporto di ‘contiguità’ tra i corpi e le opere dell’ambiente (Plate 2019, pp. 4-7). Danzando ai piedi della Nike di Samotracia, avvolta come lei in un morbido panneggio bianco, Bejoncé sembra letteralmente dare vita alla scultura. L’ardita immedesimazione viene compiuta fino in fondo, non si tratta appena di un’imitazione esteriore: Bejoncé incarna e supera il modello antico, trapiantando tutta la potenza visuale di quel dispositivo artistico nell’orizzonte presente, mentre canta: «have you haver seen a queen going apeshit?». Il risultato è, in questo caso, una denuncia sprezzante: il capolavoro greco, relegato in secondo piano sul proprio piedistallo, dimostra una drammatica inerzia e sterilità, ed effettivamente quasi svanisce di fronte al corpo vivo della cantante. È la donna a reclamare il centro della scena sulle rovine di un mondo ormai inespressivo, e a imporsi come suprema realizzazione e attualizzazione dell’immagine numinosa antica: quest’ultima, forse, ha esaurito la sua originaria e dirompente carica visuale. Non si tratta, però, di una vera e propria sostituzione, perché il dato visuale del passato non viene del tutto obliterato, ma recuperato e rilanciato in avanti: Bejoncé sembra voler assumere su di sé tutte le implicazioni e la significatività della Nike, ponendosi come suo ‘inveramento’, ossia come presenza attuale e carnale in cui si realizza in modo più perfetto, più compiuto, ciò che in potenza era racchiuso nel modello.
La dinamica visuale che abbiamo provato a descrivere finora si interrompe bruscamente dopo soli due minuti e quindici secondi: viene meno la base musicale, i danzatori tornano a distendersi sui gradini delle scalinate [figg. 4 e 5]. Il videoclip si immerge di nuovo in un’atmosfera ambigua, popolata da segni enigmatici (Oore 2018, pp. 49-50). L’ultima sillaba cantata da Beyoncé si dissolve nel suono delle campane: i due ultimi rintocchi sfumano a loro volta, lasciando risuonare lungamente gli armonici, attraversati dallo sferragliare di una metropolitana. L’esatta ambientazione resta inafferrabile e sospesa, e si susseguono scenari inaspettati: una galleria oscura, i corridoi di una scuola, una camera da letto. Subentrano nuovi protagonisti: al centro di questa sequenza non ci sono i cantanti né i danzatori ma semplici adolescenti. Da una generale indistinzione dei volti e delle fisionomie individuali avverrà una progressiva messa a fuoco: nel buio del tunnel si stagliano, in attesa, sagome anonime e irriconoscibili, nascoste dall’ombra rischiarata, poi, dal successivo fotogramma puntato sulle ampie finestre del museo; tra gli armadietti e le scritte sui muri di un’ala fatiscente della scuola alcuni ragazzi si muovono veloci, nascondendosi come teppisti senza nome rincorsi da un inserviente. Il ritmo si è fatto concitato: la tensione si stempera in modo inaspettato, grazie a uno dei vertiginosi cambi di prospettiva che, lo abbiamo visto, rappresentano la specificità visiva di Apeshit. Un nuovo dipinto appare a tutto schermo. Il fondale è oscuro come i luoghi da cui arriviamo, ma è trasfigurato dalla presenza di due figure, strette in un drammatico abbraccio: Paolo e Francesca, nell’opera di Ary Scheffer (Les Ombres de Francesca da Rimini et de Paolo Malatesta apparaissent à Dante et à Virgile, olio su tela, 1835). L’ampia architettura visiva del videoclip culmina, dunque, nel segmento dantesco. A ben vedere, esso occupa una posizione di assoluto rilievo, incastonato al centro di un capitolo che sviluppa una narrazione autonoma e fortemente sbilanciata sul linguaggio visuale. La microunità che ruota attorno all’immagine dei due amanti del canto quinto dell’Inferno esprime il vertice espressivo di Apeshit, poiché veicola con particolare sintesi ed efficacia il nucleo di senso poi riproposto dal videoclip. Al dipinto di Scheffer sono dedicate, a rimarcare il ruolo cruciale dell’opera, due inquadrature consecutive. Dopo una prima visione d’insieme, lo sguardo si concentra sulla sezione sinistra dell’opera: l’attenzione è ora attratta dal volto di Francesca commosso fino alle lacrime, dall’abbraccio energico e disperato con cui la donna si aggrappa al petto dell’uomo, ferito in profondità ma privo di sangue, un petto paradossale che rivela la morte e la dannazione. Il fotogramma successivo, ricalcando l’immagine appena descritta, mostra due ragazzi abbracciati in una camera da letto. Lo schianto visivo deflagra in tutta la sua potenza: il giovane poggia teneramente la testa sul petto della ragazza, che lo stringe a sé accarezzandolo. È evidente la simmetria della nuova immagine, che capovolge l’equilibrio delle linee e dei volumi per rovesciare la polarità dell’abbraccio di Paolo e Francesca. Questa scena, però, non conosce il «doloroso passo»: l’abbraccio dei due amanti non è viziato dal peccato, né si trova in balìa della violenza umana, che perpetua il male in una catena senza fine e senza perdono, come nel caso di Gianciotto. Questi amanti non scateneranno la pietà di chi si accosta loro con animo partecipe. Treccine nerissime scendono lungo la schiena della donna, sottolineando la lieve e sensuale inclinazione del suo capo; gli occhi di entrambi restano socchiusi e sereni. La canottiera bianca di lui, la maglia nera ma illuminata dagli strass di lei, le braccia su cui riluce l’illuminazione tenue della stanza sottolineano i contorni dei corpi in modo analogo al quadro di Scheffer. L’intimità dei due giovani afroamericani è ordinaria, quotidiana, e fiorisce priva di sfarzo. I rintocchi di campana inaugurano altre apparizioni inaspettate, solo apparentemente irrelate: un ragazzo in preghiera, la Pietà di Rosso Fiorentino. Adesso ricompare la coppia, sulla coperta rossa del letto, e finalmente il bacio. Torna ad addensarsi una nuvola di suono, che innesca la ripresa della canzone: a questo punto, il primo piano di un adolescente. L’identità nera ha ottenuto, finalmente, lo spazio che la storia le ha sempre negato, calpestandola (Chapman 2018, p. 68): l’itinerario visivo della sequenza è giunto a compimento.
La dialettica tra Les Ombres de Francesca da Rimini et de Paolo Malatesta e l’abbraccio che ha luogo nella modesta cameretta chiama lo spettatore a riconoscere le due rappresentazioni come attualizzazioni diverse di un unico archetipo [figg. 6 e 7]. Il bacio di Paolo e Francesca si trasfigura, a distanza di settecento anni, in quello della coppia di Apeshit. La vasta opera di decolonizzazione culturale compiuta dai Carter si incarna nella vicenda dei due giovani innamorati: la capacità di accostare il dato universale attraverso una stretta fenditura, svelata nella sua massima significazione, è un tratto tipico della Divina Commedia dantesca. Proprio il quinto canto dell’Inferno, infatti, segna l’ingresso della cronaca accanto all’epica: accanto ai personaggi della letteratura e della grande storia collettiva, trovano posto i due sventurati protagonisti d’una vicenda privata. La tradizione dell’amore cortese aveva il volto di Francesca, e il codice cristiano della carità quello del viandante. Il contrasto tra le due opzioni assume la forma dello svenimento finale: immedesimandosi in lei fino al patimento, il pellegrino aveva compreso la condanna e la compassione. Spesso, per Dante, la chiave d’accesso ai misteri decisivi dell’esistenza umana è nelle pieghe più intime del reale, che anzi soltanto in questa luce mostrano tutta la loro verità. Gli esempi nel poema sono numerosi, e certamente il canto V dell’Inferno ospita quello più celebre. Il conflitto tra la follia delle pulsioni amorose e l’ordine governato dalla ragione e dalla caritas trova nella storia di Paolo e Francesca una formulazione indimenticabile, capace di commuovere il pellegrino e il lettore fino alla pietà. Ma non solo questo: all’altezza della composizione dell’Inferno, infatti, Dante ci testimonia di essere approdato a un nuovo ordine di comprensione della realtà, che lo spinge a ripensare da una nuova prospettiva persino i più torbidi fatti di cronaca del suo tempo. Nella cameretta in cui i due giovani si abbracciano e si baciano avviene la medesima intensificazione e valorizzazione dell’umano che Dante ha scoperto in Beatrice, mulier carnea «venuta / da cielo in terra a miracol mostrare».
In forza della centralità del segmento relativo a Paolo e Francesca nell’ordito complessivo di Apeshit, il videoclip rivendica il proprio posto nel catalogo delle produzioni cinematiche dantesche. Rispetto alle realizzazioni più mature e convincenti (ad opera di Iannucci-Edmunds e Greenaway-Phillips), la componente visuale propriamente dantesca è, in termini quantitativi, minoritaria, collocata all’interno di un’ampia trama di presenze iconografiche disparate. Eppure, non solo la traccia mnestica dell’Inferno svolge un ruolo cruciale, ma la stessa meditazione sulla storia umana proposta dai Carter riceve, attraverso le categorie medievali e dantesche, un vantaggioso chiarimento. Non è certo produttivo chiedersi quale ‘idea di Dante’ sia testimoniata da questo particolarissimo esempio di visualizzazione dantesca (Battaglia Ricci 2019). Lo scopo di Beyoncé e Jay-Z non è certo illustrare o ricostruire il testo del poema nella sua specificità. Ciononostante, il videoclip Apeshit testimonia non soltanto la permanenza e la trasformazione della forma mentis tipologica ma anche la resistente potenzialità dell’immaginario dantesco, che continua a generare esiti imprevedibili: Dante, in qualche modo, ancora oggi continua a «produrre TV» (Iannucci 1994). Riscrivendo i termini fondamentali della categoria di tipologia, i Carter applicano un’enorme pressione sulla nozione di partenza, finendo per individuare in sé stessi – e nell’intera comunità afroamericana – il luogo del ‘ritorno potenziato’ (Ohly 1977). Siamo di fronte a un’ardita rielaborazione, o ‘deteologizzazione’, della figuralità scritturale, piegata alle necessità più urgenti della cultura black contemporanea.
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