5.1. Mostrare o non mostrare? Descrivere o non descrivere? Incursioni nella stanza proibita di Barbablù

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Benché le varianti folcloriche della fiaba di Barbablù siano sostanzialmente riconducibili a tre sole tipologie – AT 312 «Bluebeard», a cui appartiene la versione di Perrault, AT 311 «The Heroine Saves Herself and Her Sisters», in cui si classifica Fitchers Vogel dei Grimm, e AT 955 «The Robber Bridegroom» (Aarne [1928] 1981) –, il protagonista presenta tratti molto eterogenei quanto a identità sociale, nazionalità e carattere: egli è prevalentemente marchese, barone, sultano; generalmente francese, inglese, Moro, turco, italiano. Sempre molto, molto ricco. Oltre che assassino è orco, gigante, vampiro, cannibale e, in Naso d’Argento (Calvino 1968), perfino diavolo. In ogni caso è «inevitably presented as Other, belonging to a different class, land, or world altogether» (Bacchilega 1997, p. 139).

L’attribuzione di responsabilità legata alla carneficina non viene registrata da Barbablù. Il sangue, mentre sporca la chiave, sposta la colpa dal pluriomicida alla moglie che ha aperto la porta: uno degli aspetti inquietanti della fiaba è proprio il trasferimento spregiudicato della colpa dall’assassino alla potenziale vittima, trasferimento assecondato dalla celebre interpretazione di Bettelheim ([1977] 1981) della disobbedienza come metafora dell’infedeltà coniugale, dove la curiosità è il sommo peccato femminile.

Al centro della fiaba – e del saggio – la stanza proibita e l’atto trasgressivo della sua apertura. Come in un gioco di specchi (non marginali nella vicenda), la fiaba sovrascrive la trasgressione ai crimini efferati di Barbablù. Motore di ogni fiaba, la trasgressione, unita a proibizione e punizione, è presente anche nel mito (dal vaso di Pandora ad Amore e Psiche). Non a caso, nella versione illustrata da Crane (1899, p. 2), sullo sfondo del riquadro dedicato alla moglie compare un arazzo raffigurante Eva che ha colto il frutto dell’albero della conoscenza, sul quale è avvolto il serpente-diavolo: la caduta di Eva è palinsesto per la moglie che, con la chiave in mano, scende le scale verso gli inferi della conoscenza. A tal proposito Barzilai (2009, p. 17) avanza un’ipotesi teologica: Barbablù si è appropriato delle prerogative divine della proibizione biblica ed è ucciso per la sua imitatio dei, non per i suoi crimini.

Importante strategia narrativa, la trasgressione nella fiction spalanca le porte all’avventura. In Barbablù, invece, nessuno ha la vocazione del picaro e l’avventura è sostituita da un ammonimento, un cautionary tale matrimoniale che prevede il salvataggio da parte della famiglia d’origine. Se alle famiglie disfunzionali delle fiabe di solito si sfugge con il matrimonio e il happily ever after, qui accade un movimento inverso, regressivo, che lo decostruisce. Lo sposo non è un principe azzurro ma un individuo che la moglie impara a conoscere solo quando, oltrepassata la soglia della stanza, entra nella psiche e nel passato di lui – una forma estrema di intimità coniugale segnata da un netto sbilanciamento di potere.

L’apertura della stanza genera nella moglie un cambiamento non registrabile dalla fiaba: i personaggi fiabeschi, ha argomentato Lüthi (1982), privi di spessore e di profondità interiore, rispondono agli stimoli dell’ambiente con meccanica univocità. Per necessità di memorizzazione e di trasmissione orale il plot nella fiaba è tutto, e i personaggi esternano i propri conflitti interiori soltanto tramite le azioni. Ma anche raffigurare la conseguenza di un’azione – svelare i contenuti della stanza – può creare difficoltà.

Partiamo ‘dall’inizio’, dall’apertura della stanza in Perrault (1697):

 

D’abord elle ne vit rien, parce que les fenêtres étaient fermées; après quelques moments, elle commença à voir que le plancher était tout couvert de sang caillé, et que dans ce sang, se miraient les corps de plusieurs femmes mortes et attachées le long des murs (c’était toutes les femmes que la Barbe bleue avait épousées, et qu’il avait égorgées l’une après l’autre). (Perrault 2002, p. 38).

 

La prima traduzione inglese è di Robert Samber (1729): «After some moments she began to observe that the floor was all covered in clotted blood, on which lay the bodies of several dead women ranged against the walls» (in Hermansson 2009, p. 45). Subito si nota una grave incongruenza: sul pavimento, coperto di sangue rappreso, giacciono i corpi di numerose donne allineate alle pareti. Scompare il rispecchiamento (in Perrault il sangue riflette i corpi) e i corpi giacciono nel sangue e contemporaneamente si trovano alle pareti; mistranslation emblematica della costante revisione, cui induce il difficile allestimento di una scena così cruciale. Le riproduzioni e le riscritture oscillano continuamente tra il rappresentabile e l’indicibile, tra il non rappresentabile e il comunque raccontabile, con combinazioni e incroci vari tra (non) dire e (non) illustrare. Nel caso delle illustrazioni del testo di Perrault, i più famosi artisti otto-novecenteschi non raffigurano la dettagliata descrizione della stanza. Per esempio Doré si limita a illustrare la scena della chiave, convogliando la ferocia di Barbablù nello sguardo ferino; Crane (1899) e Rackham ([1933] 2018) scelgono il momento immediatamente precedente l’apertura, una forma di suspense visiva, irresistibile per molti futuri illustratori, che pone l’accento sull’aspetto thriller della vicenda (la moglie nel ruolo di investigatrice più che di traditrice) [figg. 1-2]. Le illustrazioni di Dulac alla versione di Quiller Couch ([1910] 2009) testimoniano la moda orientaleggiante di fine secolo (Barbablù come tiranno orientale, la moglie di nome Fatima) e mostrano una prospettiva diversa: la stanza coincide con la posizione dello spettatore, ciò che si vede è solo la reazione della fanciulla [fig. 3]. Il testo – amplificando la descrizione di Perrault – ne segue il movimento del capo dal basso verso l’alto, e la prima impressione è che la stanza sia rosso-violacea perché interamente ricoperta di porfido.

Mostrare la reazione senza neppure descrivere i contenuti della stanza è la strategia di Beatrix Potter nel racconto Sister Anne, pubblicato nel 1932 negli Stati Uniti per lettori più grandi di quelli cui abitualmente rivolgeva le sue favole di animali. La riscrittura, ambientata nel Medioevo, nelle zone del Nord dell’Inghilterra care alla scrittrice, è incentrata sulla violenza domestica del barone, uomo volgare, dagli occhi porcini, gran mangiatore di carni allo spiedo, che, con una banda di scagnozzi misogini e violenti, opprime gli affittuari con scorribande e furti. Del tutto assente l’elemento magico: il barone si accorge che la stanza è stata aperta per l’impatto devastante che la vista della camera – contenente un orrore non spiegato e non illustrato – ha provocato nella moglie, trovata svenuta sulla soglia dalla sorella. In Sister Anne è tale impatto a fare da specchio dell’orrore.

Specchi e superfici riflettenti non sono secondari in Perrault: il palazzo è ricco di specchi con cornici sfarzose di vetro e argento, nei quali ci si può guardare a figura intera (viene in mente la Galerie des Glaces di Versailles, completata pochi anni prima della stesura della fiaba). Del resto gli specchi sono tipici della fiaba, che ama i colori forti e i contrasti: brillante come l’oro, nero come l’ala del corvo, rosso come il sangue – come nella scena ‘primaria’ di Perrault. Riflessione e specchio sono alla base della riscrittura aggiornata a inizio secolo The Bloody Chamber (Carter [1979] 1995). La moglie sopravvissuta – e narratrice – diventa consapevole del suo potenziale di seduzione e corruzione grazie agli specchi che la circondano e all’immagine riflessa restituitale dagli sguardi del marito.

Per certi versi l’allestimento della camera degli orrori è un’operazione morbosamente estetizzante: la mostra di un collezionista, un «tableau mort» (Hermansson 2009, p. 141), che prevede che la spettatrice vi prenda parte e lo completi. È quasi una scena en abyme: il personaggio entra nel quadro e prende posto nella serie di cadaveri esposti alla contemplazione estetica (Tatar 2004, p. 153). Nel caso della Carter i corpi, conservati in una camera di tortura prima che di morte, obbediscono a una morbosa legge del contrappasso: l’allestimento prevede l’aggiunta dell’ultima moglie, pianista, decapitata come Santa Cecilia, patrona dei musicisti.

L’oggettivazione dei corpi come parte di un allestimento è, insieme, reale e metaforica. Ciò che la Fatima di turno trova aprendo la porta va dal grado zero dell’orrore, con oggetti che richiamano le fanciulle, fino al grado massimo, quando si spalancano le porte dell’inferno e si scorgono le fiamme. Il grado minimo è nella descrizione di Anatole France: uno stanzino delle principesse tristi, dove una moglie troppo impressionabile scambia i quadri alle pareti per cadaveri mutilati; la stanza «emana un’influenza maligna» (France 2004, p. 27) e nulla più. Diverso il contenuto della stanza in Anne Thackeray (figlia dello scrittore) e Beatrice Masini: nelle loro riscritture, diverse per lingua, periodo e destinatario, i corpi delle mogli sono sostituiti da oggetti. In Bluebeard’s Keys (Ritchie [1874] 1890), ambientata a Roma, la chiave proibita apre un forziere dove il ricco marchese Barbi ha conservato non i corpi bensì i feticci delle donne che, spezzando loro il cuore, ha indotto al suicidio: lettere, abiti, gioielli, ritratti, incluso quello di Fanny, la protagonista. Aprendo il cassone ella vede se stessa, poi la sorella, riflessa nel grande specchio sotto il coperchio. Chiunque apra il forziere, diventa parte del museo metonimico del ricordo, memento delle efferatezze del marchese. Al contrario dei corpi, le lettere delle mogli in un certo modo ‘parlano’ di loro, del loro destino, delle loro storie di abbandono e violenza.

Nella versione per ragazzi di Masini [fig. 4], la protagonista Blu trova nella stanza segreta uno scrigno che conserva un oggetto per ogni donna uccisa. Qui sarà Blu a uccidere il marito nel sonno e a organizzare i funerali delle ragazze, «deponendo in sei scatole quasi identiche quei piccoli oggetti che le ricordavano» (Masini 2017, p. 71). Mentre la fiaba di Perrault non si sofferma sul destino dei cadaveri, questa invece ritualizza la sepoltura degli oggetti, sostituti dei corpi (significativamente rappresentati nel disegno) [figg. 5-6].

Nella novella Alien Territory (Atwood 1995) la moglie sa che Barbablù è un serial killer. Affascinata di poter entrare nel mistero della sua psiche, trova nei cassetti, piegati, stirati e profumati di lavanda, i corpi delle mogli, e nella stanza segreta un bambino morto: «It’s mine, he said, coming up behind her. I gave birth to it. I warned you. Weren’t you happy with me? It looks like you, she said, not turning around, not knowing what else to say» (p. 113). Se l’omicidio delle donne è in qualche modo accettato e perdonato da questa moglie innamorata e volonterosa, il cadavere del bambino, emanazione del marito, va oltre ogni tentativo di comprensione e redenzione.

A secoli di distanza l’una dall’altra queste versioni cercano, se non sempre di comprendere, almeno di accompagnarci nella stanza del morboso allestimento, fermandosi sulla soglia per proteggerci oppure facendoci entrare nello sguardo della moglie, nel riflesso dei cadaveri sulla sua psiche. La stanza è aperta, il mistero svelato. Dopo l’esitazione nulla sarà più come prima; la terribile intimità con l’assassino seriale porta la moglie, e con lei il lettore, dall’innocenza alla conoscenza. In ciò la fiaba, come ogni forma di storytelling, e quale «ancient virtual reality technology that specializes in simulating human problems» (Gottschall 2013, p. 59), ci regala fortissime emozioni vicarie. La stanza di Barbablù ci concede una passeggiata virtuale all’inferno, ma lascia la chiave sempre salda nelle nostre mani.

 

 

Bibliografia

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M. Atwood, ‘Alien Territory’, in Ead., Bones and Murder, London, Virago, 1995, pp. 103-116.

C. Bacchilega, Postmodern Fairy Tales. Gender and Narrative Strategies, Philadelphia, The University of Pennsylvania Press, 1997.

S. Barzilai, Tales of Bluebeard and His Wives from Late Antiquity to Postmodern Times, London and New York, Routledge, 2009.

B. Bettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicanalitici delle fiabe [1977], Milano, Feltrinelli, 1981.

I. Calvino, ‘Il Naso d’argento’, in Id. (a cura di). Fiabe Italiane, Milano, Mondadori, 1968, pp. 98-107.

A. Carter, The Bloody Chamber and Other Stories (1979), London, Vintage, 1995.

W. Crane, Bluebeard’s Picturebook, London and New York, John Lane, 1899.

A. France, Le sette mogli di Barbablù, trad. di P. Verdecchia, Roma, Donzelli, 2004.

J. Gottschall, The Storytelling Animal. How Stories Make Us Human, New York and Boston, Mariner Books, 2013.

C. Hermansson, Bluebeard. A Reader’s Guide to the English Tradition, Jackson, University Press of Mississippi, 2009.

M. Lüthi, The European Folktale: Form and Nature, Bloomington and Indianapolis, Indiana University Press, 1982.

B. Masini, Blu. Un’altra storia di Barbablù, Milano, Pelledoca, 2017.

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B. Potter, ‘Sister Anne’ [1932], in The Complete Works of Beatrix Potter, Delphi Classics, Kindle ed.

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A. Rackham, The Arthur Rackham Fairy Book. A Book of Old Favourites with New Illustrations [1933], Pook Press, 2018, Kindle ed.

A.I. Ritchie (Miss Thackeray), ‘Bluebeard’s Keys’ [1874], in Id., Bluebeard’s Keys and Other Stories, London, Smith, 1890, pp. 3-118.

M. Tatar, Secrets Beyond the Door: The Story of Bluebeard and His Wives, Princeton, Princeton University Press, 2004.