5.1. Vittoria e sconfitta: la modulazione della diversità tra/delle donne nei trailer

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Quando i film scelgono di parlare di donne, dei grandi temi che le coinvolgono, ci troviamo spesso di fronte a storie di diversità in cui, da copione, una protagonista, una donna ‘speciale’ e forte (per scelte di vita, valori di riferimento e carattere) ribadisce la sua definizione identitaria principalmente ‘rispetto’ alle altre, per differenza ‘rispetto’ a loro. E così troviamo l’emancipata vs la retrograda, la ribelle vs l’allineata, la bohémienne vs la conservatrice, la protagonista vs l’antagonista, l’outsider vs l’integrata, la cosmopolita vs la provinciale, una vs tutte. La battaglia qui ha come perno l’interpretazione delle solite tematiche: l’indipendenza, il lavoro, il matrimonio, la carriera, l’amore, i ruoli prestabiliti. Spesso questi film presentano un medesimo schema: l’arrivo di un elemento di disturbo, rappresentato da una donna che si fa portatrice di valori differenti e di una trasformazione potenziale nei confronti delle altre, che per questo stesso motivo viene ostacolata, non viene accettata, e fatica a farsi capire. Tutto ciò genera una situazione conflittuale: come andrà a finire? I rispettivi trailer, in linea con la loro intrinseca natura, con la loro ragion d’essere che punta a incuriosire, stanno al passo e decidono di porre l’accento sul conflitto a scapito della solidarietà, ‘indipendentemente’ da come il film andrà a finire, da cosa realmente racconterà. È questo stesso conflitto accennato, presentato in anteprima, che motiva gli spettatori ad andare al cinema alla ricerca della sua soluzione (pur sapendo a favore di quale parte si risolverà il conflitto: vincerà la donna outsider perchè è lei la protagonista e il film sta dalla sua parte: per ‘conoscenza enciclopedica’, lo spettatore sa come funzionano le storie e, nello specifico, sa il ruolo che occupano questo tipo di storie nell’immaginario collettivo).

Come verrà sviluppata l’alterità? Se nel trailer c’è conflitto, nel film cosa accadrà? Vincerà il conflitto stesso oppure la coalizione in seguito all’eventuale trasformazione ad opera della donna, e con essa l’approvazione, l’affermazione dei nuovi valori? Riuscirà o meno la donna-portatrice di cambiamento a condurre l’antagonista dalla sua parte, o quanto meno a farle raggiungere una forma di consapevolezza? Riuscirà a far trionfare i suoi valori? E se sì, in che modo? Nel trailer di Mona Lisa Smile (M. Newell, 2003), ad esempio, viene presentata la storia di una professoressa che arriva a insegnare in un college e si scontra con una classe di ragazze colte e impertinenti, di buona famiglia ma senza aspirazioni professionali. Il loro obiettivo nella vita, nonostante studi di alto livello, sembra essere quello di sposarsi e fare le mogli. Al contrario, lei fonda con convinzione la sua vita sull’indipendenza e sulla realizzazione professionale [fig. 1].

In The Help (T. Taylor, 2011) la protagonista è la voce fuori dal coro in un gruppo di amiche del circolo di bridge: ambisce a diventare giornalista e scrittrice (con immenso dispiacere della madre) ed è in immediata e manifesta contrapposizione con le altre, che pensano al matrimonio e a una vita disimpegnata, mentre il film provvede a connotarle negativamente [fig. 2].

In The Dressmaker – Il diavolo è tornato (J. Moorhouse, 2015) una donna dal passato controverso torna nel suo paesino natio, dove la ritengono una strega e un’assassina. Lontano da casa ha lavorato nel campo della moda a Milano, Londra, Parigi e New York. È affascinante, ben vestita e mal vista dal contesto provinciale, soprattutto femminile, a cui si oppone con decisione se non addirittura con beffa [fig. 3].

 

Nel passaggio dal trailer al film si compie il movimento: la trasformazione dal conflitto alla sua risoluzione, grazie alla quale il rapporto tra le donne diventa da ostile a solidale (da nemiche ad amiche). Anche se i rispettivi trailer, per vocazione, hanno puntato a incuriosire e si sono incentrati sull’aspetto conflittuale, ci troviamo ora di fronte a una risoluzione dello scontro in ognuno dei casi: rispetto ai loro stessi trailer, i film sanzionano positivamente la protagonista portatrice di novità che, inizialmente osteggiata, riesce nel suo intento cambiando le sorti della storia stessa, facendo prevalere la ‘resa’ delle altre, quindi l’unione, la solidarietà, in nome di una giusta causa (valori validi). Del resto, ogni appassionante vittoria viene dopo un altrettanto appassionante conflitto. Anzi, quanto più sarà aspro il conflitto (sano motore di una storia, intesa nel senso esteso di ‘narrazione’), tanto più sarà avvincente la vittoria (dal giusto lato).

Di recente, a squarciare come un fulmine a ciel sereno la consuetudine che si tramanda delle donne vittoriose al cinema, che combattono (e vincono) contro altre donne per affermare i loro valori positivi, un film italiano alla Thelma e Louise (R. Scott, 1991) dove, a cominciare dal trailer, non è presente conflitto alcuno. Il film ha in comune con i precedenti il tema della diversità in generale (delle due donne rispetto al mondo) e della differenza (caratteriale, di estrazione sociale, e generalmente estetica, che fa sì che una sia bionda e l’altra sia mora) tra le due donne, ma il suo trailer punta sulla coalizione fin dall’inizio.

Il trailer de La pazza gioia (P. Virzì, 2016) ha un elemento particolare: è un trailer cristallino, non presenta dubbi, non presenta domande, non presenta conflitti (in senso lato) da risolvere, non ha alcun interesse a puntare sulla sorpresa (di qualunque sorpresa si tratti). Esso ci parla della storia a ‘lieto fine’ di un’amicizia tra due pazienti di un istituto terapeutico [fig.4]. Valeria Bruni Tedeschi è una paziente esuberante, gioiosa, mentre Micaela Ramazzotti appare come sofferente in un senso tendenzialmente depresso a causa della sottrazione del figlio. Sono di diversa estrazione sociale, e lo capiamo dalla battuta della prima sui tatuaggi della seconda («Certo, potresti comprarti una quadernetto dove scrivere tutti i tuoi appunti!»), nonché dal fatto che la prima fa a un certo punto ritorno dai familiari con piscina. Si affezionano l’una all’altra, scappano da villa Biondi, si danno alla pazza gioia, vanno in discoteca a ballare, guidano una macchina in aperta campagna, ridono, brindano, ne combinano di tutti i colori, fino a ritrovarsi su un muretto al tramonto, dove si abbracciano, e una dice all’altra «meno male che ci sei te». Si salvano reciprocamente. Da un trailer chiaro che poi scopriamo essere anche lineare, nel senso che salvaguarda la struttura cronologica del film (il trailer rispetta il film nelle sue fasi e nel suo complesso: per lo più, le immagini dell’inizio sono tratte dall’inizio del film, e lo stesso discorso vale, rispettivamente, per quelle centrali e per quelle conclusive) viene fuori un quadro disperato ma inequivocabile. Allo spettatore non resta che una domanda (di cui purtroppo già conosce la risposta): il loro affetto vicendevole può bastare da solo in una situazione dalle tragiche premesse? La risposta era già scritta nelle maglie della storia: loro sono le matte di una casa di cura. Sapevamo che si sarebbe trattato di una felicità difettata, più che altro di un modo comune di intenderla tra simili, di felicità non totale, speciale. Non resta dunque che prestare ascolto all’unica sorpresa che il film tiene in serbo: si tratta di una storia che fa piangere e fa ridere molto più di quanto ci si potesse aspettare; è più una commedia (dal finale amaro) e più una tragedia di quanto dalle scene del trailer si potesse capire. I due aspetti vengono accentuati rispettivamente dall’una e dall’altra attrice: la prima si esibisce fino alla fine in un esilarante ruolo ‘morettiano’ con una costanza e un temperamento che supera di molto le aspettative del trailer; l’altra si spinge nella profondità del suo passato, delle sue eventuali colpe, della sua fragilità restituendo una qualità della sofferenza molto lontana dal comune (e dalle anticipazioni). Quindi, ancora una volta, ci poniamo la domanda, lasciando spazio al dubbio, non fosse altro che per ascoltare la storia che hanno da raccontarci: riusciranno per davvero a gioire di questa felicità? Sarà per loro sufficiente? La storia che si sviluppa tra le righe è quella di un legame tra due donne che danno vita a una felicità (un sollievo, l’appagamento di un bisogno) che sarà per forza sufficiente, se è l’unica possibile. Avranno la loro personale vittoria? No. Sarà la sconfitta a vincere (la società avrà la meglio), ed è per questo che vincerà, a sua volta e fin dall’inizio, anche la solidarietà. Non importa come va a finire. Fin dal trailer, non importa. Ed è a causa di ciò che il trailer decide di svelare il finale per quello che è: il suggello a una storia di sconfitta, di follia, di aiuto reciproco e non la risposta alla domanda sul come va a finire nella battaglia di due donne rispetto al resto del mondo, su chi la spunterà alla fine (se una società che si definisce ‘sana’ o loro che vengono definite ‘malate’, perché dalla scena finale anticipata già sappiamo che sarà la società a trionfare). Se è vero che ogni appassionante vittoria viene dopo ogni appassionante conflitto, qui la sconfitta è in partenza e conflitti non esistono, se per loro non è prevista nessuna soluzione (in senso di happy ending). Qui il fiabesco non trova posto, non c’è spazio per miracoli. Non c’è reale alterità, né una dialettica battaglia-vittoria, perché le protagoniste sono due (non come nei casi precedenti), e la sconfitta è doppia ma unitaria. Sono due e sono uguali, sebbene una esuberante e l’altra depressa, una ricca e l’altra povera.

Per quanto debba incuriosire, un trailer ben fatto deve rispettare pur sempre ciò che il film intende essere, e raccontare. Questa non è una storia di battaglie fra ideali, ma una storia di follia, di compagnia, di cura. Prima ancora che di indipendenza, lavoro, matrimonio, carriera, amore, ruoli prestabiliti, è una storia di fragilità, non una storia di forza, ma di debolezza. È una storia senza sviluppi e senza crescita, dove il punto finale coincide, come in un circuito, amaramente con il punto iniziale (se la storia non fa un passo, non si muove, a meno di non stravolgere tutto alimentando altre piste, che speranze aveva il trailer?). È la storia della ribelle che non si ribella, della bohémienne che sottostà alle regole, dell’emancipata che non arriva a comprendere la sua avanguardia, della protagonista antagonista di se stessa, dell’outsider che resta fuori la porta di casa, della cosmopolita che ne perde le chiavi, dell’una che resta sola.

 

 

Bibliografia

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M. Federico, La scena di seduzione al cinema – Strategie autoriali e rappresentazioni stereotipe, tesi di dottorato in Scienze del Linguaggio e della Comunicazione, Biblioteca Nazionale Centrale, Firenze, 2014.

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