5.2. Mai da sole. Bambine, esperienza del cinema e processi di socializzazione

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La storia delle donne ‘al cinema’ si intreccia fin dai suoi esordi con la questione sociale e politica dell’ingresso nella sfera pubblica e della partecipazione alla vita associata. Come Miriam Hansen scriveva nella celeberrima analisi del fenomeno Valentino, e come hanno successivamente dimostrato i lavori di Andrea Walsh, Jackie Stacey, Annette Kuhn, Veronica Pravadelli, per citare i principali, il cinema ha rappresentato nel corso del Novecento un importante volano di emancipazione e, più ampiamente, un luogo di incontro, di relazione e di acquisizione di una coscienza politica e sociale per le donne.

Contemporaneamente l’accesso al cinema è stato lungamente interdetto alle spettatrici, in quanto spazio pubblico e in ragione delle peculiari condizioni che impone: promiscuità, buio, intensità della stimolazione sensoriale che, come si legge ancora in alcune ricerche degli anni Cinquanta, sovraeccita pericolosamente un pubblico già impressionabile e irrazionale qual è quello femminile.

Al cinema sì, dunque, ma non da sole. L’interdizione ad entrare in sala senza un accompagnatore (o un’accompagnatrice) si manifesta, naturalmente, in modo diverso a seconda dei momenti storici e dei contesti sociali e culturali. A cavallo fra gli anni Quaranta e Cinquanta, come racconta Walsh, paradossalmente in modo più rigido che non nei due decenni precedenti; e se pensiamo all’Italia, nelle regioni meridionali assai più sistematicamente che nelle aree del settentrione del Paese.

In tutti i casi, la cifra della condivisione si impone come tratto distintivo dell’esperienza femminile del cinema: diversa dalla necessaria condivisione dello spazio e del tempo della visione in sala; piuttosto una socializzazione ricercata, pianificata, premessa indispensabile all’andare al cinema.

Su questa dimensione di condivisione, che da prescritta si fa voluta, non più vincolo, ma risorsa, si concentra questa riflessione.

Un percorso attraverso la memoria di più generazioni di spettatrici: dalle donne che vanno al cinema nel secondo dopoguerra alle babyboomers, per le quali vedere il film è soprattutto un fatto politico; fino ad arrivare alle millennials, che a dispetto della rilocazione continuano a desiderare il cinema e la condivisione che esso ‘impone’, forma elettiva di un consumo altrimenti routinario e impoverito. E’ proprio da quest’ultima coorte di spettatrici che prendiamo le mosse.

 

1. Riscoprire e reinventare il cinema

Nel 2009, riflettendo sul significato del cinema in epoca digitale, Miriam Hansen invitava ad abbandonare ogni pessimismo e pensiero preconcetto sul futuro del medium e a «lasciare che le giovani generazioni cresciute con le (nuove) tecnologie abbiano l’opportunità di incorporarle nella loro memoria culturale e di riscoprire e reinventare il cinema».

Riscoprire e reinventare. Qualche anno prima, nel 2006, mentre il processo di digitalizzazione in Italia stava compiendo i suoi primi faticosi passi, una ricerca sul rapporto fra bambini e cinema provava già a raccogliere questa sfida, interrogandosi sul senso e sul valore del cinema per gli spettatori nati insieme al digitale. Una domanda posta in un momento non felice per il cinema italiano, entrato da un paio d’anni in una fase di stagnazione, che sarebbe durata fino ad oggi.

Da quella ricerca emergeva uno spaccato complesso, fatto di vissuti e di esperienze diverse, raccolte attraverso quasi 3000 questionari e disegni, che confermavano un dato comune: per quanto i millennials avessero quasi cessato di andare al cinema, quell’esperienza continuava ad essere profondamente radicata nel loro immaginario. Una sorta di codice genetico fatto di aspettative, di pratiche, di piccoli riti, che a dispetto della rarefazione delle occasioni di consumo in sala, rimandavano in modo sistematico e costante a quell’esperienza originaria.

Insieme a questa importante evidenza, dai disegni, dai fumetti a volte dalle brevi storie con cui i bambini raccontavano che cosa il cinema significava per loro emergeva anche una chiara differenza fra esperienze di visione maschili e femminili. I bambini, soprattutto i più piccoli, tendevano a ‘rappresentare il cinema come luogo’: parte della loro topografia esperienziale, integrato nel loro mondo di vita (casa, scuola, a volte chiesa, panettiere, salumiere… e cinema), spazio imponente, persino soverchiante (la platea veniva disegnata come una distesa sterminata di sedili, lo schermo come un enorme riquadro), abitato da potenti strumentazioni tecnologiche (il proiettore, le tecnologie di diffusione del sonoro). Nei disegni delle bambine, viceversa, l’esperienza del cinema veniva raccontata essenzialmente come ‘relazione, opportunità di condivisione con le amiche’ [fig. 1], con la mamma [fig. 2], a volte con gli insegnamenti o con gli addetti alla biglietteria; in tutti i casi un’esperienza primariamente sociale, figurativizzata attraverso la messa in scena di coppie o di gruppi; la personalizzazione degli spettatori (non un generico pubblico, ma un insieme di persone identificate da tratti idiomatici – il colore dei capelli, le acconciature… o persino dai nomi); l’enfasi sull’affinità fra gli spettatori [fig. 3], uniti in un’esperienza corale che si manifestava nelle pose dei corpi [fig. 4], nelle espressioni dei volti, persino nei pensieri o nelle parole [fig. 5].

Un tratto che torna anche in ricerche più recenti, che rilevano questa irriducibile dimensione di condivisione che, più del film, alimenta il desiderio di andare al cinema, la nostalgia della sala, l’aspirazione a un consumo fuori dalle mura domestiche e in quello spazio, un po’ antro, un po’ luogo magico, che è il cinema.

 

 

Bibliografia

M. Hansen, Babele e babilonia. Il cinema muto americano e il suo spettatore [1991], trad. it. di C. Capella, G. Alonge, Torino, Kaplan, 2001.

J. Stacey, Star Gazing. Hollywood Cinema and Female Spectatorship, NY-London, Routldge, 1994.

V. Pravadelli, Le donne del cinema. Dive, registe, spettatrici, Roma-Bari, Laterza, 2014.

A. Walsh, Women’s Film and Female Experience. 1940-1950, NewYork, Praeger, 1984.