5.4. Il castello, lo sguardo, il presagio: il film opera di Michael Powell Herzog Blaubarts Burg (1963)

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Un mito vive di varianti e riscritture che ne mediano la pertinenza a una concreta situazione storica, culturale e artistica. Inseparabile dalla catena di mediazioni (linguistiche, culturali, tecnologiche etc.) che lo strutturano e incorporano, il mito non è contemplabile in trasparenza ma solo nella sua circolazione. Un film che allestisce per la televisione un’opera che a sua volta elabora il racconto di Perrault insieme ad altre riscritture letterarie, teatrali e musicali del mito di Barbablù si presta a un discorso sull’opacità della mediazione. Tanto più se si considera l’ontologia complessa o incerta dell’opera, che non è la somma di libretto e partitura bensì una realtà emergente nello spazio della scena, e tuttavia non può esaurirsi nella singola rappresentazione, contingente e transeunte, né in una registrazione che testualizza la performance in un prodotto mediale. L’opera esiste come istanza discorsiva che connette le sue esemplificazioni, ma la sua essenza, come quella del mito, è imprendibile. D’altra parte musicisti, registi e produttori si servono della musica per dare prova di sé, ed è più proficuo seguire la circolazione di cui si fanno agenti.

All’inizio degli anni Sessanta, Norman Foster, basso-baritono americano impegnato in produzioni musicali per la televisione tedesca, intercetta una commissione del Süddeutscher Rundfunk che gli permette di figurare come protagonista: la messinscena televisiva di Herzog Blaubarts Burg (Il castello di Barbablù), titolo tedesco di A kékszakállú herceg vára, opera di Béla Bartók su testo ungherese di Béla Balázs. La scelta della traduzione di Wilhelm Ziegler, nella forma rivista della partitura Universal Edition (1963), è motivata dal luogo di produzione e dalle competenze linguistiche di Foster. Vocalmente non era poi inconsueto che un interprete di Lieder come lui sostenesse il ruolo di Blaubart: lo aveva fatto Dietrich Fischer-Dieskau nel 1959, diretto da Ferenc Fricsay in un disco Deutsche Grammophon. Nel 1963 molte caratteristiche rendono l’opera adatta alla televisione: è un atto unico, dura un’ora, ha pochi personaggi, si svolge in un castello, ha struttura circolare e il suo linguaggio modernista, peraltro storicizzato, nobilita la televisione che la commissiona.

Per la regia Foster trova un Michael Powell in crisi dopo Peeping Tom (1960), film scandalo che lo ha travolto, ma ancora in cerca di progetti innovativi e musicalmente avanzati, quindi interessato all’opera di Bartók; questa ha cominciato a circolare solo dopo la morte del compositore (1945) ma è stata presto accolta nel canone della Neue Musik. Inoltre Peeping Tom era già un’elaborazione metacinematografica del mito di Barbablù (Mulvey 2005): le donne che il protagonista al tempo stesso uccide e riprende con la cinepresa per realizzare il suo film (sul treppiedi è montato un punteruolo), sono conservate sotto forma di pellicola cinematografica in una stanza alla quale nessuno ha accesso eccetto la donna che si è innamorata di lui e che lo ferma denunciandolo alla polizia. Per sfuggire alla cattura, il protagonista si uccide con la stessa modalità, girando l’ultima scena del film. La proposta di Foster permette dunque a Powell di tornare sul rapporto tra una figura maschile introversa, votata al controllo e all’annientamento della controparte femminile, e una donna attiva, mossa da curiosità ma soprattutto da amore (Christie 2009).

La concretezza del finanziamento convince il regista, che per scene e costumi coinvolge Hein Heckroth, già collaboratore della casa di produzione The Archers di Powell e di Emeric Pressburger (Aldred 2005). Come scenografo e direttore artistico debutta nel film The Red Shoes (1948), dalla fiaba di Andersen, che nel 1949 gli vale l’Oscar per la migliore scenografia; seguono collaborazioni a film operistici come The Tales of Hoffmann (1951), balletto tratto da Offenbach, e Oh… Rosalinda!! (1955), da Die Fledermaus di Strauss. Powell e Pressburger concepiscono l’opera come Gesamtkunstwerk da completare in senso cinematografico (Christie 2009), e nei loro progetti il contributo di Heckroth è fondamentale: nel film del 1963 le allusioni all’arte e alla scultura surrealista da un lato, a esperienze artistiche del dopoguerra dall’altro, si integrano in una miriade di set parziali, elementi mobili e trasparenze, che contribuiscono alla concezione del film.

Balázs scrive il testo tra il 1907 e il 1911 tenendo Perrault sullo sfondo e attingendo a modelli recenti: da Ariane et Barbe Bleue (1899), pièce simbolista di Maeterlinck adattata a libretto per l’opera di Dukas (1907), riprende la drammaturgia statica e il numero delle chiavi, da Judith di Hebbel (1840), transitata da Budapest nel 1910 per la regia di Reinhardt, il nome della protagonista. Bartók ne fa un’opera nel 1911, ma continua a modificarla fino alla prima rappresentazione, diretta a Budapest da Egisto Tango il 24 maggio 1918, a guerra quasi finita. Seguono poche riprese in tedesco (nel 1922 a Francoforte, nel 1929 a Berlino) e in ungherese (nel 1935 a Budapest, nel 1938 a Firenze).

L’azione è minima: Blaubart accompagna nel suo castello la sposa Judith, titubante a causa delle voci che lo riguardano (saranno esplicitate verso la fine). In lei opera un’istanza di verifica: da un lato è curiosa, vuole conoscere la verità, dall’altro è intenzionata, per amore di Blaubart, a portare luce nel buio del suo castello e della sua anima. Judith chiede al marito, una per una, le chiavi delle sette porte che scorge nell’oscurità del castello; le ottiene, ma la riluttanza di lui nel consegnarle aumenta. Da ogni stanza (non mostrata al pubblico ma solo descritta attraverso il canto) esce un raggio di luce di un diverso colore: rosso (camera delle torture), giallastro (armeria), aureo (stanza del tesoro), verde-bluastro (giardino) e bianco della massima intensità (il regno). Le luci, fino all’apertura della quinta porta inclusa, si sommano illuminando sempre più il castello. La visione del regno segna il punto culminante e la cesura drammatica. Da qui si inverte il processo e dalla luce si torna all’oscurità. La sesta porta dà accesso a un lago di lacrime (un’ombra cala sulla scena). Davanti alla settima porta Blaubart indugia a lungo; concede la chiave soltanto dopo un duro dialogo, durante il quale Judith dice di sapere chi troverà nell’ultima stanza: le mogli uccise, lordate di sangue, quindi pretende la verità. Al netto dei dettagli, è la scena di Perrault. La porta si apre (luce argentea, si chiudono quarta e quinta porta): è la dimora delle tre mogli precedenti, che escono sulla scena. Judith può constatare che sono vive, riccamente vestite e bellissime. Come spiega Blaubart, sono loro che hanno accumulato le sue ricchezze, curato il suo giardino, aumentato la sua potenza. Alla prima moglie è consacrata l’alba, alla seconda il meriggio, alla terza la sera; a Judith è ora consacrata la notte. Pur riluttante, Judith viene vestita e adornata, e si incammina con le altre mogli. La porta si chiude dietro di lei, Blaubart afferma che la notte sarà eterna e il castello torna nelle tenebre. Il significato dell’azione resta oscuro, ma un ciclo si è concluso.

Bartók presta all’azione raffinate simmetrie armoniche: l’oscurità che la incornicia corrisponde a un ostinato grave (scala pentatonica su fa#); la luce massima della quinta porta a potenti accordi di Do maggiore (do forma con fa# una quarta eccedente, la metà esatta di un’ottava); a ogni altra stanza una strumentazione peculiare e un punto di riferimento armonico (Fa# minore la prima, Do# e Sol# minori la seconda, Re maggiore la terza, Mib maggiore la quarta; La minore la sesta, Do minore l’ultima). A differenza della strumentazione, ben leggibile in relazione al contenuto delle stanze (Seminara 2017), la successione di note, non convenzionale, è legata a simmetrie strutturali poco spendibili sul piano comunicativo. Per questo Powell vi sovrappone un simbolismo erotico: le porte corrispondono a sette momenti in cui Barbablù si congiunge a Judith nella prima notte di nozze. Nel film la visione delle porte e del contenuto delle prime stanze avviene dal letto di nozze [fig. 1]; il giardino fa loro da giaciglio; nella stanza del regno sono in piedi e si abbracciano; sul lago indugiano, sempre abbracciati, e prima di aprire l’ultima porta il colloquio più arduo avviene ancora sul letto. Presenza scenica e recitazione di Foster e di Ana Raquel Satre (Judith) contribuiscono efficacemente a questa significazione.

Il presagio del sangue, assente in Maeterlinck, è più netto nel film che nell’opera. Nella musica il sangue, scoperto o immaginato da Judith in ogni stanza, ha un motivo riconoscibile: una dissonanza acuta e penetrante che si palesa nelle prime quattro stanze. Il libretto nomina il sangue anche nella stanza del regno, dove il motivo musicale non risulta altrettanto percepibile; il film lo sottolinea con luci rossastre evocate anche dalle indicazioni di scena [fig. 2]. Nel film anche il lago è macchiato dal sangue [fig. 3]: le gocce che lo sporcano non hanno riscontri nell’opera, dove il contenuto delle ultime porte sconfessa il presagio. Tuttavia il sangue delle mogli è evocato da Judith fin sulla soglia della settima porta, quindi l’espediente cromatico, di sicura presa, non è incoerente.

Quanto alle mogli, Powell contraddice le parole di Judith e le indicazioni di scena della partitura (per quanto mute, escono dalla porta e sono vive). Nel film non c’è sangue ma più che vive le mogli sono imbalsamate o impagliate: sculture su un piedistallo, non danno segni di vita. Potrebbero sembrare prigioniere di un’eterna non vita, se gli occhi non ne certificassero lo stato inorganico [fig. 4]. Judith prende la sua posizione: la sontuosa veste la fa apparire trafitta da spade [fig. 5], e quando indossa la corona si immobilizza, mentre Blaubart ne canta lungamente bellezza e splendore.

Per il resto il film tematizza lo sguardo. In ciò la differenza tra i due protagonisti è palese: lo sguardo di Blaubart segue e controlla Judith, unico oggetto della sua visione. Judith non conosce il castello e Blaubart fa valere la sua superiorità gnoseologica, attuando una strategia di svelamento condizionato dal suo sapere e dal suo volere. Lo sguardo di Judith è invece rivolto ad altro. Oggetto della sua visione è raramente Barbablù, quasi sempre il castello, le porte e il contenuto delle stanze (così il film elabora il tema della curiosità). Una sequenza ricorre alla sovrimpressione (allude al mixaggio della televisione, a cui il film è destinato): gli occhi di Blaubart, in trasparenza, inglobano Judith [fig. 6], sommandosi alle trasparenze in scena. Un’altra sequenza sfrutta la proiezione del volto di Blaubart su una parete del castello: l’immagine, ferma, sovrasta Judith e la incanta come un film [fig. 7]. Powell indugia poi sul riflesso della coppia nel lago: la differenza dei due sguardi viene evidenziata [fig. 8]. Le lacrime si fanno specchio, come il sangue rappreso nella scena di Perrault.

L’identificazione del castello con Barbablù o con la sua anima, pur affermata da Balázs, è quantomeno parziale. Nelle prime stesure della pièce il castello era un personaggio, quindi autonomo da Blaubart; quest’ultimo sembra esserne un’istanza, come Judith e le altre mogli. Si tratta di un’azione intrapsichica proposta allo spettatore. Il Prologo del Cantastorie, assente dal film, mette in guardia, suggerendo allo spettatore di chiedersi dove sia la scena, se fuori o dentro. Il senso del messaggio è incorporato dal film e dal medium di destinazione. Per lo spettatore il castello si sarebbe identificato con la scatola del televisore, metafora della scatola cranica. Sono gli anni in cui McLuhan elabora la sua teoria dei media (1964), considerati come estensioni della nostra percezione e del nostro cervello. Un nesso imprevedibile ma non estraneo alle intenzioni di Balázs, che subito dopo le prime rappresentazioni dell’opera si sposta a Vienna per dedicarsi all’estetica del cinema.

 

 

Bibliografia

N. Aldred, ‘Hein Heckroth and The Archers’, in Christie-Moor 2005, pp. 187-209.

I. Christie, A. Moor (ed.), The Cinema of Michael Powell: International Perspectives on an English Filmmaker, London, BFI, 2005.

I. Christie, ‘Dying for art. Michael Powell’s journey towards Duke Bluebeard’s Castle and the filmic art-work of the future’, in G. Pollock, V. Anderson (ed.), Bluebeard’s Legacy. Death and Secrets from Bartók to Hitchcock, London-New York, I.B.Tauris, 2009, pp. 175-199.

M. McLuhan, Understanding Media: The Extensions of Man, New York, McGraw-Hill, 1964.

L. Mulvey, ‘The light that fails: a commentary on Peeping Tom’, in Christie-Moor 2005, pp. 143-155.

G. Seminara, ‘Il Castello di Barbablù di Béla Bartók. Un’ipotesi di lettura’, Itinera, 14, 2017, pp. 92-113.