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  • Barbablù. Il mito al crocevia delle arti e delle letterature →

 

 

Un mito vive di varianti e riscritture che ne mediano la pertinenza a una concreta situazione storica, culturale e artistica. Inseparabile dalla catena di mediazioni (linguistiche, culturali, tecnologiche etc.) che lo strutturano e incorporano, il mito non è contemplabile in trasparenza ma solo nella sua circolazione. Un film che allestisce per la televisione un’opera che a sua volta elabora il racconto di Perrault insieme ad altre riscritture letterarie, teatrali e musicali del mito di Barbablù si presta a un discorso sull’opacità della mediazione. Tanto più se si considera l’ontologia complessa o incerta dell’opera, che non è la somma di libretto e partitura bensì una realtà emergente nello spazio della scena, e tuttavia non può esaurirsi nella singola rappresentazione, contingente e transeunte, né in una registrazione che testualizza la performance in un prodotto mediale. L’opera esiste come istanza discorsiva che connette le sue esemplificazioni, ma la sua essenza, come quella del mito, è imprendibile. D’altra parte musicisti, registi e produttori si servono della musica per dare prova di sé, ed è più proficuo seguire la circolazione di cui si fanno agenti.

All’inizio degli anni Sessanta, Norman Foster, basso-baritono americano impegnato in produzioni musicali per la televisione tedesca, intercetta una commissione del Süddeutscher Rundfunk che gli permette di figurare come protagonista: la messinscena televisiva di Herzog Blaubarts Burg (Il castello di Barbablù), titolo tedesco di A kékszakállú herceg vára, opera di Béla Bartók su testo ungherese di Béla Balázs. La scelta della traduzione di Wilhelm Ziegler, nella forma rivista della partitura Universal Edition (1963), è motivata dal luogo di produzione e dalle competenze linguistiche di Foster. Vocalmente non era poi inconsueto che un interprete di Lieder come lui sostenesse il ruolo di Blaubart: lo aveva fatto Dietrich Fischer-Dieskau nel 1959, diretto da Ferenc Fricsay in un disco Deutsche Grammophon. Nel 1963 molte caratteristiche rendono l’opera adatta alla televisione: è un atto unico, dura un’ora, ha pochi personaggi, si svolge in un castello, ha struttura circolare e il suo linguaggio modernista, peraltro storicizzato, nobilita la televisione che la commissiona.

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