7.2. Attrici non attrici: la relazione tra regista e protagonista nel documentario italiano al femminile. Il caso di Ninna Nanna prigioniera

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1. Cinema del reale e soggettività

Il documentario d’autore esplora il reale attraverso l’interazione tra diverse soggettività, nella relazione fondante tra filmante e filmato. «[L]ontano dal considerare il reale come un’evidenza» (Jean Breschand 2002), esso ne dà una rappresentazione a partire da una particolare prospettiva. Il cinema di non finzione pone quindi delicate problematiche di responsabilità, poiché il/la regista «costruisce una narrazione con dei personaggi viventi e reali» (Jean-Paul Colleyn 2001).

Tali riflessioni acquistano maggiore pregnanza all’interno di un cronotopo particolare come quello del carcere, dove Rossella Schillaci ha realizzato Ninna Nanna prigioniera (2016), film che offre particolari spunti per esplorare la relazione tra regista e protagonista. La pellicola racconta il quotidiano di Jasmina, una giovane donna rom detenuta nella Casa Circondariale Lorusso Cutugno di Torino insieme ai figli Lolita e Diego, rispettivamente di due anni e di pochi mesi; mentre il figlio maggiore vive con la nonna, e il marito sconta una breve pena in un carcere francese.

Schillaci ha scelto di non mostrare il ‘controcampo’ delle guardie e di rimanere con Jasmina e con i suoi bambini. Come in C.A.R.A. Italia (Dagmawi Yimer 2010), l’efficacia narrativa risiede nell’assenza di commento esterno e nel racconto incarnato dai protagonisti (i residenti al Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo di Castelnuovo di Porto nel film di Yimer). In Ninna nanna prigioniera il punto di vista della madre si intreccia con quello dei bambini: spesso la telecamera è posta alla loro altezza e ci mostra ciò che loro vedono (frammenti di divise, sbarre, serrature, pistole e pesanti mazzi di chiavi appesi alle cinture delle guardie), cambiando così la nostra percezione dell’ambiente. La leggerezza dei loro giochi e la loro capacità di adattamento nulla tolgono alla sofferenza palpabile, che deriva dalla consapevolezza della loro condizione.

 

2. Maternità e detenzione

I titoli di apertura ci informano che la legge prevede che le madri con figli siano detenute in istituti di custodia attenuata, o in case famiglia; in attesa della loro istituzione, le madri possono decidere di tenere con loro i figli minori di tre anni, in apposite sezioni delle carceri dette ʻnidiʼ. Così, in pochi fotogrammi Schillaci presenta il dilemma di Jasmina: se è più opportuno crescere i propri figli in carcere oppure decidere di separarsene, offrendo loro la libertà. Dopo un incipit con puerili e gioiose voci fuori campo su schermo nero, e dopo il primo piano di Lolita scorazzante su un triclo [fig. 1], la proiezione delle norme legislative trasforma il significato del prologo. Inoltre le immagini iniziali sono tra le poche girate in uno spazio esterno, poiché per la maggior parte del tempo lo spettatore rimane con Jasmina all’interno di spazi angusti. Lolita e Samuel, un altro bambino che condivide lo stesso destino, frequentano per qualche ora l’asilo, avendo così un parziale accesso al mondo esterno, da cui le detenute sono escluse. Le ripetute inquadrature di muri, porte metalliche, serrature, ombre e sbarre che disturbano la visione, cosi come i rumori dei passi delle guardie nei corridoi vuoti, o delle chiavi nelle serrature delle porte, sottolineano una separazione netta tra dentro e fuori, tra accessibile e proibito, tra due mondi ben distinti [figg. 2-3].

È grazie al progetto del film che la regista è riuscita a oltrepassare il limite invalicabile dell’universo carcerario, utilizzando la sua telecamera come strumento di osservazione privilegiato. Ninna nanna prigioniera non è un documentario sul carcere né un film di denuncia, ma l’osservazione (partecipata) del dramma di una mamma. Schillaci racconta:

Quando mio figlio aveva pochi mesi ho partecipato ad un corso di massaggio infantile in un asilo nido [in cui] erano “ospitati” bambini figli di madri detenute […]. Mi sono chiesta, da madre: come può essere vissuta la maternità per quelle donne rinchiuse? Ma al contempo, come possono dei bambini così piccoli crescere senza la loro madre? Chi può veramente decidere cos’è meglio per loro?.
 

Questi interrogativi che attraversano tutto il film rimarranno senza risposta, lasciando agli spettatori la possibilità di elaborare una propria opinione.

 

3. La relazione filmante / filmata e l’autorappresentazione

«Prima del film c’è un incontro», sostiene il regista Alain Cavalier. In effetti un film come questo nasce proprio da un incontro, e dal rapporto interpersonale che ne deriva. Ma come si può costruire uno scambio fruttuoso tra una donna libera e una detenuta, che appartengono a due mondi così distinti? Inoltre la diversa appartenzenza etnica di Jasmina, pur non avendo alcuna rilevanza simbolica nel testo filmico, è un ulteriore elemento di complessità nella relazione asimmetrica tra filmante e filmata.

Spiega Schillaci: «Per i rom tutti quelli che non appartengono al loro gruppo etnico sono gagè, cioè ʻnon romʼ. Anche io quindi ero ʻnon romʼ, e quella è la prigione dei non rom, io faccio parte della comunità che la tiene in carcere, per me è stata una difficoltà in più».

La formazione in antropologia visiva, l’esperienza maturata nei film precedenti (ad esempio Ghetto SPA - 2016, Il limite - 2012, Altra Europa - 2011, Shukri, una nuova vita - 2010) e le intere giornate di osservazione immersiva, trascorse in carcere, giocando coi bambini e dialogando con le detenute, hanno aiutato la regista a costruire una relazione di fiducia, seppure in un contesto così delicato.

Sappiamo che l’atto stesso di filmare modifica la realtà, è allora naturale chiedersi che ruolo giochi Jasmina di fronte alla macchina da presa. Il dispositivo carcerario presenta infatti alcune peculiarità: le detenute convivono con la presenza giudicante delle telecamere di sorveglianza, in un clima di costante diffidenza e sfiducia reciproca. Un sistema di ricatto le spinge a recitare la parte delle buone mamme, per evitare che vengano loro tolti i figli, o delle buone detenute, al fine di ottenere una diminuzione della pena. Il normale sistema di autorappresentazione che ogni «attore sociale» (Bill Nichols 2001) mette in atto davanti alla telecamera, è qui ulteriormente alterato. Certo è che se nel caso di Libere (Schillaci 2017), un montato con immagini d’archivio delle partigiane, è principalmente lo sguardo autoriale che organizza il racconto, in Ninna nanna prigioniera la protagonista partecipa alla costruzione simbolica e narrativa.

Quando ho illustrato alle detenute il mio progetto, dapprima avevano in testa il loro film. Volevano essere intervistate, come in un documentario d’inchiesta, avevano bisogno di raccontarsi, di mostrarsi come vittime. Col tempo sono riuscita a far comprendere loro il nostro metodo di lavoro, quello cioè di ʻrivelareʼ con le immagini, e non con le parole, le loro difficoltà quotidiane, ma anche le loro strategie di sopravvivenza. Dopo le prime interviste fatte (non registrate) ho chiesto loro di poterle accompagnare con la videocamera quotidianamente, spiegando l’importanza che si esprimessero francamente, perché solo così avremmo potuto mostrare i veri effetti della vita in carcere. Per me era fondamentale ascoltare ciò che volevano dire. Il primo aspetto dell’autorappresentazione è un modo di dire ‘io ci sto, ma a queste regole!’. E la visione che i protagonisti hanno di loro stessi crea già di per sé un ritratto molto forte e interessante. La ʻstoriaʼ viene scritta insieme. Poi, attraverso l’osservazione, riesci con le immagini a produrre un racconto più ampio, mostrando anche momenti ʻrivelatoriʼ, piccole epifanie, che mostrano aspetti nuovi del personaggio o della situazione.

Come Angèle Diabang in Congo, un médecin pour sauver les femmes (2014), Schillaci riesce a farci sentire il dolore di Jasmina senza cadere nel sensazionale, con uno stile sobrio e poetico, particolarmente incisivo. Spesso i protagonisti sono filmati in primo piano, nella loro vicinanza, nei gesti che ogni mamma condivide con i suoi bambini, ma questo anche «per evitare il più possibile la modalità da telecamera di sorveglianza».

in alcuni momenti Jasmina racconta le ragioni per cui è in carcere, in altre scene rivela un bisogno di esprimersi che le fa addirittura trascurare la presenza della telecamera. Questo ad esempio succede quando, in uno sfogo intimo e personale, tra le lacrime, dopo aver constatato che questa privazione di libertà scalfirà irrimediabilmente le vite dei suoi figli, minaccia che quando uscirà di prigione tornerà a delinquere come e più di prima. Sono momenti che sfuggono al controllo della rappresentazione del personaggio. E se in alcune sequenze lo spettatore può avere l’impressione che Jasmina usi la telecamera come amplificatore, per urlare la sua disperazione a un pubblico più ampio (ad esempio quando riceve l’inaspettato rifiuto degli arresti domiciliari), in realtà, ad emergere più di tutto, sono la sua forza e il suo coraggio.

 

 

Bibliografia

V. Bonifacio, R. Schillaci, ʻBetween Inside and Outside: Projects of Visual Research inside Italian Prisonsʼ, Visual Anthropology Journal, 30, 3, 2017, pp. 235-248.

J. Breschand, Le documentaire : l'autre face du cinéma, Parigi, Cahiers du cinéma, 2002.

J. Colleyn, ʻPetites remarques sur les moments documentaires d'un grand pays ʼ, Communications, 71, 2001.

B. Nichols, Introduction to Documentary, Bloomington, Indiana University Press, 2001.

D. Ricci, ʻLa voix des femmes dans les documentaires d’Angèle Diabangʼ, in O. Cazenave-P. Célerie (dir.), Le documentaire africain et afro-diasporique, Nouvelles Études francophones, in corso di pubblicazione.