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1. Cinema del reale e soggettività

Il documentario d’autore esplora il reale attraverso l’interazione tra diverse soggettività, nella relazione fondante tra filmante e filmato. «[L]ontano dal considerare il reale come un’evidenza» (Jean Breschand 2002), esso ne dà una rappresentazione a partire da una particolare prospettiva. Il cinema di non finzione pone quindi delicate problematiche di responsabilità, poiché il/la regista «costruisce una narrazione con dei personaggi viventi e reali» (Jean-Paul Colleyn 2001).

Tali riflessioni acquistano maggiore pregnanza all’interno di un cronotopo particolare come quello del carcere, dove Rossella Schillaci ha realizzato Ninna Nanna prigioniera (2016), film che offre particolari spunti per esplorare la relazione tra regista e protagonista. La pellicola racconta il quotidiano di Jasmina, una giovane donna rom detenuta nella Casa Circondariale Lorusso Cutugno di Torino insieme ai figli Lolita e Diego, rispettivamente di due anni e di pochi mesi; mentre il figlio maggiore vive con la nonna, e il marito sconta una breve pena in un carcere francese.

Schillaci ha scelto di non mostrare il ‘controcampo’ delle guardie e di rimanere con Jasmina e con i suoi bambini. Come in C.A.R.A. Italia (Dagmawi Yimer 2010), l’efficacia narrativa risiede nell’assenza di commento esterno e nel racconto incarnato dai protagonisti (i residenti al Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo di Castelnuovo di Porto nel film di Yimer). In Ninna nanna prigioniera il punto di vista della madre si intreccia con quello dei bambini: spesso la telecamera è posta alla loro altezza e ci mostra ciò che loro vedono (frammenti di divise, sbarre, serrature, pistole e pesanti mazzi di chiavi appesi alle cinture delle guardie), cambiando così la nostra percezione dell’ambiente. La leggerezza dei loro giochi e la loro capacità di adattamento nulla tolgono alla sofferenza palpabile, che deriva dalla consapevolezza della loro condizione.

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Negarlo sarebbe sciocco e fuorviante: assistere a uno spettacolo della Compagnia della Fortezza in un teatro è cosa ben diversa dal farlo tra le mura del penitenziario di Volterra, dove esso nasce e prende corpo. Ciò che infatti rende tanto potente e memorabile quell’esperienza di fruizione consiste, per molta parte, nello stordimento generato dall’attesa, nel cerimoniale faticoso della procedura con cui si accede all’interno, nel deplacement claustrofobico che il visitatore prova aggirandosi di cella in cella, scivolando nei corridoi congestionati, occhi negli occhi con i detenuti danzanti e salmodianti nel loro makeup esagerato, e infine nell’immenso sollievo di riuscire sul piazzale traboccante di luce, poesia e libertà.

Che cosa resta di tutto ciò quando lo spettacolo si trasferisce nello spazio convenzionale (e convenzionato) di un edificio teatrale come il Verdi di Pisa, con il sorriso efficace e inespressivo delle sue maschere, con l’anacronistica scomodità delle sue poltroncine, con la sua aria viziata da troppe acque profumate? Qui c’è la rassicurante sensazione di trovarsi al proprio posto, partecipi di un avvenimento perfettamente sotto controllo. Per converso, sono i detenuti-attori (per usare la felice definizione di Punzo, che ne è la guida da oltre un quarto di secolo) a essere ‘ospitati’ in questo contesto – e possiamo solo immaginare al prezzo di quante e quali voluminose complicazioni burocratiche –, loro che dentro il carcere accolgono gli spettatori come padroni di casa, sperando di sedurli, di affascinarli, di «trasformarli» (perché, citando ancora Punzo, «trasformarsi», cioè sottrarsi alla schiavitù del proprio essere, è l’unica mira possibile, nel teatro come nella vita).

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