Compagnia della Fortezza, Santo Genet

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Negarlo sarebbe sciocco e fuorviante: assistere a uno spettacolo della Compagnia della Fortezza in un teatro è cosa ben diversa dal farlo tra le mura del penitenziario di Volterra, dove esso nasce e prende corpo. Ciò che infatti rende tanto potente e memorabile quell’esperienza di fruizione consiste, per molta parte, nello stordimento generato dall’attesa, nel cerimoniale faticoso della procedura con cui si accede all’interno, nel deplacement claustrofobico che il visitatore prova aggirandosi di cella in cella, scivolando nei corridoi congestionati, occhi negli occhi con i detenuti danzanti e salmodianti nel loro makeup esagerato, e infine nell’immenso sollievo di riuscire sul piazzale traboccante di luce, poesia e libertà.

Che cosa resta di tutto ciò quando lo spettacolo si trasferisce nello spazio convenzionale (e convenzionato) di un edificio teatrale come il Verdi di Pisa, con il sorriso efficace e inespressivo delle sue maschere, con l’anacronistica scomodità delle sue poltroncine, con la sua aria viziata da troppe acque profumate? Qui c’è la rassicurante sensazione di trovarsi al proprio posto, partecipi di un avvenimento perfettamente sotto controllo. Per converso, sono i detenuti-attori (per usare la felice definizione di Punzo, che ne è la guida da oltre un quarto di secolo) a essere ‘ospitati’ in questo contesto – e possiamo solo immaginare al prezzo di quante e quali voluminose complicazioni burocratiche –, loro che dentro il carcere accolgono gli spettatori come padroni di casa, sperando di sedurli, di affascinarli, di «trasformarli» (perché, citando ancora Punzo, «trasformarsi», cioè sottrarsi alla schiavitù del proprio essere, è l’unica mira possibile, nel teatro come nella vita).

Diciamo poi che per una compagnia formata da detenuti la scelta di portare in scena lacerti dell’opera di Jean Genet è in certo qual modo didascalica, cioè fin troppo ‘naturale’ e prevedibile. La scrittura di Genet è già un’immaginosa teatralizzazione di ‘figure’ che appartengono a un universo fittizio di reclusi e dannati: memorie personali, fantasie erotiche, pulsioni eversive concepite con soverchiante gusto dell’affabulazione e ingordigia sensuale, ma anche con la massima onestà nell’esplicitare costantemente l’artificio letterario. Perciò l’operazione compiuta da Punzo potrebbe sembrare di minor portata, o meno sorprendente di altri più recenti tentativi drammaturgici.

©Stefano Vaia

Ciò detto e nonostante tutto, succede comunque qualcosa di eccezionale nell’ora e mezzo che passa da quando attraversiamo il foyer fissando due file di marinai (quelli di Querelle de Brest) immobili su piedistalli come statue o manichini, a quando vi ripassiamo dopo molti minuti di applausi e prima di disperderci nelle consuetudini serali. Succede che il palcoscenico è trasformato in un ambiente candido e luminoso con fiori, specchi e candelabri a far da cornice ad effimeri tableaux vivants. C’è musica, molta musica: struggenti litanie, melodie lievemente ipnotiche, oppure calde e rumorose, come quella che trascina gli spettatori in platea in un valzer su cui si potrebbe ironizzare a piacere. Ci sono le parole del «santo» Genet (così lo definì Sartre in un saggio del 1952, insistendo fin troppo sulla sua conversione da delinquente a raffinato scrittore), prelevate da opere diverse per formare un sublime vangelo di immoralità e sofferenza, e consegnate alle marcate inflessioni linguistiche degli attori, come fossero impacciati fedeli chiamati sul pulpito. Ci sono poi i costumi meravigliosi di Emanuela dell’Aglio, tanto improbabili e kitsch da non potersi ricordare in tutte le loro sofisticate e chiassose cromie. «Dimenticare», cioè non riconoscersi, è forse la chiave di lettura più indicata, perché lo spettacolo, così come i romanzi che Genet ha dedicato agli uomini che portano «il sacro segno dei mostri» (Notre-Dame-des-fleurs e Querelle de Brest, su tutti), non parla di noi, non ha nulla a che fare con la vita a noi più conosciuta. Invece si defila dalla realtà, evita il confronto, poggia sull’eccedenza, sul travestimento, sulla confusione ‘poetica’ tra libertà e prigionia. E questo smarrirsi in catene di relazioni e suggestioni è la sua migliore qualità.

©Stefano Vaia

Una considerazione conclusiva: Verso Genet, il percorso di avvicinamento che la città di Pisa ha dedicato all’evento (articolato in più tappe: mostre fotografiche, incontri pubblici, laboratori nelle scuole) è un significativo esempio di divulgazione, di cui il teatro oggi non può fare a meno, e che non deve esaurirsi nel solo intento promozionale.

 

 

Compagnia della Fortezza

SANTO GENET

ispirato all’opera di Jean Genet

drammaturgia e regia Armando Punzo

con Armando Punzo e i detenuti-attori della Compagnia della Fortezza

musiche originali eseguite dal vivo e sound design Andrea Salvadori

scene Alessandro Marzetti, Silvia Bertoni, Armando Punzo

costumi Emanuela Dall’Aglio

movimenti Pascale Piscina

aiuto regia Laura Cleri

produzione Compagnia della Fortezza

VolterraTeatro | Carte Blanche Centro Nazionale Teatro e Carcere | Tieffe Teatro Menotti

 

Teatro Verdi di Pisa, 9 novembre 2014