Circoscritto e prevedibile. Il Pachinko come sintesi di traduzione culturale

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La città di Tokyo è stata spesso rappresentata dai viaggiatori europei del secondo Novecento secondo quei tratti ermeneutici che David Morley e Kevin Robins (1995), allargando e radicalizzando la proposta teorica di Said (1978), hanno chiamato tecno-orientalismo e che consiste in una sorta di approccio esotico all’alterità che legge la rincorsa tecnologica, la robotica e l’automazione dei processi produttivi dei paesi del FarEast, come causa di processi di sub-umanizzazione dell’individuo (vedi anche Roh, Huang, Niu 2015). Tra le esperienze che vengono rilette alla luce di questi paradigmi, una delle più comuni è quella del pachinko un gioco d’azzardo simile, almeno agli occhi degli osservatori stranieri, alle slot machine e ai flipper. Facendo dialogare tra loro diverse testimonianze di letterati, registi, saggisti e fotografi occidentali che hanno descritto tale pratica ludica come simbolo di giapponesità, il presente articolo vuole mostrare come i processi di sintesi che accompagnano ogni rappresentazione dell’alterità si fondino spesso su atti circo-scritti e pre-visti, ovvero su atti che sovraimprimono una fase di scrittura e una di visione, recuperando basi teoriche e paradigmi culturali dalla concezione letteraria e fantasmatica di flânerie proposta da Walter Benjamin nel suo Passagenwerk (1983).

The city of Tokyo has been often represented by European travellers of the late 20th century according to the hermeneutical features that David Morley and Kevin Robins (1995) called ‘techno-orientalism’. By extending and radicalising the theoretical proposal of Said (1978), this perspective consists in a sort of exotic approach to otherness that interprets the technological race, robotics and automation of production processes in the Far-East countries, as a cause of individual sub-humanization (see also Roh, Huang, Niu 2015). Among the experiences that have been re-interpreted in light of these paradigms, one of the most common, at least in the eyes of foreign observers, is pachinko, a gambling game similar to slot machine and pinball. By producing a dialogue between different testimonies of writers, directors, essayists and western photographers who have described this practice as a symbol of Japaneseness, this article aims to show how the synthesis processes that accompany every representation of otherness are often based on circumscribed and foreseeable acts; that is, on acts that overprint a writing phase and a vision phase, recovering theoretical bases and cultural paradigms from the literary and flânerie phantasmic conception proposed by Walter Benjamin in his Passagenwerk (1983).

 

 

1. La flânerie orientalista[1]

La fantasmagoria del flâneur [è] leggere dai volti il mestiere, l’origine e il carattere.[2]
La città per lui si scinde nei suoi poli dialettici. Gli si apre come paesaggio e lo racchiude come stanza.[3]
[Egli] è ancora sulla soglia, sia della grande città che della classe borghese. Né l’una né l’altra lo hanno ancora travolto. Egli non si sente a suo agio in nessuna delle due; e cerca un asilo nella folla. […] La folla è il velo attraverso il quale la città familiare appare al flâneur come fantasmagoria. In questa fantasmagoria essa è ora paesaggio, ora stanza.[4]

Potrebbe sembrare inelegante e ingeneroso, specie in apertura di un saggio, evidenziare quei passaggi dell’opera di Walter Benjamin accusabili di essenzialismo ed eccessiva semplificazione. L’approccio marxista che informa i suoi scritti è tutt’altro che superficiale e la scelta di valorizzare figure marginali del capitalismo (es. il giocatore d'azzardo, la prostituta, lo sfaccendato, ecc.) va visto senza dubbio come un tentativo di ipotizzare forme alternative di organizzazione sociale e urbana a quelle allora (e tuttora) esistenti. Eppure, specie nella descrizione di figure come il flâneur, non è raro imbattersi in giudizi fondati su impressioni, oppure in esaltazioni di posture egotiste che confliggono con gli ideali socialisti del suo autore. Nelle citazioni qui sopra riportate, ad esempio, la sensibilità accesa e il profilo di estemporaneità propri del gentiluomo perditempo parigino, per quanto presentati come un modo per distanziarsi dal ritmo frenetico dell’industrializzazione e per trovare nell’ozio forme più autentiche di relazione con il reale, si traducono nell’idea benjaminiana che egli possa comprendere il mondo circostante o sparendo tra la folla o attraverso rapide occhiate, o rinchiudendosi in una stanza o a distanza ‘paesaggistica’. In altre parole, si celebra una figura dispersa nei propri détournement e che dunque non sembra sapersi interrogare sulla complessità dei processi di costruzione dei luoghi che frequenta e soprattutto ‘sporcarsi le mani’ con i conflitti sociali e politici che spesso – come la storia della capitale francese ci insegna – li definiscono attraverso moti perturbativi e conflittuali.

È doveroso aggiungere che l’ampia fortuna in ambito letterario, artistico e teorico di una categoria come quella della flânerie ne ha cambiato progressivamente i connotati, allargandone i perimetri di senso e le accezioni, ancora di più alla luce di quello che è diventato viaggiare e perdersi oggi, in tempi di geo-localizzazione. Si pensi alle ‘derive’ nate come pratica di emancipazione per Débord e il movimento situazionista e trasformatesi sempre più in forme elitarie di visita di quartieri gentrificati, musei di arte contemporanea o padiglioni di Biennali varie. Parallelamente e specularmente si pensi ai flussi turistici di massa che ripercorrono ancora oggi gli itinerari del Grand Tour, riconfigurando in forme convenienti al capitale l’idea di ozio e di vacanza da esperienza propria delle classi benestanti a esperienza massificata. Oppure si pensi ai modi con cui gli stupefacenti – i cui effetti si avvicinano alla fantasmagoria benjaminiana – abbiano perso progressivamente il carattere di devianza o di sovversione sociale che avevano nello scorso secolo, a favore di una integrazione nei processi produttivi e persino in quelli terapeutici. Insomma: pur non avendo il tempo di approfondire tali aspetti, potrebbe essere utile cominciare un saggio dedicato ai modi con cui i viaggiatori essenzializzano e narrativizzano la propria esperienza odeporica dall’assunto secondo cui il muoversi flâneur non possa più considerarsi come un atto politico di rivolta e sollevazione sociale, ma sia ormai consustanziale al rinnovarsi del tempo sociale e della geografia in direzione di un mondo apparentemente semplificato, a portata di mano, di sguardo e spesso anche di portafoglio.

A rafforzare l’idea che la flânerie conservi una portata essenzializzante e, di qui, intimamente reazionaria, contribuisce in particolare quell’insieme di situazioni in cui il gentiluomo europeo non si muove nel proprio habitat naturale (la propria città, il proprio contesto sociale e culturale), ma si aggira per una metropoli straniera, nel mezzo di luoghi percepiti come altri, producendo, durante o in seguito a tale esercizio, una qualche forma di racconto o rappresentazione: diari, dipinti, fotografie, film, ecc. I moti di ricercato disorientamento propri del perditempo parigino si innervano nei nostri casi di venature orientaliste, come ricorda il brillante studio di Ali Behdad, Belated Travelers: Orientalism in the Age of Colonial Dissolution: 

The modern traveler maintains his European habit of strolling. […] [He] is a flâneur, an idler who tries to see more of the Orient through his erratic sauntering and by remaining dependent on chance. […] Flânerie suits the amateur traveler because it also caters to his desire to be “all eye”, to have a penetrating gaze without socializing. […] Since he can no longer achieve a sense of epistemological totally, [the orientalist flaneur] indulges in a scopophilic desire that situates him in a panoptic position from which he can have a panoramic view.[5]

In altre parole esiste, per Behdad, un trait d’union tra il testo benjaminiano e quello di Said, che può essere individuato nella dimensione estetica, estatica e scopofiliaca che condividono sia i viaggiatori europei in Asia sia i gentiluomini parigini quando si muovono nello spazio, poco importa se conosciuto o sconosciuto. In entrambi i casi, infatti, siamo innanzi a soggetti che narrano di un sé colto nell’atto di guardare qualcosa o qualcuno. Sono voyeur esibizionisti, portatori di uno sguardo penetrante sul mondo che però, in quanto gettato dall’alto di una posizione ‘panottica’ e marginalizzante, si caratterizza per l’assenza di socializzazione o, nel migliore dei casi, per una bassa interazione con la realtà circostante. Esibiscono un’alterità che si percepisce tale in relazione con un Altro osservato, ammirato, persino invidiato, ma mai sentito come prossimo.

Vorrei circostanziare quanto vado dicendo attraverso un ragionamento sulle rappresentazioni della città di Tokyo che si sono rincorse nello scorso secolo tra letteratura, cinema, fotografia e arte figurativa. La capitale nipponica mi pare un ottimo caso da analizzare perché accanto a motivi riconducibili per così dire a un orientalismo classico – le geisha, i samurai, le case del tè, i ciliegi in fiore e via discorrendo – quest’insieme di rappresentazioni ne include altri che appartengono all’immaginario modernista occidentale: grattacieli, televisori, robotica, treni e metropolitane. Le domande che mi vorrei porre, concentrandomi poi su un singolo oggetto interculturale, sono le seguenti: come si relaziona un osservatore straniero innanzi a un surplus di informazioni discordanti tipiche delle realtà postmoderne, che in parte rispondono alle proprie attese e in parte le disattendono? Come si muove in questi spazi di discontinuità? A quali categorie e paradigmi attinge per raccontare la sua esperienza del movimento? In che modo esibisce la propria natura di flâneur in un contesto che non gli è proprio?

 

2. L’impero dei di-segni

Per rispondere a queste domande, partirei da un testo scritto da un viaggiatore sui generis, vale a dire il semiologo Roland Barthes.[6] Il suo L’impero dei segni, frutto di una serie di viaggi nella terra dei kami nella seconda metà degli anni Sessanta, è una plastica dimostrazione di un approccio metonimico all’alterità. In ventisei brevi capitoli (occhiate) dedicati a riti e attitudini giapponesi – dalla preparazione dei cibi al teatro bunraku, dalla preziosità degli haiku alla forma della città, dalla calligrafia al pachinko – il semiologo francese si sforza di individuare tutte quelle forme giapponesi di relazione con l’esistente (e con i relativi sistemi simbolici) che egli giudica radicalmente diverse da quelle in essere nelle società occidentali.[7] Certo, l’intellettuale francese è consapevole dei rischi di etnocentrismo che tale pratica comporta, tanto da affermare – già nelle prime pagine del suo testo – di non essere interessato a cercare una ‘essenza orientale’,[8] tuttavia la sua scrittura resta quella di un ‘autore’ europeo che si relaziona con una realtà assunta statutariamente come ‘altra’ e verso la quale non può che provare sentimenti di straniamento e disorientamento come confermano le frasi che seguono (e che smentiscono parzialmente) il suo primo assunto antiessenzialista.

L’autore non ha mai, in alcun senso, fotografato il Giappone. È avvenuto piuttosto il contrario: il Giappone l’ha “costellato” di molteplici lampi; o meglio ancora: il Giappone l’ha messo nella condizione di scrivere. Questa condizione è quella stessa in cui avviene una certa vibrazione della persona, un ribaltamento delle vecchie letture, una scossa del senso, lacerato, estenuato sino al suo vuoto insostituibile, senza che l’oggetto cessi mai di essere significante, desiderabile. La scrittura è, in definitiva, a suo modo, un satori; il satori (l’accadere zen) è un sisma più o meno forte (per nulla solenne) che fa vacillare la conoscenza, il soggetto: provoca un vuoto di parola. Ed è anche un vuoto di parola che costituisce la scrittura.[9]

Se in prima battuta fa specie accorgersi che l’inventore della ‘morte dell’autore’ (il suo testo è coevo ai viaggi in Giappone, 1968)[10] si definisce tale in uno dei suoi libri di quel periodo, ciò che più interessa rimarcare, in questa sede, è la dimensione scopico-visuale che accompagna la sua operazione semiosica. In questo come in altri passaggi i termini scelti per descrivere il suo Viaggio in Oriente appaiono emblematici: egli parla di vacillamento visivo del soggetto («fait vaciller la connaissance, le sujet») e poi traccia altre condizioni di movimento incerto – l’arretramento (le recul), l’oscillazione (l’ébranlement) o l’inversione (le renversement) – che assomigliano incredibilmente al dislocarsi tipico del flâneur, ovvero a quel moto irregolare e non lineare che Gilles Deleuze, pensando al perdersi proprio dei personaggi cinematografici moderni, chiamava bal(l)ade (passeggiata/ballata).[11] Non solo le parole però. La prima edizione del volume è arricchita da numerose fotografie, realizzate da importanti fotografi del tempo come Nicolas Bouvier, Werner Bischof, Bruno Barbey, Maurice Babey, Daniel Cordier, Hans-D. Weber, A. Grivel, ecc.,[12] la cui funzione, stando alle parole di Barthes, è quella di produrre nel lettore «l’inizio di un vacillamento visivo analogo probabilmente alla “perdita di sensi” che lo Zen chiama un satori».

Che si possa paragonare tale atteggiamento ai modi di conoscenza dei contesti urbani, propri o altrui, è poi palese anche dalla rigida struttura del libro che si concentra guarda caso su alcuni ambiti di interesse del flâneur: un capitolo è dedicato ai volti dei giapponesi, un altro alla folla, un terzo alla planimetria urbana e così via. Più in generale si può dire che L’impero dei segni si presenta come ricerca di una specificità simbolica giapponese che non può prescindere né dalla parola (dunque dalla sua semiosi) né dalle immagini (il recupero delle ‘tracce’ di un passaggio/paesaggio), in una concatenazione inestricabile di esperienze propriocettive ed ermeneutiche che hanno bisogno di eventi singolari per accendersi di senso. Ne consegue che, secondo questo modo di relazionarsi con l’esistente che andrebbe considerato in gran parte come auto-centrato e solipsistico, metonimico e autorializzante, l’’Io’ europeo e vagheggiante si riempie di sé, ovvero diventa un ‘pieno’, solo quando incontra un ‘altro’ che si svuota di sé, ovvero che si presenta come ‘vuoto’ (si pensi a quanta importanza classificatoria assume per la cultura occidentale l’estetica del mu)[13] oppure, in alternativa, si frammenta o si parzializza in singole evidenze, per consentire, come avrebbe detto Benjamin, «la fantasmagoria del [viaggiatore]: leggere dai volti [leggasi: da singole evenienze, ndr] il mestiere, l’origine e il carattere».

 

3. Il Pachinko

Tra le tante parcellizzazioni della cultura giapponese ad opera di viaggiatori europei, una delle più facili da incontrare è quella dedicata al gioco del pachinko. Nella struttura episodica e frammentata del L’impero dei segni, ad esempio, il curioso gioco d’azzardo merita addirittura un capitolo a sé. Nel momento in cui si trova a descrivere questa consuetudine ludica, Barthes scrive:

Per il giocatore occidentale, una volta lanciata la pallina, si tratta via via di correggerne il tragitto della ricaduta (comunicando impulsi all’apparecchio); per il giocatore giapponese, invece, tutto si determina col colpo d’avvio, ogni cosa dipende dalla forza impressa dal pollice alla levetta; l’abilità è immediata, definitiva, in essa soltanto consiste il talento del giocatore, che non può correggere il caso che in anticipo e con un colpo solo. […] Questa mano è dunque quella d’un artista (alla maniera giapponese), per il quale il tratto (grafico) è un accidente controllato. Il pachinko riproduce in definitiva, nell’ordine meccanico, il principio stesso della pittura alla prima, che vuole che il tratto sia tracciato con un solo movimento, una volta per tutte, e che, a causa anche della qualità stessa della carta e dell’inchiostro, non possa mai essere corretto; allo stesso modo, la pallina lanciata non può essere deviata (si tratterebbe di una grossolanità indegna, strapazzare l’apparecchio, come fanno i nostri truffatori occidentali); il suo percorso è predeterminato dal solo lampo del suo slancio iniziale. A che serve quest’arte? A regolare un circuito nutritivo. La macchina occidentale si regge su un simbolismo della penetrazione; si tratta con un colpo ben assestato, di possedere la pin-up che, tutta illuminata sul pannello dei comandi, provoca e attende. Nel pachinko non c’è nulla di sessuale (nel Giappone, in questo paese che io chiamo il Giappone, la sessualità sta nel sesso, non altrove).[14]

La scelta, non così peregrina da parte di Barthes,[15] di paragonare il pachinko al flipper o alle slot machine si configura come una dimostrazione plastica di quella che Homi Bhabha chiamava ‘metonimia della presenza’, ovvero un’organizzazione discorsiva dei testi che opera processi di sintesi nel segno del confronto e del paragone tra pratiche sociali o culturali simili tra Oriente e Occidente (o tra un ‘noi’ e un ‘loro’), secondo la celebre frase: «almost the same, but not quite/white».[16] Il gioco d’azzardo in voga a Tokyo e dintorni, in tal senso, diventa di interesse del viaggiatore europeo – semiologo o non semiologo che sia – perché attiva una serie di categorie dello sguardo e dell’interpretazione già in essere prima del viaggio (in questo caso relative ai passatempi delle popolazioni autoctone e allogene) che consentono non soltanto l’opera di similitudine tra i singoli oggetti (le macchine mangiasoldi), ma anche il confronto tra le ragioni che spingerebbero i giocatori ad avvicinarsi a quest’attività ludica. Così facendo è facile passare, come fa Barthes, da un piano meramente denotativo (la descrizione di una consuetudine) a uno connotativo (l’individuazione di un valore di essenzialità, di tipicità culturale), grazie proprio ad un percorso di distillazione metonimica.

 

{dallagassa_pachinko_s_fig1| Giocatori di Pachinko. Foto della agenzia Zahuo Press di Tokyo, pubblicata nella prima edizione de “L’impero dei segni” di Roland Barthes}

 

4. Il Pachinko nella letteratura odeporica (italiana) del Novecento

Naturalmente il filosofo francese è solo il più brillante degli osservatori stranieri che attivano analoghi meccanismi ermeneutici una volta innanzi al gioco d’azzardo del Sol Levante. Può essere utile in questa sede proporre un piccolo carotaggio tra i diari di altri celebri viaggiatori, scelti per dovere di sintesi tra i soli italiani, per verificare la produttività di queste attività semiosiche. Fosco Maraini, ad esempio, in Ore giapponesi, sostiene che non si può capire il fascino del pachinko senza paragonarlo da una parte alle pratiche spirituali buddiste e dall’altra all’imporsi delle tecnologie della modernità.

È difficile capire il fascino del pachinko. Non c’è dubbio ch’esso costituisca una fuga dalla realtà, una droga; ma solo un popolo fondamentalmente buddista poteva accettare con gioia proprio questo specialissimo tipo di fuga. Quali sono le tecniche buddiste per arrivare all’illuminazione? Ce ne sono varie, ma una delle principali consiste nel liberare del tutto la mente dai pensieri contingenti perché possa farvisi luce la verità. E come si ottiene questa liberazione? Ripetendo fino ad annichilire la coscienza una frase, un mantra, una breve giaculatoria. ecco il terreno subconscio su cui il fenomeno pachinko è poi esploso […] D’altro lato il pachinko è anche meccanica, acciaio, […] senza contare che fa un rumore di officina. Ecco una seconda sottile ragione di fascino. Buddismo ed industria! Il passato e il futuro! Un popolo spiritualmente a terra, a cui tutto è stato distrutto fin nei recessi segreti del cuore, che deve cercare con grande fatica nuove ragioni di speranza e di vita, risponde come una fiumana d’automi a questi richiami del subcosciente. È l’unica spiegazione possibile. Ogni altra sarebbe offesa all’intelligenza ed alla sensibilità giapponesi.[17]

Italo Calvino, in un articolo per il Corriere della Sera del 1977, sottolinea invece la dimensione di solitudine provata dai giocatori nipponici:

Da noi i flippers dei bar e anche quelli delle sale apposite sono quasi sempre circondati da capannelli di giovani, terreno di sfide e scommesse e sfottiture reciproche. Qui l’impressione è d’una affollata solitudine, nessuno sembra conoscere nessuno, ognuno è intento al suo gioco, guarda fisso nel suo saettante labirinto e ignora il vicino di destra come quello di sinistra, ognuno è come murato in una sua cella invisibile, isolato in una sua ossessione o condanna.[18]

Dino Buzzati, sempre per il Corriere (ma siamo a metà anni Sessanta), descrive le sensazioni provate durante un pomeriggio trascorso davanti a una macchinetta, non lesinando continui riferimenti alla propria identità straniera (e straniata).

Manca ancora un’ora e tre quarti, un po’ di pachinko gioverà, lo stesso imperatore forse sarebbe lieto se sapesse che sto giocando a pachinko, egli penserebbe che quello straniero fa bene a svagarsi coi giochi del mio popolo, così poi si presenterà a me col volto sereno. Ci sono piccole bocche in cui, nella discesa, può entrare la pallina, e allora si vince. Un campanello trilla, un occhio rotondo si accende nel centro del quadrante e con allegro scroscio quindici palline si scaricano nella vaschetta sottostante. […] Maledizione, il campanello, la luce, il tintinnio delle palline. Ho vinto. E la musica si avventa sulla incredibile officina […] non mi ricordo più niente, non mi ricordo più il mio nome, io sono qui da sempre, la mia città i miei cari il mio lavoro le mie montagne non esistono, la mia patria non è mai esistita.[19]

In questi e in altri casi lanciare una pallina per vedere l’esito delle sue circonvoluzioni non è semplicemente uno dei tanti passatempi a disposizione di chi vive in Giappone, semmai è un ‘segno dei tempi’, un ‘fattore identitario’, un ‘rito ancestrale’. Come capita ad altre manifestazioni culturali metonimiche, il pachinko diventa un oggetto-esperienza capace di soggettivare lo sguardo di chi racconta, offrendogli uno spazio di teorizzazione sul quale ogni scrittore proietta i propri convincimenti, chi vedendovi la spiritualità di un popolo, chi la reazione alla sconfitta della guerra, chi la supposta solitudine, chi la tendenza alla automazione, chi, specularmente, la sensazione di straniamento e di perdita che prova un viaggiatore straniero. Poco importa se, per rendere resistenti ognuna di queste costruzioni essenzialiste, si silenziano o si ignorano alcuni tratti culturali del gioco – come le sue origini europee/americane, oppure la gestione delle sale affidata in buona parte a immigrati coreani (spesso sotto la supervisione e il controllo della yakuza), o ancora l’ampio utilizzo di musica occidentale in filodiffusione[20] – che motivano le collazioni con il flipper e il bigliardo sul fronte delle analogie e non delle differenze e che, soprattutto, smontano o ridimensionano il carattere di ‘giapponesità’ che aleggia attorno al rito ludico descritto. Poco importa – si diceva – perché il modo di relazionarsi con l’oggetto ‘cosificato’ (nel senso che assegna a questa parola Bodei, rileggendo e reinterpretando Baudrillard),[21] ovvero di oggetto privato della sua mera funzione di merce e investito di valori affettivi/simbolici, garantisce l’ebbrezza fantasmagorica provata da chi sa «leggere dai volti il mestiere, l’origine e il carattere» e che, nel nostro caso, sostituisce la «sosta per l’aperitivo» con una sosta in un pachinko parlor.

 

5. Il Pachinko nelle immagini di fotografi e registi

Nella prima parte del saggio si era accennato alla dimensione essenzialmente scopica/visiva della flânerie senza approfondirne i caratteri. Cerco di farlo ora partendo da un piccolo carotaggio tra i film realizzati da produzioni straniere in Giappone nella seconda metà del secolo scorso per scoprire quanto numerosi siano i lavori audiovisivi che contengono sequenze ambientate nelle sale pachinko. Si va da La casa di bambù (House of Bamboo, 1955) di Samuel Fuller a Mondo di notte (1969) di Luca Vanzi, da Black Rain - Pioggia sporca (Black Rain, 1989) di Ridley Scott a Lost in Translation - L'amore tradotto (Lost in Translation, 2003) di Sofia Coppola, da Enlightenment Gauranteed (Erleuchtung garantiert, 1999) di Doris Dörrie a Thunderbolt - Sfida Mortale (Thunderbolt) di Gordon Chan, da 8 donne e ½ (8½ Women, 1999) di Peter Greenaway a Wolverine L’immortale (The Wolverine, J. Mangold 2013), da Tokyo-Ga (1989) di Wim Wenders a Seven Betacam Tapes 1984/2013) di Enrica Fico e Michelangelo Antonioni.[22]

 

 Fotogramma tratto da una sequenza di “Lost in Translation” di Sofia Coppola Fotogramma tratto da una sequenza di “Tokyo-Ga” di Wim Wenders

 

In molti di questi film, capita spesso che personaggi di origine europea o americana attraversino o abitino gli angusti spazi dei parlor, percependosi immersi in una moltitudine di fantasmi e/o di automi con cui non hanno alcuna interazione (i giocatori giapponesi), oppure facendosi imprigionare in file e file di macchine luccicanti dalle quali cercano difficili, ma non impossibili vie di fuga. Il caso più emblematico tra quelli citati si trova, senza dubbio, in Tokyo-Ga di Wim Wenders, documentario d’autore in cui si assiste a una serie di vagabondaggi senza meta del regista tra le strade e i locali della capitale. Tra i luoghi visitati c’è, ovviamente, anche una sala giochi che il cineasta tedesco, attraverso la sua voice over, descrive in questo modo:

Fino a quella notte tarda e in tutte le notti che seguirono, mi sono perso in una delle tante sale del pachinko dove si sta seduti davanti alla macchina in un rumore assordante. Ero un giocatore tra i tanti e per questo ancora più solo, che guardava le innumerevoli biglie metalliche saltare tra i chiodi verso il fondo e solo qualche volta finire in una buca vincente. Questo gioco provoca una specie di ipnosi, una strana sensazione di felicità, vincere non è più così importante ma il tempo passa, per un po’ si perde il contatto con se stessi, e ci si fonde con la macchina. Forse si dimentica quello che si è sempre voluto dimenticare. Questo gioco è apparso dopo la guerra perduta quando i giapponesi dovevano dimenticare un trauma nazionale.[23]

Le parole di Wenders – a cui si uniscono immagini che mostrano gamblers in stati catatonici o ipnotici, trambusti assordanti di palline che vengono lanciate nelle macchine luccicanti, riprese da telecamere a circuito chiuso – illustrano perfettamente il senso di smarrimento che è proprio della flânerie in trasferta e quale ruolo assume il processo di cosificazione della propria esperienza nel segno del sincretismo, della rimozione, della perdita di memoria e persino della forclusione.[24] Automa tra gli automi, Wenders si inabissa in un mondo di tecnologie stordenti, per vivere completamente il quale non gli resta che fondersi con la macchina, sparire, spersonalizzarsi (o almeno dichiararlo allo spettatore).

Bisogna tuttavia aggiungere che i pachinko, rispetto ad altre forme cosificate di giapponesità (il riferimento è, ad esempio, ai rivenditori di elettrodomestici e robotica, ai monitor montati sui taxi o sugli edifici pubblici, ai takenoko-zoku, ai riti tradizionali, agli hotel a capsule, ecc..), hanno dalla loro il vantaggio di apparire particolarmente adatti per la resa fotografica e cinematografica: ogni macchina scintillante e rumorosa, infatti, è collocata in lunghe file parallele, gli avventori sono piazzati uno accanto all’altro dentro corridoi che tracciano vorticose vie di fuga e che esaltano l’illusione di profondità propria dell’immagine oculare. In un contesto ambientale come il parlor, non serve insomma essere grandi autori per collocare nei punti giusti la foto/cinecamera, come dimostrano le decine e decine di istantanee che si possono trovare negli archivi fotografici (anche online, come quello, piuttosto cospicuo di Getty Images)[25] e che appaiono del tutto simili tra loro, sia quando dietro l’obiettivo ci sono fotografi di grande fama come Margaret Bourke-White o Gideon Mendel, sia quando ci sono emeriti sconosciuti.

 

 William Klein, Pachinko Doorman, 1961 Chitose Hokkaido Japan, Bud Gilliam, 1965

 

A me però interessa compiere un passo in più. Se da una parte, infatti, è la conformazione particolare delle sale gioco a ‘imporre’ un numero ristretto di possibili angolazioni di ripresa, dall’altra è il costante e quasi ossessivo ritorno su queste immagini a suggerirmi di essere in presenza di una manifestazione che aiuta a semplificare il quadro cognitivo in atto. In altre parole, l’ermeneuta/osservatore prova l’illusione di giungere a una più diretta comprensione di ciò che guarda proprio in virtù dei ristretti angoli di ripresa, ribaltando la percezione di distrazione, détournement, svista propria della flânerie perché si consustanzia in ambienti chiusi, in passaggi stretti, in corridoi lunghi che impongono una serie di movimenti predefiniti, circoscritti, prevedibili. Uso volutamente questi due ultimi aggettivi – circo-scritto, pre-vedibile – perché definiscono la contiguità congenita tra forme verbali e visuali nella rappresentazione odeporica. I testi giornalistici o narrativi descrivono immagini, le immagini fotografiche o cinematografiche catturano segni di scrittura, avvalorando in un caso come nell’altro l’idea secondo cui uno sguardo odeporico in azione è sempre influenzato da linee di forza e orizzonti che trascendono la sua singolarità – quella autoriale – e che impongono precise scelte di configurazione in particolar modo per quei mondi che si considerano, a torto o a ragione, irriducibilmente ‘altri’.

 

6. Dalla letteratura, al cinema, al teatro

Che certe configurazioni dello sguardo o certi movimenti descrittivi possano riprodursi simili o identici anche a distanza di anni e con soggetti diversi è un convincimento piuttosto diffuso negli studi di area culturale e postcoloniale. Non a caso Said quando parla di rappresentazioni orientaliste usa la metafora del campo (e l’inquadratura è tecnicamente un campo) oppure quella ancora più produttiva di palcoscenico teatrale.

La nostra iniziale descrizione dell’orientalismo come campo di studi eruditi acquista ora una nuova concretezza. L’idea di campo allude a uno spazio delimitato. Analogamente, il concetto di rappresentazione […] implica un riferimento al teatro: l’Oriente è un palcoscenico nel quale l’intero Est viene confinato. Sul palcoscenico compaiono figure il cui compito è rappresentare il più ampio ambito da cui provengono. L’Oriente non appare più come uno spazio illimitato al di là del familiare mondo europeo, ma come un’area chiusa, un ampio palcoscenico annesso all’Europa. […] Dietro le quinte del palcoscenico orientale è custodito un ricchissimo repertorio culturale le cui singole voci evocano fantasmagorie di un mondo incantato: la Sfinge, Cleopatra, l’Eden, Troia, Sodoma e Gomorra, Astarte, Iside e Osiride, Saba, Babilonia, i Geni, i Magi, Ninive, il prete Gianni, Maometto e altri ancora; luoghi in certi casi soltanto nomi, metà immaginari metà conosciuti; mostri, diavoli, eroi, terrori, piaceri, desideri.[26]

Sia il campo (l’inquadratura) sia il palcoscenico nel quale vengono inscenate le rappresentazioni orientaliste sono spazi angusti, abitati da decine di personaggi che – stretti stretti, l’uno accanto all’altro – giocano in solitaria in un mondo incantato e colorato, evocanti fantasmagorie, raccogliendo in sé l’idea di intere culture e paesi di riferimento. Detto che il termine ‘fantasmagoria’ scelto da Said è lo stesso usato da Benjamin nei Passages per indicare la predisposizione scopica e esperienziale del flâneur, non sfuggirà che quanto descritto dal teorico di origini palestinesi si applica perfettamente anche alla rappresentazione delle sale pachinko e più in generale a tutti quei riti e situazioni evenemenziali che si allestiscono sotto forma di spettacolo e che attirano lo sguardo del viaggiatore straniero perché rispondono ai caratteri dell’almost the same, but not quite che Said qui declina sotto la formula del «metà immaginari, metà conosciuti». In una metropoli come Tokyo, ipertecnologica e in rapida trasformazione, essi sono evidentemente ovunque, anche se la similitudine con le città occidentali consente di aggiornare rapidamente le figure che partecipano a questo tipo di rappresentazioni. Non più soltanto geisha, samurai e imperatori, ma anche giovani punk sbandati, taxisti, salaryman e gamblers secondo quel processo che allarga e radicalizza la proposta ermeneutica saidiana e che viene definito tecno-orientalismo[27] dal momento che esotizza ed essenzializza il Giappone (e il sudest asiatico) accentuando elementi spersonalizzanti come l’iper-tecnologia, la robotica, l’automazione e dello straniamento, considerati vettori di processi di sub-umanizzazione dell’individuo[28]. Sotto questa luce, il pachinko – o meglio il modo con cui viene raccontato dagli osservatori stranieri o mostrato dalle macchine da presa – restituisce un senso di destabilizzazione paradossalmente rassicurante in chi viaggia, perché mantiene salda l’impressione della propria assoluta alterità rispetto a luoghi e persone visti/rappresentati come alieni o figure fantasmatiche, prive di identità soggettiva e soggettivante. Una folla di giocatori dentro la quale è sempre possibile nascondersi e sparire.

Per cercare di tirare, almeno parzialmente, le fila di questo discorso, si potrebbe affermare che se per ogni traduzione c’è un limitato numero di parole da utilizzare, o strade da percorrere, o inquadrature da montare, e se per il flâneur-viaggiatore la città straniera si coglie soltanto attraverso l’estetica di uno sguardo impressionista, ecco che questo sguardo impressionista è istintivamente portato a cercare il familiare e il rassicurante, l’almost the same but. Da tale prospettiva, lo spazio angusto e oppressivo della sala pachinko, che qui si è cercato di analizzare come una delle possibili vie di accesso alla rappresentazione interculturale, non restituisce esclusivamente l’esperienza dell’alienazione e del disorientamento, della perdita e della rimozione – familiare e per certi versi rassicurante atteggiamento della modernità perché esacerba la soggettività del soggetto narrante – ma sancisce anche la limitata capacità di muoversi di questo stesso soggetto che, di fatto, entra in uno spazio dato scegliendo di perseguire l’unica via di fuga (o di prigionia) pensata dall’ambiente circostante. Si potrebbe affermare, in altre parole, che il pachinko è considerato così familiare agli occhi dei viaggiatori europei perché propone una ‘cosificazione’ della stessa idea di movimento del flâneur. Il quale, in tal modo, vivrebbe alla stregua delle palline lanciate nel pachinko da qualche anonimo scommettitore giapponese: credendo di essere libero di seguire gli itinerari che preferisce quando in verità può percorrere un numero limitato di traiettorie e terminare la sua corsa unicamente in un numero circo-scritto, pre-vedibile e non sempre vincente di caselle.


1 Ho già espresso, in modi più approfonditi, questa serie di considerazioni in M. Dalla Gassa, ‘Senso, anonimie e videotapes. Il viaggio in Giappone di Michelangelo Antonioni ed Enrica Fico’, L'avventura. International Journal of Italian Film and Media Landscapes, I, Gennaio-Giugno 2017, pp. 65-80. I due articoli si presentano, nei fatti, come due percorsi paralleli che ragionano sulle rappresentazioni odeporiche del Giappone tra cinema e altre arti nel secondo dopoguerra. Una prima versione di questo saggio è stata presentata durante il convegno internazionale “La città, il viaggio, il turismo. Percezione, produzione e trasformazione” organizzato da AISU – Associazione Italiana Storia Urbana, e tenutosi a Napoli nel settembre del 2017.

2 W. Benjamin, I «passages» di Parigi [1983], Torino, Einaudi, 2000, p. 480.

3 Ivi, p. 1008.

4 Ivi, p. 13.

5 A. Behdad, Belated Travelers: Orientalism in the Age of Colonial Dissolution. Durham, Duke University Press, 1994, pp. 57-58.

6 Cfr. R. Barthes, L’impero dei segni, Torino, Einaudi, 1970 (edizione consultata: 1984).

7 Sul rapporto tra Barthes, Said e il costrutto dell’orientalismo si è scritto molto. Si veda almeno: R. Chow, ‘Roland Barthes: Empire of Signs’, Constructions, 1986, pp. 17-23; D. Knight, ‘Barthes and Orientalism’, New Literary History, XXIV, 3, Estate 1993, pp. 617-633; J. P. Sharp, ‘Writing travel/travelling writing: Roland Barthes detours the Orient’, Environment and Planning D: Society and Space, XX, 2002, pp. 155-166; J. P. Dale, ‘Cross-Cultural Encounters through a Lateral Gaze’, in I.E. Boer (a cura di), After Orientalism: Critical Entanglements, Productive Look, Amsterdam, Rodopi, 2003, p. 63-79; P. A. Genova, ‘Beyond Orientalism? Roland Barthes’ Imagistic Structures of Japan’, Romance Studies, XXXIV, 3-4, 2016, pp. 152-162.

8 Egli scrive nella prima pagina della sua introduzione, intitolata, non casualmente, Laggiù: «Non è che io guardi amorosamente verso un’essenza orientale. L’Oriente mi è indifferente. Mi fornisce soltanto una riserva di tratti la cui messa in moto, il gioco inventato, mi permette di ‘accarezzare’ l’idea di un sistema simbolico sconosciuto, interamente distaccato dal nostro. Ciò che può essere preso in considerazione pensando all’Oriente non sono altri simboli, un’altra metafisica, un’altra saggezza (benché questa appaia ben auspicabile); piuttosto si tratta della possibilità di una differenza, di un mutamento, di una rivoluzione nella proprietà dei sistemi simbolici» (R. Barthes, L’impero dei segni, p. 5.

9 Ivi, pp. 6-8.

10 Cfr. R. Barthes, ‘La morte dell’autore’, in Id., Il brusio della lingua. Saggi critici [1968], Torino, Einaudi, 1988.

11 G. Deleuze, L’immagine tempo. Cinema 2 [1985], Torino, Einaudi, 2016.

12 L’edizione francese contiene questa chiosa: «Le texte ne “commente” pas les images. Les images n'illustrent pas le texte: chacune a été seulement pour moi le départ d'une sorte de vacillement visuel, analogue peut-être à cette perte de sens que le Zen appelle un satori; texte et images, dans leur entrelacs, veulent assurer la circulation, l'échange de ces signifiants: le corps, le visage, l'écriture, et y lire le recul des signes» (R. Barthes, L’empire des signes, Paris, Skira, 1970, p. 2).

13 Su questi temi si veda almeno: G. Pasqualotto, Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d'Oriente, Venezia, Marsilio, 1994.

14 R. Barthes, L’impero dei segni, pp. 36-37.

15 Ricordo in nota che il pachinko parrebbe avere lontane origini europee e americane. Si pensa, infatti, che il gioco d’azzardo giapponese sia l’evoluzione tecnologica della bagatelle un gioco da tavolo diffuso in Europa nel Settecento e poi importato negli Stati Uniti tra fine Ottocento e inizio Novecento con il nome di Corinthian game. Solo a partire dagli anni Venti-Trenta dello scorso secolo il gioco viene esportato in Giappone dove prenderà il nome di pachinko. Cfr. W. Eils, Pachinko: Phonomen und Perspektiven: Kultursoziologische Anmerkungen zum Matador der japanischen Unterhaltungsindustrie, Wien, Universitat Wien, 1993.

16 H. Bhabha, I luoghi della cultura. Roma, Meltemi, 1994, pp. 89-91.

17 F. Maraini, Ore Giapponesi [1957], Milano, Corbaccio, 2000, p. 92.

18 I. Calvino, ‘I gentili miracoli del Giappone’, Corriere della sera, 2 gennaio 1977, p. 3, ora con il titolo ‘I biliardini della solitudine’ in Id., Collezione di Sabbia, Milano, A. Mondadori, 1991, pp. 195-196.

19 D. Buzzati, ‘Pachinko’, Corriere della sera, 13 novembre 1963, p. 3.

20 Per una trattazione più ampia e di approccio culturalista del gioco d’azzardo giapponese rimando a W Manzenreiter, ‘Time, Space, and Money: Cultural Dimensions of the Pachinko Game’, in S. Linhart and S. Frühstück (a cura di), The Culture of Japan as Seen Through Its Leisure, Albany (NY), State University of New York Press, 1998, pp. 359-381.

21 Cfr. R. Bodei, La vita delle cose, Roma-Bari, Laterza, 2009; J. Baudrillard, Il sistema degli oggetti, Milano, Bompiani, 1972.

22 Come già segnalato nella prima nota, mi permetto di rimandare per ulteriori approfondimenti al mio M. Dalla Gassa, ‘Senso, anonimie e videotapes. Il viaggio in Giappone di Michelangelo Antonioni ed Enrica Fico’, L'avventura. International Journal of Italian Film and Media Landscapes, I, Gennaio-Giugno 2017, pp. 65-80.

23 Questo brano è una trascrizione della versione italiana del film.

24 Su questi temi e sulla questione fondamentale della visione dell’Altro in una dimensione sincretica, impossibile da trattare in questa sede, rimando almeno a J. Fabian, Time and the Other: How Anthropology Makes Its Object [1983], New York, Columbia University Press, 2014, in particolare il capitolo 4, The Other and the Eye: Time and the Rhetoric of Vision, pp. 105-142.

25 Per un carotaggio non esaustivo, ma utile ai fini di un approccio visuale alla rappresentazione fotografica del pachinko, si rimanda al catalogo online della società americana Getty Images.

26 E.W. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Roma, Feltrinelli, 1991, p. 69.

27 D. Morley, K. Robins, Spaces of Identity. Global Media, Electronic Landscapes and Cultural Boundaries. London-New York: Routledge, 1995.

28 D. S. Roh, B. Huang, G. A. Niu (a cura di), Techno-Orientalism: Imagining Asia in Speculative Fiction, History, and Media, Londra, Rutgers University Press, 2015.