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Abstract: ITA | ENG

La città di Tokyo è stata spesso rappresentata dai viaggiatori europei del secondo Novecento secondo quei tratti ermeneutici che David Morley e Kevin Robins (1995), allargando e radicalizzando la proposta teorica di Said (1978), hanno chiamato tecno-orientalismo e che consiste in una sorta di approccio esotico all’alterità che legge la rincorsa tecnologica, la robotica e l’automazione dei processi produttivi dei paesi del FarEast, come causa di processi di sub-umanizzazione dell’individuo (vedi anche Roh, Huang, Niu 2015). Tra le esperienze che vengono rilette alla luce di questi paradigmi, una delle più comuni è quella del pachinko un gioco d’azzardo simile, almeno agli occhi degli osservatori stranieri, alle slot machine e ai flipper. Facendo dialogare tra loro diverse testimonianze di letterati, registi, saggisti e fotografi occidentali che hanno descritto tale pratica ludica come simbolo di giapponesità, il presente articolo vuole mostrare come i processi di sintesi che accompagnano ogni rappresentazione dell’alterità si fondino spesso su atti circo-scritti e pre-visti, ovvero su atti che sovraimprimono una fase di scrittura e una di visione, recuperando basi teoriche e paradigmi culturali dalla concezione letteraria e fantasmatica di flânerie proposta da Walter Benjamin nel suo Passagenwerk (1983).

The city of Tokyo has been often represented by European travellers of the late 20th century according to the hermeneutical features that David Morley and Kevin Robins (1995) called ‘techno-orientalism’. By extending and radicalising the theoretical proposal of Said (1978), this perspective consists in a sort of exotic approach to otherness that interprets the technological race, robotics and automation of production processes in the Far-East countries, as a cause of individual sub-humanization (see also Roh, Huang, Niu 2015). Among the experiences that have been re-interpreted in light of these paradigms, one of the most common, at least in the eyes of foreign observers, is pachinko, a gambling game similar to slot machine and pinball. By producing a dialogue between different testimonies of writers, directors, essayists and western photographers who have described this practice as a symbol of Japaneseness, this article aims to show how the synthesis processes that accompany every representation of otherness are often based on circumscribed and foreseeable acts; that is, on acts that overprint a writing phase and a vision phase, recovering theoretical bases and cultural paradigms from the literary and flânerie phantasmic conception proposed by Walter Benjamin in his Passagenwerk (1983).

 

 

1. La flânerie orientalista[1]

Potrebbe sembrare inelegante e ingeneroso, specie in apertura di un saggio, evidenziare quei passaggi dell’opera di Walter Benjamin accusabili di essenzialismo ed eccessiva semplificazione. L’approccio marxista che informa i suoi scritti è tutt’altro che superficiale e la scelta di valorizzare figure marginali del capitalismo (es. il giocatore d'azzardo, la prostituta, lo sfaccendato, ecc.) va visto senza dubbio come un tentativo di ipotizzare forme alternative di organizzazione sociale e urbana a quelle allora (e tuttora) esistenti. Eppure, specie nella descrizione di figure come il flâneur, non è raro imbattersi in giudizi fondati su impressioni, oppure in esaltazioni di posture egotiste che confliggono con gli ideali socialisti del suo autore. Nelle citazioni qui sopra riportate, ad esempio, la sensibilità accesa e il profilo di estemporaneità propri del gentiluomo perditempo parigino, per quanto presentati come un modo per distanziarsi dal ritmo frenetico dell’industrializzazione e per trovare nell’ozio forme più autentiche di relazione con il reale, si traducono nell’idea benjaminiana che egli possa comprendere il mondo circostante o sparendo tra la folla o attraverso rapide occhiate, o rinchiudendosi in una stanza o a distanza ‘paesaggistica’. In altre parole, si celebra una figura dispersa nei propri détournement e che dunque non sembra sapersi interrogare sulla complessità dei processi di costruzione dei luoghi che frequenta e soprattutto ‘sporcarsi le mani’ con i conflitti sociali e politici che spesso – come la storia della capitale francese ci insegna – li definiscono attraverso moti perturbativi e conflittuali.

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