L’accanto della prosa. Jonathan Littell lettore di Francis Bacon

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Jonathan Littell’s latest works are closely linked with each other with respect to both form and content. Triptyque. Trois études sur Francis Bacon is an essay about the work of the Dublin-born painter; Une vieille histoire is an unconventional novel in which the same story is told twice by using almost the same plot and means in order to create something new. In Triptyque Littell looks for the «grammar of Francis Bacon’s paintings», by focusing mainly on the codes and uses of the triptych form. Triptyque’s cover shows one of the documents found in Francis Bacon’s workshop, considered to be one of his first triptych draft, called Three studies for figures at the base of a crucifixion. This document embodies a poetical device that Jonathan Littell put in the background of his narrative piece. Une vieille histoire reproduces the concept structure of two figures connected with each other by meticulous correspondences and mises en abyme. By exploring this poetical link between Triptyque and Une vieille histoire, the author will also deal with Maurice Blanchot’s first novel, Thomas l’Obscur. Rewritten after nine years and greatly reduced in its length, this one-in-two book could be a relevant reference for Jonathan Littell works.

La grammatica di Francis Bacon e l’enigmatico treppiede

Leggere le opere di Jonathan Littell inquadrandole nel campo editoriale francese contemporaneo può rilevarsi particolarmente istruttivo. Dopo lo straordinario successo ottenuto nel 2006 con Les Bienveillantes[1] sono apparsi numerosi piccoli volumi, molto diversi fra loro per contenuti e impostazione e lontanissimi dal grande affresco narrativo sul nazismo. È tuttavia possibile tracciare alcune linee che l’autore è andato sviluppando negli anni immediatamente successivi al suo imponente esordio letterario. Da un lato troviamo una forma ibrida fra il saggio e il reportage, sulle cui specificità occorrerà ritornare, e dall’altro una sorta di puro récit, con predilezione per forme brevi e un registro stilistico decisamente più ricercato. Ciascuna di queste due linee, che sono appunto a pieno titolo due registri di scrittura, può dirsi il risultato di una biforcazione di ciò che Les Bienveillantes sintetizzano nel grande progetto romanzesco: divulgazione di una ricerca approfondita e schietta narrazione.

Ora questi due filoni corrispondono alle due principali dimore editoriali dell’autore franco-americano: i saggi, tra i quali si annovera un’analisi del caso Léon Degrelle (Le sec et l’humide),[2] sono editi da L’Arbalète, leggendaria piccola casa editrice francese della prima metà del secolo scorso, recentemente trasformata da Gallimard in una collezione diretta da Thomas Simonnet (il cui ruolo, come si vedrà, non è da trascurare); i testi più marcatamente narrativi, al contrario, sono editi, spesso in edizioni a tiratura limitata, da Fata Morgana, raffinata casa con sede a Montpellier.

Triptyque. Trois études sur Francis Bacon[3] è un volume composto di tre saggi che affrontano, ciascuno secondo un suo taglio preciso, l’opera pittorica di Bacon; originariamente redatti in inglese e tradotti in francese dall’autore,[4] questi tre saggi s’iscrivono a pieno titolo a quel genere di écrits sur l’art di cui è puntellata la tradizione della letteratura francese moderna. Da Mallarmé a Malraux (nei confronti del quale l’autore si permette, per esempio, una secca presa di distanza),[5] e senza ovviamente dimenticare quel grande precedente che è, rispetto a Bacon, la Logique de la sensation di Gilles Deleuze, Littell riproduce e reinventa una tradizione letteraria dall’allure sovente estemporanea, spesso relegata ai margini delle ‘opere complete’ e tanto letta quanto generalmente poco gradita agli addetti ai lavori delle discipline artistiche.

In uno dei non numerosissimi contributi critici apparsi in Francia su Triptyque, viene sottolineata la singolare amalgama tra la notevole erudizione e dimestichezza con la letteratura specialistica mostrate dall’autore e, al tempo stesso, formule ed espressioni mutuate da registri di scrittura assai più liberi:

Parallèlement, et assez abruptement, le texte affiche aussi sa nonchalance et sa totale liberté par rapport à l’exercice érudit, en livrant des sources anonymes et non scientifiques: une «amie» par exemple («ce que m’écrit une amie au sujet de la controverse iconoclaste», p. 102), un «livre» dont on ne connaît ni le titre ni l’auteur («J’ai lu un livre et j’ai compris certaines choses», p. 89).[6]

Ricerca erudita, dunque, affiancata da esposizione confidenziale delle più varie considerazioni. Come già detto in precedenza, Triptyque rimastica il canone francese dell’écrit sur l’art facendo ampio uso degli strumenti stilistici propri del reportage: nel primo testo raccolto nel volume, intitolato Une journée au Prado, l’io scrivente racconta la propria visita al museo in compagnia di Manuela Mena Marqués, conservatrice e curatrice dell’ultima personale dedicata a Bacon. Sulle tracce del pittore, che negli ultimi anni di vita era solito visitare il museo madrileno in orario di chiusura in compagnia appunto di Manuela Mena, il reportage si sviluppa intervallando il resoconto della conversazione con la curatrice ad alcune citazioni dirette dei suoi studi, tanto che nel momento in cui appaiono i diacritici[7] non sempre è dato al lettore di capire a quali delle due fonti si faccia riferimento.

Ma veniamo ora alla sostanza dell’analisi dell’opera di Bacon che Littell propone in Triptyque. Più che di una chiave di lettura o di un’interpretazione, la proposta avanzata da Littell è dell’ordine del metodo; si tratta del cuore del secondo saggio, che si prefigge d’individuare nientemeno che la ‘grammatica di Francis Bacon’:

La plupart des spectateurs, quand ils regardent un tableau de Francis Bacon, présument, presque sans y penser, que la figure humaine ou animale qui lui fait face est le sujet de ce tableau. Ce ne pas tout à fait ça: la figure est l’objet peint dans le tableau; le sujet, comme dans toute peinture, et pas seulement abstraite, est la peinture elle-même. C’est la peinture qui raconte de quoi elle parle. ‘La peinture, expliquait Bacon à Franck Maubert dans les années quatre-vingt, est un langage en soi, c’est une langue à part.’ En tant que telle, elle a sa phonologie (les relations de valeurs et de tons) et sa morphologie (la disposition des formes sur la toile), sa grammaire et sa syntaxe, dont l’organisation et l’articulation spécifiques, dans l’œuvre de chaque peintre, sont les seules choses qui peuvent nous apprendre à la lire.[8]

Si è di fronte, a quanto pare, a un approccio ben preciso alla pittura di Bacon. Strategia di accostamento all’opera d’arte non certo inclusiva, giacché, come verrà precisato in seguito, non sono appunto ammessi i più tradizionali strumenti dell’interpretazione («Pas symboliquement ou métaphoriquement»)[9] e, se risultano invece accettabili le categorie tradizionali della psicanalisi, si tende piuttosto a farle interagire in un reticolo concettuale ancorato ai puri dati pittorici, se non addirittura tecnici, piuttosto che inquadrare il tutto in un sistema interpretativo («Mieux vaut raisonner à partir des opération freudiennes classiques, la condensation, le déplacement, la substitution, le renversement, la déformation, etc.»,[10] «Mieux vaut aussi […] prêter attention à ce que lui-même appelait son ‘imagination technique’, the technical imagination»).[11]

Tuttavia, ciò che qui risulta più interessante, è l’idea che per ‘leggere’ la pittura si possa fare ricorso e prestare attenzione ad aspetti che alla pittura non appartengono se non per via paradossale, come appunto la grammatica e la sintassi. E non è tutto, perché il processo d’importazione di alcuni degli strumenti tipici del linguaggio e in particolare delle scienze testuali si spinge fino a riferirsi a «des figures de rhétorique telles que la métonymie et le synecdoque; car c’est aussi, dans une certaine mesure, de rhétorique qu’il s’agit».[12]

Si tratta dunque, in un certo senso, di trattare la pittura, e in particolare quella di Bacon, come se fosse ‘testo linguistico’; non solo: siccome le opere appartenenti alle ‘arti del discorso’ sono altrettanto e forse anche più soggette a quelle pratiche che per brevità definiremo interpretative, si potrebbe affermare, cercando di sintetizzare l’approccio auspicato dallo scrittore franco-americano, che è la ‘lettera’ della pittura a divenire qui oggetto di analisi. Prolungando il paradosso che vuole che si prendano di mira grammatica, retorica, forme e sonorità di un’arte (la pittura) cui, di per sé, evidentemente esse non appartengono, ci si avvicina a quello che è, a nostro avviso, l’esito letterario e poetico di questa escursione di Jonathan Littell nella pittura e nel discorso sull’arte. Resta da capire come, al netto di una discreta quantità di dichiarazioni d’intenti, questo studio ‘letterale’ della pittura baconiana possa essere messo in pratica, e soprattutto a quali conclusioni, eventualmente, questa prospettiva possa condurre.

La strada più agevole e al tempo stesso più produttiva, stando a Littell, è rintracciare le diverse e mutevoli apparizioni di forme e tratti ricorrenti, giacché se l’obiettivo è descrivere la retorica della pittura, è solo grazie a un puntuale confronto dei significanti che potranno emergere i significati di un linguaggio fondato su leggi proprie, non solo alla pittura in genere, ma ancor più al singolo pittore:

Parce que les images circulent toujours d’une toile à l’autre, chaque fois modifiées, déformées, inversées, reflétées, il devient nécessaire, pour les lire, de suivre à la trace leurs déplacements, dans leur frénésie ou leur paresse, de rechercher les correspondances, les figures récurrentes de ce langage ou de cette rhétorique.[13]

L’impenetrabilità delle immagini di Bacon finisce presto coll’essere considerata alla stregua di un enigma, giacché Littell, facendo appello alla Bild-Anthropologie[14] di Hans Belting, sostiene che «l’image, réponse à l’énigme de la mort, fait découvrir à l’homme une nouvelle énigme dans l’image».[15] Si tratta quindi di confrontare gli enigmi fra di loro, e di far fronte alla strategia di composizione che a Bacon è peculiare, quella che porta tanto a maneggiare i grandi capolavori della tradizione pittorica occidentale (dove spiccano ovviamente Velázquez, Goya e Poussin) quanto, citando sempre Littell, a «autogén[érer] son iconographie, […], subvertissant ludiquement tout ce qu’il touche».[16]

Veniamo dunque a un esempio concreto di questo studio comparato degli enigmi. In Triptych - Three Studies for Figures at the Base of a Crucifixion del 1944, opera che Bacon sempre considerò inaugurale del suo percorso pittorico, appare, nel pannello centrale, una figura, posta al di sopra di un treppiedi non meglio identificato. Dopo averci assicurato quanto sia arduo definire la funzione e la reale esistenza di questo oggetto,[17] Littell intraprende la ricognizione delle occorrenze di quest’oggetto nei decenni successivi: esso infatti non apparirebbe più fino al 1988, quando Bacon riprende la sua opera inaugurale per offrirne una seconda versione decisamente più estetizzante, se è concesso il termine, oltre che imponente.[18] Se qui, dunque, il treppiedi non può che riapparire, ciò che è più interessante agli occhi di Littell è che a partire da quell’anno, quell’oggetto per lungo tempo scomparso dalle tele di Bacon, si ripresenta più volte fino alla morte del pittore. In particolare riappare nello Study for a Portrait del 1991, ritratto dell’amico Anthony Zych, che Littell definisce «un peintre mineur».[19] Vediamo come Littell ‘legge’ questa riapparizione dell’enigmatico treppiede:

Cette fois-ci, cependant, un petit objet blanc est posé sur le trépied, un bout de papier découpé avec une flèche dessus, qui ressemble à ces tickets qu’on prend à la poste ou chez le boucher quand on attend son tour. Comment l’interpréter? Cela dépendra à la fois de notre connaissance de la nature du rapport de Bacon avec Zych, et de l’idée que l’on s’est fait de son caractère. Si l’on est d’un tempérament généreux, on dira qu’il signifie à Zych: ‘Ton tour viendra aussi.’ Si l’on a une vision plutôt pessimiste de la nature humaine en général et de celle de Bacon en particulier, on pourra toutefois être tenté de lire: ‘Tu veux être peintre, l’ami? Fais la queue.’[20]
Francis Bacon, Study for a portrait, 1991

Questo passaggio invita, alla luce di tutto ciò che è stato detto, ad almeno due considerazioni: in primo luogo emerge evidente l’approccio a sua volta ludico di Littell nel trarre le proprie conclusioni, secondariamente risulta problematico stabilire quanto il taglio di questa lettura si attenga alle dichiarazioni d’intenti e ai propositi teorici precedentemente sfoderati dall’autore. Di fatto, pare proprio che l’interpretazione e la lettura per simboli (il treppiede che incarna la pittura), condannati in principio, riemergano alla prova pratica.

Senza voler stabilire se e quanto Littell sia coerente con se stesso, conviene piuttosto osservare come questa oscillazione sia per lo più dovuta, ancora una volta, al particolare registro stilistico del saggio in questione: come già osservato, l’amalgama senza soluzione di continuità fra saggio e reportage, si rivela assai porosa a molteplici innesti stilistici, tra cui - come in questo caso - un’ironia strutturata a più livelli e dunque variamente interpretabile.

Naturalmente, non mancano esempi ‘seri’ di questa lettura ‘retorica’ e ‘grammaticale’. Littell ricorda infatti che non sono solo gli oggetti a circolare da una tela all’altra, ma anche altri elementi, come i colori di fondo, i dispositivi che inquadrano le figure, fino ad arrivare a complessi sistemi di corrispondenze geometriche fra un quadro e l’altro. È ovviamente questo il caso dei trittici.

Già a Gilles Deleuze[21] non era sfuggito il ruolo assolutamente privilegiato che la forma del trittico riveste nell’opera di Bacon, individuandone giustamente l’archetipo nella tradizionale struttura mobile che, oltre a richiamare primariamente e inevitabilmente l’iconografia della crocifissione, permette - in linea di principio - il totale oscuramento dell’opera, una volta ripiegate le due ante su se stesse.

È inoltre risaputo che Bacon rifiutasse di dipingere dal vivo e che i suoi modelli, o in generale il suo repertorio di forme, derivassero in gran parte da riproduzioni fotografiche e ritagli più vari. Littell stesso tiene a ricordare che «Bacon travaillait près d’un mur recouvert de photographies de ses œuvres, et qu’il peignait souvent en série».[22] È verosimile che le riproduzioni delle sue stesse opere si configurassero, nello spazio del suo atelier, sullo stesso piano dell’immenso archivio di materia iconografica che Bacon raccoglieva e collezionava. Una di queste riproduzioni, rappresentante il già citato trittico ‘inaugurale’, è stata scelta da Jonathan Littell e dal suo editore Thomas Simonnet come immagine di copertina del saggio. Questa riproduzione, piuttosto sgualcita, non riproduce il trittico nella sua completezza, ma risulta monca del primo pannello, che sembrerebbe essere stato strappato.

Copertina di Triptyque rappresentante una riproduzione dei Tre Studi di Figure ai Piedi di una Crocifissione proveniente da un catalogo non meglio identificato, Dublin City Gallery The Hugh Lane

Reductio ad duo

A distanza di pochi mesi dalla pubblicazione di Triptyque appare nelle librerie francesi un altro volume del nostro autore. Une vieille histoire,[23] opera che - come si vedrà - sarebbe incauto definire un romanzo, si iscrive appunto nel secondo filone delle opere che Littell ha fatto seguire a Les Bienveillantes. Decisamente più narrativo, se non ostentatamente ‘letterario’, Une vieille histoire si aggiunge, nell’ordine, a Etudes,[24]Récit sur rien[25] e En pièces.[26] Pur imponendosi significativamente su questi per estensione (rispetto ai precedenti, che non superavano mai le sessanta pagine, quest’ultimo lavoro ne conta più del doppio), esso appare perfettamente in linea con la sotto-poetica che l’autore è andato definendo presso il suo secondo editore francese.[27]

Laddove una storia viene effettivamente narrata, allineando diversi episodi legati fra loro dal varcare, da parte del protagonista, misteriose porte e corridoi, il lettore, raggiunta la metà esatta del volume e la fine del primo capitolo, non può non notare una particolarità: il secondo capitolo racconta, nuovamente, la stessa storia. Il testo, ovviamente non identico, ripropone tuttavia alcune frasi, o espressioni, o azioni che - anche grazie alla loro significativa elaborazione stilistica - non possono passare inosservate.

È dunque il caso di leggere l’uno a fianco dell’altro due passaggi espunti dai due diversi capitoli del libro. Questo dispositivo, che sdoppia il romanzo in due parti e - inevitabilmente - invita il lettore a confrontarle, si palesa appunto nell’incipit del secondo capitolo.

Ecco dunque l’incipit del primo:

Ma tête creva la surface et ma bouche s’ouvrit pour happer l’air tandis que, dans un vacarme d’éclaboussures, mes mains trouvaient le bord, prenaient appui et, transférant la force de ma lancée aux épaules, hissaient mon corps ruisselant hors de l’eau. Je restai un instant en équilibre au bord, désorienté par les échos assourdis des cris et des bruits d’eau, étourdi par la vision fragmentée de parties de mon corps dans les grandes glaces encadrant le bassin. Autour de mes pieds une flaque allait en s’élargissant; un enfant fila devant moi, manquant de me faire partir à la renverse. Je me ressaisis, ôtai mon bonnet et mes lunettes, et, jetant un dernier regard par-dessus mon épaule à la ligne luisante de mes muscles dorsaux, sortis par les portes battantes.[28]

E il secondo:

J’enchaînai les longueurs sans les compter, heureux de la force de mes muscles et du contact fluide et visqueux de l’eau, marquant à peine la pause aux extrémités du bassin avant de me relancer avec une vigueur à chaque fois renouvelée. Enfin, plongé sous la surface, les yeux grands ouverts, j’achevai mon parcours. Ma tête creva la surface, mes deux mains trouvèrent le rebord, prirent leur appui, et, d’une traction, hissèrent mon corps ruisselant hors de l’eau. Désorienté par la lumière bleue et les sons, j’arrachai mon bonnet et mes lunettes, et restai là un instant, l’eau dégoulinant de mon corps pour former une flaque à mes pieds. Les clapotements de l’eau, les cris et les rires résonnaient autour de moi, les grandes glaces encadrant la piscine renvoyaient de toutes parts des fragments de mon corps, une épaule ici, une cuisse là, le flanc, le pectoral, la nuque, la longue courbe du dos.[29]

Com’è facile notare, sono a dire il vero più le differenze delle affinità. I passaggi ‘analoghi’ sono numerosi, anche solo nello spazio di qualche riga, tuttavia essi rimangono scrupolosamente nell’ordine di una corrispondenza, di un richiamo interno, tanto che - se sono reperibili molte azioni tutto sommato equivalenti - l’unico caso di perfetta identità testuale è costituito da quel «ma tête creva la surface»: com’è facile verificare è infatti al riapparire nel secondo capitolo della formula d’esordio del primo che la ripetizione si palesa. Il procedimento, operante grossomodo con le stesse modalità dell’incipit (rare locuzioni assolutamente identiche poste all’interno di periodi facenti riferimento alle stesse azioni radicalmente riscritti) è riproposto lungo tutta l’opera. Al tempo stesso, è possibile reperire un progressivo divergere delle due vicende: nel momento in cui, per esempio, la scena di un rapporto sessuale (di cui Une vieille histoire è particolarmente ricco) ha luogo nella stessa stanza, con le stesse condizioni climatiche, con - apparentemente - lo stesso stato d’animo dell’io narrante, le identità e gusti sessuali dei due partecipanti possono risultare, tra una versione e l’altra, ora più evidenti ora più ambigui, ora semplicemente capovolti. Dal punto di vista macroscopico è necessario sottolineare una vera e propria biforcazione delle due vicende che, pur mantenendo numerose ‘riapparizioni’ testuali, si differenziano sempre più, fino a sfociare in due analoghe conclusioni che vedono l’io narrante immergersi di nuovo nell’identica «eau claire et fraîche»[30] di una piscina.

La differenza più massiccia, il luogo dove i due récit si discostano in modo più significativo sono quindi gli ultimi due momenti della vicenda, quelli che in entrambi i casi precedono il finale. Lo sviluppo dei due racconti segue infatti la logica di una biforcazione progressiva: nel primo caso si assiste a un’elegante serata di gala che, in un primo momento, pare essere frequentata da sole donne - in realtà, si scoprirà, uomini da donne accuratamente travestiti. Il protagonista vi partecipa, conformandosi alle regole del gioco e preoccupato di risultare il più attraente possibile.[31] In seguito, aperta la porta successiva, si approda in un’abitazione isolata ma abbondantemente popolata, che delle truppe militari non meglio identificate prendono d’assalto facendo strage dei suoi abitanti, salvando solamente i bambini, che prendono con sé come schiavi. L’io narrante, inspiegabilmente (ai propri occhi) annoverato fra i bambini, riporta dunque il corso degli eventi fino a quando non incappa, nel campo militare, in una porta che lo conduce, come si diceva, in una piscina pubblica.

Il secondo capitolo, o seconda versione della vicenda, sostituisce alla serata di gala quella che sembra una casa per appuntamenti per soli uomini, nella quale l’io narrante vaga alla ricerca di qualcuno interessato ad avere rapporti con lui. A questo contesto, in cui i rapporti sessuali si fanno sempre più violenti, segue l’altrettanto violenta aggressione della piccola comunità, raccontata però da quello che sembra essere il più alto in grado del sempre ignoto manipolo militare.

Oltre a essere uno degli aspetti mutuati da Les Bienveillantes, questa tendenza all’evolvere violento del racconto è, come ha sottolineato Sonia Anton,[32] uno dei motivi ricorrenti della ‘linea Fata Morgana’ che si pone così in quella particolare relazione che lega la monumentale opera prima a questa costellazione di opere ‘seconde’. Ciò impone che ogni opera pubblicata successivamente allo spettacolare esordio si configuri, in qualche modo, come esercizio stilistico (ricordiamo che, nel caso di Etudes, è lo stesso paratesto a specificare il senso musicale e didattico del termine), o ancora come sviluppo di un particolare aspetto tematico, come glossa o divagazione teorica di una traccia regolarmente presente nelle Bienveillantes. È il caso inoltre di ricordare come quest’ultimo, il cui impianto riprende - almeno a grandi linee - quello dell’Orestiade di Eschilo, trovi l’ennesima eco in Triptyque, allorché Littell affronta il per così dire omologo trittico baconiano.[33]

Ciò non può che condurci, una volta sottolineate le particolarità strutturali di Une vieille histoire, a indagare il rapporto fra quest’ultimo e l’immediatamente precedente saggio su Bacon. Se, come si diceva, la lettura che Littell opera su Bacon ha origine nel momento in cui, riconosciuta la natura enigmatica della sua pittura, si comincia appunto a ‘confrontare gli enigmi’, può risultare fruttuoso confrontare gli enigmi che questi due lavori di Littell ci pongono, giacché è appunto quando due ‘enigmi’ si trovano affiancati che le tracce di una soluzione cominciano a emergere.

In primo luogo, è ancora il paratesto di Triptyque a imporsi all’attenzione: scegliendo un documento d’atelier[34] che rappresenta il primo e forse più celebre trittico baconiano, Littell (e il suo editore) aprono una pista. Questa pista diventa certo evidente soltanto qualche mese dopo, nel momento in cui viene edito Une vieille histoire, i cui due capitoli, forti del loro intrecciarsi tanto speculare quanto divergente, potrebbero essere letti come una trasposizione letteraria del trittico. La copertina di Triptyque, che come si è visto presenta il trittico del 1944 suggestivamente monco del primo pannello, diventa così un ulteriore indizio e il dettaglio che giustifica la riduzione a due soli elementi che ritroviamo nella struttura a ‘dittico’ di Une vieille histoire.

Come si è potuto intuire (si potrebbero addurre numerosi altri esempi) l’io narrante del primo capitolo tende decisamente all’ermafroditismo, tanto che spesso è necessario prestare molta attenzione alle flessioni di aggettivi e participi per capire se, nell’intervallo narrativo fra una porta e l’altra, si è di fronte a un uomo o a una donna. Il secondo capitolo, attraversato invece da un io narrante sempre inequivocabilmente maschile, appare, al netto dell’escalation violenta che caratterizza ciascuno dei due récit, in confronto al primo ancor più segnato dal sangue.

Ora l’analisi di Littell vede nel pannello di destra del trittico inaugurale del 1944 una figura maschile e «dominante»[35] forse anche in ragione dell’aggressività che traspare dalle fauci spalancate del ‘biomorfo’; d’altronde, la figura centrale[36] incarnerebbe un ermafrodito, secondo Littell uno dei soggetti che Bacon era solito chiamare in causa per mettere in scena se stesso. Infatti, riesumando il primo pannello del trittico, rimosso dall’operazione editoriale concertata con Thomas Simonnet, notiamo (ma è, di nuovo, lo stesso Littell a confermarle questa lettura) come il biomorfo vi appaia decisamente più femminile, avvolto com’è da un drappeggio nel quale è possibile intuire un abito da sera.

Il trittico rappresenterebbe dunque, tra le altre cose, il femminile da un lato e il maschile dall’altro, con al centro l’ermafrodito: amputando il primo pannello per la copertina di Triptyque Littell ci autorizza forse a leggere nei due capitoli di Une vieille histoire due ‘quadri di prosa’ che, come si è visto, sviluppano rispettivamente il tema dell’ambiguità sessuale e quello della dominazione.

Ciò invita dunque a inquadrare la lettura littelliana dell’opera di Bacon in una prospettiva che eccede la semplice analisi del linguaggio pittorico: in questo caso la peculiare interpretazione del genere dell’écrit sur l’art messa in atto dall’autore franco-americano cela in realtà a nostro avviso una dichiarazione di poetica.[37] Ibridando cioè – come si diceva – saggio e reportage, Littell sintetizza i due generi facendo dell’écrit sur l’art dedicato a un autore particolarmente amato un testo programmatico per la propria poetica, il che è del resto tutt’altro che estraneo alla lunga tradizione francese che vede lo scrittore o il poeta dissertare di pittura, basti pensare all’Introduction à la méthode de Léonard de Vinci di Paul Valéry.[38]

Stando alla classificazione dei procedimenti di ekphrasis recentemente stilata da Michele Cometa sarebbe questo un particolare caso di ekphrasis di «dispositivo»:[39] l’immagine non si limita a fare irruzione nel testo, ma ne determina, nei modi più diversi, la struttura, chiamando in causa appunto non solo l’immagine in sé ma anche il particolare contesto e il medium che ne permettono la fruizione (il museo, la galleria, il display, ma ancora l’atlante delle immagini, l’album, e così via).

In questo caso, il dispositivo è quindi il trittico amputato: basato sull’accostamento e sulla messa in relazione di almeno due immagini nella stessa opera, esso sottintende l’avvenuta scomparsa di una terza immagine, attivando la memoria iconografica dell’osservatore-lettore. La funzione del presente dispositivo è però rigorosamente poetico-formale, giacché in Une vieille histoire non è mai questione di descrivere opere d’arte, né immagini di altro genere: non vi si trova, insomma, alcun tipo di ekphrasis testuale. L’ekphrasis, se di questo si tratta, agisce dunque sulla linea che congiunge le due opere, ed è, a sua volta, un dispositivo generatore di poetica.

Ecco dunque come si potrebbe enunciare, sinteticamente, la mozione poetica che emerge dal confronto fra Triptyque e Une vieille histoire: posto che le immagini (di Francis Bacon) vanno lette come se fossero testo, cercando di reperirvi una grammatica e una retorica, è quindi possibile comporre un’opera letteraria trattando il linguaggio come se fosse immagine. Da qui, dunque, l’enigmaticità dei récit littelliani. Giacché il fine ultimo del «confronter les énigmes» di Bacon è nientemeno che afferrare il pensiero della pittura,[40] anche l’opera letteraria può approdare a un certo tipo di pensiero. Tuttavia, almeno in questo caso, questo pensiero non ha nulla a che vedere con l’assai più navigata rotta (rispetto alla pittura) che lega la letteratura alla filosofia. Non è questo il luogo per entrare in questioni di tale portata; altresì, se di pensiero si tratta, in questo movimento circolare che dall’immagine porta alla parola e dalla parola torna all’immagine, è piuttosto alla definizione dell’atlante delle immagini che Georges Didi-Huberman ha recentemente formulato che conviene rifarsi. A partire, com’è ovvio, dall’eredità teorica di Aby Warburg, quel procedimento basato sull’accostamento delle immagini più diverse e disparate è definito appunto «forme visuelle du savoir et forme savante du voir».[41] Se l’immagine può dunque essere depositaria di un sapere, e di un sapere a essa specifico, questo diviene particolarmente intellegibile allorché più immagini sono poste una accanto l’altra.

In Bacon, del resto, è proprio l’accostamento di più immagini a permettere di leggerne ‘enigmi’ e di vederne il lato ‘pensante’. Come se non bastasse, è possibile riconoscere il procedimento fondamentale soggiacente all’atlante nelle consuetudini compositive di Bacon stesso che, come ricorda Littell, apprestandosi a dipingere, era solito disporre sul muro di fronte svariati scatti, ritagli e riproduzioni «qu’il peignait souvent en série».

È nell’accostare le immagini, dunque, che si apre la possibilità di leggerne il pensiero, che altrimenti - almeno secondo Littell - pare destinato a rimanere incagliato nell’enigma. Così, nel momento in cui - capovolgendo la prospettiva tramite un’istanza di poetica - un autore traspone tutto ciò nella scrittura, diventa necessario esplorare le possibilità di un ‘accanto’ della prosa.

Il centro immaginario

Thomas l’Obscur è il titolo del primo e dell’ultimo romanzo di Maurice Blanchot. Il che, di per sé, non sarebbe particolarmente strano se Blanchot non fosse l’autore di altri due romanzi, Aminadab[42] e Le Très-Haut,[43] anch’essi attraversati dalla figura di Thomas. Vi sono due versioni di questa che risulta essere in assoluto l’opera prima di Blanchot, edita nel 1941,[44] e che al tempo stesso segna, nel 1950,[45] il suo definitivo abbandono della forma romanzo. Di nuovo, se si trattasse di una semplice riscrittura, giacché il ritornare sui propri passi non è certo appannaggio del solo Blanchot, vi sarebbe ancora, ai nostri occhi, poco da segnalare.

Tuttavia, pubblicando la nuova versione, Blanchot sceglie di farla precedere da una nota breve ma teoricamente densa, che non ha mancato di interessare (e, come si vedrà, d’influenzare) tanto i posteri quanto i contemporanei.

Il y a, pour toute œuvre, une infinité de variantes possibles. Aux pages intitulées Thomas l’Obscur, écrites à partir de 1932, remises à l’éditeur en mai 1940, publiées en 1941, la présente version n’ajoute rien, mais comme elle leur ôte beaucoup, on peut la dire autre et même toute nouvelle, mais aussi toute pareille, si, entre la figure et ce qui en est ou s’en croit le centre, l’on a raison de ne pas distinguer, chaque fois que la figure complète n’exprime elle-même que la recherche d’un centre imaginaire.[46]

Ancora una volta non è questa la sede per analizzare le differenze e varianti fra le due versioni di Thomas;[47] è invece possibile desumere alcune delle ragioni che hanno portato a questa riscrittura e, anche alla luce di questa breve nota introduttiva, capire in che contesto teorico quest’opera dalla doppia identità si situi. Come afferma lo stesso Blanchot, infatti, la nuova versione non aggiunge nulla alla precedente, ma al contrario vi sottrae molto: a prima vista, nulla di più vero, visto che l’estensione della nuova versione è ridotta a circa un terzo della prima. Questa seconda versione, che a partire dal 1950 ha, di fatto, sostituito la precedente, non può però a sua volta dirsi definitiva: progettando l’edizione delle proprie opere complete nella Bibliothèque de la Pléiade Blanchot pensò infatti di includere entrambe le versioni. Ne consegue quindi, stando almeno alle ultime volontà dell’autore, una sostanziale equivalenza delle due versioni, che sarebbe da ascrivere appunto a due diverse manifestazioni di quell’«infinité de variantes possibles» che è per Blanchot propria di ogni opera letteraria.

Questa equivalenza delle due versioni, irriducibili a un’unità e dimoranti nella stessa identità, è possibile grazie alla nozione di «centro dell’opera», introdotta da Blanchot in occasione della seconda versione di Thomas l’Obscur e ugualmente presente in altri scritti coevi e successivi. Sciogliendo ulteriormente la metafora dell’opera come figura geometrica, si deve riconoscere tuttavia che l’esistenza e lo statuto di questo centro sono quanto meno problematici: innanzitutto il centro della figura (o dell’opera) può essere reale o presunto («ce qui en est ou s’en croit le centre»), ma ciò non sembra essere rilevante. La condizione per la quale è possibile non distinguere l’opera dal suo centro è che questa non esprima nient’altro che la ricerca di un centro, a sua volta, immaginario. Per capire in cosa consista questo centro immaginario dell’opera è utile dunque rifarsi a un’altra piccola nota introduttiva, questa volta appartenente a un testo teorico di poco successivo alla riscrittura di Thomas l’Obscur, L’espace littéraire:

Un livre, même fragmentaire, a un centre qui l’attire: centre non pas fixe, mais qui se déplace par la pression du livre et les circonstances de sa composition. Centre fixe aussi, qui se déplace, s’il est véritable, en restant le même et en devenant toujours plus central, plus dérobé, plus incertain et plus impérieux. Celui qui écrit le livre l’écrit par désir, par ignorance de ce centre. Le sentiment de l’avoir touché peut bien n’être que l’illusion de l’avoir atteint; quand il s’agit d’un livre d’éclaircissements, il y a une sorte de loyauté méthodique à dire vers quel point il semble que le livre se dirige; ici, vers les pages intitulées Le regard d’Orphée.[48]

Il centro è dunque, o almeno può essere, semplicemente un luogo testuale, un capitolo, alcune pagine. Resta da definire chi o che cosa sia quell’osservatore che, di fronte alla figura, ha ragione di non distinguere fra questa e il suo centro: il contenuto di quelle pagine centrali de L’espace littéraire che sviluppano la rilettura blanchottiana del mito di Orfeo.[49] Lo sguardo proibito è qui quello dello scrittore, che si volta a osservare la propria opera passata, congedata, presso la quale - come recita il Blanchot ‘da manuale’ - chiunque può trovare dimora (la comunità infinita dei lettori virtuali) tranne egli stesso,[50] l’autore.

Non potendo Blanchot riscrivere il suo primo romanzo senza rileggerlo, questi si sarebbe macchiato, come Orfeo tendendo l’occhio verso Euridice, dell’infrazione a questo noli me legere; infrazione che, come suggerisce Marco Della Greca,[51] diviene per Blanchot mito fondatore delle opere successive.

Negli anni immediatamente successivi alla riscrittura di Thomas Blanchot va quindi sviluppando alcune delle sue tesi più celebri. Nel 1953, in particolare, pubblica sulla «Nouvelle Revue Française» un breve testo dal titolo decisamente eloquente, Lire.[52] Nel 2009, in occasione di un numero celebrativo del proprio centenario, la storica rivista francese ha riedito una scelta di testi degli autori più rappresentativi del secolo trascorso, domandando ad altrettanti autori contemporanei di affiancarvi una «réponse à l’aîné». La risposta all’articolo di Blanchot è intitolata Lire?[53] ed è firmata Jonathan Littell. In questo piccolo testo l’autore franco-americano, commentando e parafrasando ampiamente i propositi del proprio «aîné», ripete ancora una volta che ciò che Blanchot condanna con decisione non è soltanto l’autore ma anche «le mirage, si têtu pourtant, d’une ‘communication’ entre l’écrivain et le lecteur».[54] Come già accennato, questo breve contributo non è l’unico indizio di una significativa influenza di Blanchot sull’opera di Jonathan Littell.[55] Per quanto ci riguarda, conviene attenersi al piano formale e a quello delle corrispondenze, dei richiami interni e dei motivi ricorrenti che possono legare, in questo caso, i due Thomas l’Obscur a Une vieille histoire.

Si è avuto modo di osservare come il romanzo di Littell abbia una struttura, per così dire, doppiamente circolare, con un esordio che vede l’io narrante uscire da una piscina e, aperte molte porte e vissute varie situazioni più o meno paradossali, infine rientrarvi. Ora l’incipit di Thomas l’Obscur («Thomas s’assit et regarda la mer»), identico in entrambe le versioni, è prologo all’immergersi del protagonista nelle stesse acque che di entrambe le versioni segneranno la conclusione. Tuttavia, a parte il fatto che al mare verrebbe sostituita una moderna piscina, la corrispondenza risulterebbe quantomeno imperfetta: se in Thomas l’Obscur il protagonista s’immerge in acqua tanto nelle prime quanto nelle ultime righe del romanzo, i due capitoli di Une vieille histoire sono incorniciati, ciascuno, da un uscire dall’acqua all’esordio e da un rientrarvi sul finire. Così Jean Starobinski descrive, in un testo del 1966, il funzionamento del dispositivo romanzesco che regge Thomas l’Obscur:

Thomas abbandona la riva dell’oceano, si allontana a nuoto, attraversa una serie di metamorfosi e fa ritorno ad un altro punto della riva. È ancora una volta sul bordo dell’oceano che il racconto trova la sua conclusione. Il romanzo, nel suo percorso completo, è l’immagine amplificata di un circuito disegnato nel primo capitolo. Il primo anello, il cui punto di arrivo coincide quasi con il punto di partenza, è il modello di un anello più grande, al tempo stesso analogo e differente, che si richiude a sua volta riguadagnando quasi lo stesso punto.[56]

Prendendo come chiave della propria interpretazione dell’opera prima di Blanchot il primo capitolo, Starobinski teorizza dunque una ‘struttura ad anelli’ che ritroviamo riprodotta e moltiplicata nei due capitoli di Une vieille histoire.

È ancora una volta uno dei contributi critici più autorevoli sull’opera narrativa di Blanchot a mostrare la stretta parentela di questa (e in particolare di Thomas) con quest’ultimo lavoro di Jonathan Littell:

La finzione consiste dunque non a far vedere l’invisibile, ma a far vedere quanto è invisibile l’invisibilità del visibile. Da qui la sua profonda parentela con lo spazio che, disteso in tal modo, è rispetto alla finzione ciò che il negativo è alla riflessione (mentre la negazione dialettica è legata alla favola del tempo). Tale è senza dubbio il ruolo che interpretano, in quasi tutte le narrazioni di Blanchot, le case, i corridoi, le porte e le camere: luoghi senza luogo, soglie che attirano, spazi chiusi, difesi e tuttavia aperti a tutti i venti, corridoi sui quali sbattono porte che si aprono su camere per incontri insopportabili, separandoli con abissi al di sopra dei quali le voci non arrivano e le stesse grida si assordano; corridoi che si ripiegano su nuovi corridoi dove la notte echeggiano, al di là di qualsiasi sonno, la voce soffocata di coloro che parlano […]; camera più lunga che larga, stretta come un tunnel, dove la distanza e la vicinanza […] si avvicinano l’una all’altra e indefinitamente si allontanano.[57]

Questo passaggio de La pensée du dehors in cui Michel Foucault commenta e riassume sinteticamente la funzione degli spazi fisici in Thomas l’Obscur compendia e rende evidenti le soluzioni narrative oltre a molti dei temi che percorrono e strutturano entrambi i capitoli di Une vieille histoire. Del resto, il paragrafo da cui questo passaggio è espunto è dedicato al rapporto che lega, in Blanchot, la «réflexion» alla «fiction», e il punto d’incontro fra le due dimensioni, si rivelano essere secondo Foucault appunto «les images»:

Una conversione simmetrica è richiesta al linguaggio della finzione. Questa non deve più essere il potere che incessantemente produce e fa brillare le immagini, ma la potenza che al contrario le denuda, le alleggerisce di ogni carica ulteriore, le abita per mezzo di una trasparenza interiore che poco a poco le illumina fino a farle esplodere e le eguaglia nella leggerezza dell’inimmaginabile. Le finzioni in Blanchot saranno dunque, più che delle immagini, la trasformazione, lo spostamento, l’intermediario neutro, l’interstizio delle immagini.[58]

Lo spazio della narrazione blanchottiana sorge quindi, secondo Foucault, da un capovolgimento nell’approccio all’immagine, ‘alle’ immagini. Sarebbe persino possibile congetturare un riferimento diretto di Littell a queste considerazioni de La pensée du dehors, giacché come si è visto l’autore franco-americano si sforza di dare a questo «interstizio delle immagini» una nuova incarnazione letteraria, forse ancor più teoricamente evidente. Ciò diventa possibile, beninteso, grazie alla mediazione di Bacon e soprattutto dell’analisi, più poetica che artistica, che Littell sviluppa su quest’ultimo.

È allora possibile, come nel caso di Bacon, verificare in ultima istanza la corrispondenza fra il più importante romanzo di Blanchot e questo recente scritto di Jonathan Littell sotto l’aspetto formale: è evidente che non si tratta della stessa operazione, giacché sarebbe assurdo credere che Blanchot, scrivendo per la prima volta Thomas l’Obscur già pensasse di riscriverlo quasi dieci anni dopo. Se un rapporto, tanto strutturale quanto poetico, lega Une vieille histoire al primo e doppio romanzo di Blanchot, si tratta di un’influenza che porta a riprodurre, sintetizzato, un processo che per Littell segna un nodo cruciale dell’opera di quello che è senza dubbio uno dei suoi principali autori di riferimento. Le strade che hanno portato Blanchot a riscrivere Thomas, e come si è visto a farne il mito fondatore della propria poetica e della propria eredità teorica, si concentrano in Littell in un’opera che, lasciandosi attraversare al tempo stesso da un altro maestro (Francis Bacon), compendia entrambi i lasciti, dando luogo a questo sofisticato esercizio di forma letteraria. Opera che in altri tempi non si sarebbe esitato a classificare come sperimentale (e che lo stesso autore si è permesso di definire, non senza civetteria, «un petit truc»),[59]Une vieille histoire è la terra emersa di una perlustrazione che Jonathan Littell conduce nientemeno che sulle forme possibili e sullo statuto della parola letteraria. In tale contesto, come si è visto, un posto privilegiato hanno Francis Bacon e le sue immagini ‘retoriche’ e, senza dubbio, Maurice Blanchot e le sue teorie.

Non è del resto escluso che sia possibile trovare, nei due maestri, degli aspetti in comune, o piuttosto una traccia che permetta all’allievo di concentrare i rispettivi lasciti nella propria opera:

L’obsession qui le lie [l’écrivain] à un thème privilégié, qui l’oblige à redire ce qu’il a déjà dit, parfois avec la puissance d’un talent enrichi, mais parfois avec la prolixité d’une redite extraordinairement appauvrissante, avec toujours moins de force, avec toujours plus de monotonie, illustre cette nécessité où il est apparemment de revenir au même point, de repasser par les mêmes voies, de préserver en recommençant ce qui pour lui ne commence jamais, d’appartenir à l’ombre des événements, non à leur réalité, à l’image, non à l’objet, à ce qui fait que les mots eux-mêmes peuvent devenir images, apparences - et non pas signes, valeurs, pouvoirs de vérité.[60]

1 J. Littell, Les Bienveillantes, Paris, Gallimard, 2006.

2Id., Le sec et l’humide, Paris, L’arbalète/Gallimard, 2008.

3 Id., Triptyque. Trois études sur Francis Bacon, tradotto dall’inglese dall’autore, Paris, L’Arbalète/Gallimard, 2011.

4Cfr. ivi, p. 137: «Bien que ces trois essais aient été rédigés en anglais, cette édition française en constitue l’édition originale».

5 Cfr. ivi, p. 125.

6 S. Anton, Les variations Littell, «Acta Fabula», Notes de lecture, URL: http://www.fabula.org/revue/document6712.php.

7 È bene specificare che il testo è sistematicamente privo di note.

8 J. Littell, Triptyque, cit., pp. 51-52.

9 Ibidem.

10 Ibidem.

11 Ibidem.

12 Ibidem.

13 Ivi, p. 55.

14 H. Belting, Bild-Anthropologie: Entwürfe für eine Bildwissenschaft, München, Wilhelm Fink, 2001.

15 J. Littell, Triptyque, cit., p. 60.

16 Ivi, p. 61.

17 Cfr. ivi, pp. 62-63. L’autore conclude ciononostante che, quale che sia la sua funzione precisa, il treppiedi deve alludere a un oggetto propedeutico alla produzione di immagini, che si tratti di pittura, fotografia o cinema.

18 Littell stesso descrive l’operazione del rifacimento del primo trittico paragonandolo all’analoga operazione compiuta da Glenn Gould registrando una seconda volta nel 1981 le sue Goldberg’s Variations del ’55. Cfr. ivi, p. 60.

19 Ivi, p. 63.

20 Ivi, pp. 63-64.

21 Cfr. G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione [1981], Macerata, Quodlibet, 1995, pp. 137-138; è degno di nota il fatto che la lettura deleuziana della ‘forma trittico’ in Bacon si basi su di un principio ritmico, quindi sempre applicando alla pittura una categoria estranea al suo linguaggio.

22 J. Littell, Triptyque, cit., p. 64.

23 Id., Une vieille histoire, Montpellier, Fata Morgana, 2012.

24 Id., Études, Montpellier, Fata Morgana, 2008.

25 Id., Récit sur rien, Montpellier, Fata Morgana, 2009.

26 Id., En pièces, Montpellier, Fata Morgana, 2010.

27 Un’analisi approfondita e comparata di queste opere, così come del loro rapporto con quelle edite altrove, esula ovviamente dalle finalità di questo scritto. Littell stesso peraltro, nonostante la sua reticenza a esprimersi riguardo al proprio lavoro, ha surrettiziamente confermato lo statuto ‘a parte’ dei suoi volumi editi da Fata Morgana (cfr. J. Littell, La situation à Homs était ultraviolente, intervista concessa a Emmanuel Hecht, http://www.lexpress.fr/culture/livre/jonathan-littell-la-situation-a-homs-etait-ultraviolente_1128472.html: «Personne ou presque ne parle des livres que je publie chez Fata Morgana»). Per ulteriori ragguagli rispetto al ‘filone Fata Morgana’ cfr S. Anton, L’art de l’énigme chez Jonathan Littell, http://www.leoscheer.com/la-revue-litteraire/2009/12/16/25-rl-42-jonathan-littell

28 J. Littell, Une vieille histoire, cit., pp. 7-8.

29 Ivi, pp. 67-68.

30 Ivi, pp. 65 e 123.

31 Cfr. ivi, p. 39: «Je ne serai peut-être pas la plus belle de la soirée […] mais mon cul en fera bander plus d’une».

32 Cfr. S. Anton, L’art de l’énigme chez Jonathan Littell, cit.

33 A questo proposito cfr. W. Troubetzkoy, ‘Frères humains…’: Les Bienveillantes, une histoire de familles, in M.L. Clement (a cura di), Les Bienveillantes de Jonathan Littell, Cambridge, Open Books Publishers, 2010, pp. 19-30 e, per il trittico ispirato all’Orestiade, J. Littell, Triptyque, cit., pp. 64-65.

34 Conservato alla Dublin City Gallery The Hugh Lane, si tratta probabilmente della pagina di un catalogo non meglio identificato.

35 J. Littell, Triptyque, cit., p. 12.

36 Cfr. ivi, p. 60.

37 Ipotesi peraltro già avanzata da Sonia Anton, che tuttavia insiste prevalentemente sulle affinità tematiche fra l’opera di Bacon e quella di Littell. Cfr. S. Anton, Les variations Littell, cit.

38 P. Valéry, Introduction à la méthode de Léonard de Vinci, in Œuvres, I, édition établie et annotée par J. Hytier, Paris, Gallimard (Bibliothèque de la Pléiade), 1957.

39 M. Cometa, La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2012, pp. 71-72.

40 Cfr. J. Littell, Triptyque, cit., p. 60: «Et, surtout, mieux vaut ne jamais demander: ‘Qu’est-ce que Bacon voulait dire ici?’, car il ne le savait sans doute pas lui-même, mais plutôt: ‘Qu’est-ce que ce tableau, ici, nous dit?’ Prenez le temps de vraiment regarder ses toiles, seul dans une galerie ou au milieu d’une foule collée aux audiophones, ou bien même assis devant les reproductions d’un catalogue ou d’un écran d’ordinateur; regardez-les longtemps, en passant et repassant de l’une à l’autre, patiemment: petit à petit, vous commencerez à voir comment la peinture pense».

41 G. Didi-Huberman, Atlas ou le gai savoir inquiet, Paris, Editions de Minuit, 2011, p. 12.

42 M. Blanchot, Aminadab, Paris, Gallimard, 1942.

43 Id., Le Très-Haut, Paris, Gallimard, 1948.

44 Id., Thomas l’Obscur, Paris, Gallimard, 1941, ora Thomas l’Obscur. Première version, 1941, Paris, Gallimard, 2005.

45 Id., Thomas l’Obscur, Paris, Gallimard, 1950, ora Thomas l’Obscur. Nouvelle version, Paris, Gallimard, 1992, pubblicato nella collana L’Imaginaire.

46 Id., Thomas l’Obscur (1950), cit., p. 7.

47 A questo proposito rimandiamo a M. Della Greca, Il centro immaginario di Thomas l’Obscur, «Mnemosyne», 7, febbraio 2010, http://mnemosyne.humnet.unipi.it/index.php?id=1017.

48 M. Blanchot, L’espace littéraire, Paris, Gallimard, 1955, p. 9.

49 Cfr. ivi, pp. 225-232.

50 Cfr. ivi, p. 17: «L’écrivain ne peut pas séjourner auprès de l’œuvre: il ne peut que l’écrire, il peut, lorsqu’elle est écrite seulement en discerner l’approche dans l’abrupt Noli me legere qui l’éloigne de lui-même».

51 Cfr. M. Della Greca, Il centro immaginario di Thomas l’Obscur, cit.

52 M. Blanchot, Lire, «La Nouvelle Revue Française», n. 5, mai 1953, pp. 80-87, ora in L’espace littéraire, cit., pp. 251-262.

53 J. Littell, Lire?, «La Nouvelle Revue Française», n. 588, février 2009, pp. 299-303.

54 Ivi, p. 302.

55 Blanchot è peraltro tra i pochi autori contemporanei letti da Maximilien Aue, l’ufficiale delle SS protagonista di Les Bienveillantes. Cfr. Id., Les Bienveillantes, cit., pp. 460-461.

56 J. Starobinski, Thomas l’Obscur, chapitre premier, «Critique», 229, juin 1966, p. 498.

57 M. Foucault, La pensée du dehors, «Critique», 229, juin 1966, p. 529.

58 Ibidem.

59 J. Littell, La situation à Homs était ultraviolente, cit.

60 M. Blanchot, La solitude essentielle, «La Nouvelle Revue Française», 1, janvier 1953, ora in Id., L’espace littéraire, cit., p. 18.