Jonathan Littell’s latest works are closely linked with each other with respect to both form and content. Triptyque. Trois études sur Francis Bacon is an essay about the work of the Dublin-born painter; Une vieille histoire is an unconventional novel in which the same story is told twice by using almost the same plot and means in order to create something new. In Triptyque Littell looks for the «grammar of Francis Bacon’s paintings», by focusing mainly on the codes and uses of the triptych form. Triptyque’s cover shows one of the documents found in Francis Bacon’s workshop, considered to be one of his first triptych draft, called Three studies for figures at the base of a crucifixion. This document embodies a poetical device that Jonathan Littell put in the background of his narrative piece. Une vieille histoire reproduces the concept structure of two figures connected with each other by meticulous correspondences and mises en abyme. By exploring this poetical link between Triptyque and Une vieille histoire, the author will also deal with Maurice Blanchot’s first novel, Thomas l’Obscur. Rewritten after nine years and greatly reduced in its length, this one-in-two book could be a relevant reference for Jonathan Littell works.

La grammatica di Francis Bacon e l’enigmatico treppiede

Leggere le opere di Jonathan Littell inquadrandole nel campo editoriale francese contemporaneo può rilevarsi particolarmente istruttivo. Dopo lo straordinario successo ottenuto nel 2006 con Les Bienveillantes[1] sono apparsi numerosi piccoli volumi, molto diversi fra loro per contenuti e impostazione e lontanissimi dal grande affresco narrativo sul nazismo. È tuttavia possibile tracciare alcune linee che l’autore è andato sviluppando negli anni immediatamente successivi al suo imponente esordio letterario. Da un lato troviamo una forma ibrida fra il saggio e il reportage, sulle cui specificità occorrerà ritornare, e dall’altro una sorta di puro récit, con predilezione per forme brevi e un registro stilistico decisamente più ricercato. Ciascuna di queste due linee, che sono appunto a pieno titolo due registri di scrittura, può dirsi il risultato di una biforcazione di ciò che Les Bienveillantes sintetizzano nel grande progetto romanzesco: divulgazione di una ricerca approfondita e schietta narrazione.

Ora questi due filoni corrispondono alle due principali dimore editoriali dell’autore franco-americano: i saggi, tra i quali si annovera un’analisi del caso Léon Degrelle (Le sec et l’humide),[2] sono editi da L’Arbalète, leggendaria piccola casa editrice francese della prima metà del secolo scorso, recentemente trasformata da Gallimard in una collezione diretta da Thomas Simonnet (il cui ruolo, come si vedrà, non è da trascurare); i testi più marcatamente narrativi, al contrario, sono editi, spesso in edizioni a tiratura limitata, da Fata Morgana, raffinata casa con sede a Montpellier.

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The Holocaust has often been conceptualized in terms of «negative sublime» (J.F. Lyotard), as an event that defies representation because of the overwhelming magnitude of its horror. This negative sublime has been experienced in radically different ways (and on a totally incomparable ethical ground) by the victims and the perpetrators, sparking different aesthetic responses in postwar art and popular culture. For the victims, the sublime experience has mostly been translated into a non-figurative aesthetics derived from avant-garde/modernist art and inspired from the tradition of Jewish aniconism. Nevertheless, two examples analysed in this essay – a sequence from the film La vita è bella by Roberto Benigni (1997) and some paintings by Slovenian artist and former Dachau prisoner Zoran Music from the cycle We Are Not the Last (1970-1976) – show that Holocaust art has occasionally chosen a figurative aesthetics, resorting to the iconography of Romantic sublime as displayed in the landscapes of German painter Caspar David Friedrich. From the point of view of the perpetrators, on the other hand, the negative sublime of the Holocaust has been experienced in terms of Rausch (elation, euphoria for the grandiosity of the crime), engendering in postwar art (especially since the late Seventies) an aesthetics that historian Saul Friedlander has described as «kitsch of death». Some pages from Jonathan Littell’s controversial novel Les Bienviellentes (2006) and a sequence from the film Schindler’s List (Steven Spielberg, 1993) show, respectively, the latest reflection of the Nazi-sublime and the final deconstruction of its appeal.

1. Rappresentabile o irrappresentabile: attorno al grande dilemma e ai suoi corollari ruota instancabilmente, da qualche decennio, una gran parte dei discorsi sulla Shoah e la cultura visuale. La riflessione accademica, la retorica commemorativa ufficiale, il dibattito pubblico e la divulgazione giornalistica sembrano non poter fare a meno di questa nozione elusiva, una chimera teorica che accorpa interdetti religiosi, princìpi di estetica filosofica, rivendicazioni artistiche, fantasmi psicoanalitici, tenebre mistiche, precetti morali, speculazioni epistemologiche e più modeste preoccupazioni di buon gusto, coprendo un’area che va «dal divieto mosaico della rappresentazione alla Shoah, passando per il sublime kantiano, la scena primaria freudiana, il Grand Verre di Duchamp o il Quadrato bianco su fondo bianco di Malevic».[1] Di questa nebulosa semantica, o se più piace di questa catena di somiglianze di famiglia, non agganceremo che un anello, quello del sublime. In che modo il sublime è connesso alla Shoah e alla sua rappresentazione? La pagina più nota e commentata, al riguardo, è il paragrafo di Le Différend dove Jean-François Lyotard paragonava la Shoah a un terremoto così potente da distruggere con sé gli strumenti di misurazione, e introduceva, rimeditando l’estetica di Immanuel Kant, l’idea di un ‘sublime negativo’ connesso a questo sisma di magnitudine incommensurabile.[2]

Filosofi, storici, teorici della letteratura e studiosi di varia estrazione, nell’ambito degli Holocaust Studies americani e ancor più nel contesto francese, si sono cimentati con i temi dell’irrappresentabile e del sublime, tanto da indurre a chiedersi se e quanto questa ricchissima elaborazione teorica possa aver inciso sulla produzione artistica e sulle rappresentazioni popolari della Shoah.[3] Lo storico Peter Novick invitava a non esagerarne l’impatto. Con piglio ironico, parlò di «una letteratura molto accademica, scritta da e per accademici, quasi sempre pubblicata su riviste accademiche, spesso invasa dai gerghi, o scritta presupponendo che il lettore abbia familiarità con le teorie accademiche correnti».[4] Al di là del suo valore, in che misura questa letteratura ha pesato sui modi di rappresentare la Shoah? Probably not much, era la risposta lapidaria di Novick. Una risposta che però corre il rischio di sottovalutare, da un lato, le sempre più vistose ricadute extra-accademiche del dibattito intorno ai limiti della rappresentazione, e dall’altro, i modi in cui il cinema, l’arte, la letteratura e in senso lato la cultura popolare hanno elaborato quegli stessi dilemmi filosofici, etici ed estetici con i propri strumenti espressivi. Sono alcuni dei temi al centro del nostro saggio; ma non potremo affrontarli senza aver tracciato una linea divisoria preliminare, che è etica prima e più che metodologica.

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