La Shoah e l’immagine del sublime. Carnefici, vittime, spettatori

di

     

The Holocaust has often been conceptualized in terms of «negative sublime» (J.F. Lyotard), as an event that defies representation because of the overwhelming magnitude of its horror. This negative sublime has been experienced in radically different ways (and on a totally incomparable ethical ground) by the victims and the perpetrators, sparking different aesthetic responses in postwar art and popular culture. For the victims, the sublime experience has mostly been translated into a non-figurative aesthetics derived from avant-garde/modernist art and inspired from the tradition of Jewish aniconism. Nevertheless, two examples analysed in this essay – a sequence from the film La vita è bella by Roberto Benigni (1997) and some paintings by Slovenian artist and former Dachau prisoner Zoran Music from the cycle We Are Not the Last (1970-1976) – show that Holocaust art has occasionally chosen a figurative aesthetics, resorting to the iconography of Romantic sublime as displayed in the landscapes of German painter Caspar David Friedrich. From the point of view of the perpetrators, on the other hand, the negative sublime of the Holocaust has been experienced in terms of Rausch (elation, euphoria for the grandiosity of the crime), engendering in postwar art (especially since the late Seventies) an aesthetics that historian Saul Friedlander has described as «kitsch of death». Some pages from Jonathan Littell’s controversial novel Les Bienviellentes (2006) and a sequence from the film Schindler’s List (Steven Spielberg, 1993) show, respectively, the latest reflection of the Nazi-sublime and the final deconstruction of its appeal.

1. Rappresentabile o irrappresentabile: attorno al grande dilemma e ai suoi corollari ruota instancabilmente, da qualche decennio, una gran parte dei discorsi sulla Shoah e la cultura visuale. La riflessione accademica, la retorica commemorativa ufficiale, il dibattito pubblico e la divulgazione giornalistica sembrano non poter fare a meno di questa nozione elusiva, una chimera teorica che accorpa interdetti religiosi, princìpi di estetica filosofica, rivendicazioni artistiche, fantasmi psicoanalitici, tenebre mistiche, precetti morali, speculazioni epistemologiche e più modeste preoccupazioni di buon gusto, coprendo un’area che va «dal divieto mosaico della rappresentazione alla Shoah, passando per il sublime kantiano, la scena primaria freudiana, il Grand Verre di Duchamp o il Quadrato bianco su fondo bianco di Malevic».[1] Di questa nebulosa semantica, o se più piace di questa catena di somiglianze di famiglia, non agganceremo che un anello, quello del sublime. In che modo il sublime è connesso alla Shoah e alla sua rappresentazione? La pagina più nota e commentata, al riguardo, è il paragrafo di Le Différend dove Jean-François Lyotard paragonava la Shoah a un terremoto così potente da distruggere con sé gli strumenti di misurazione, e introduceva, rimeditando l’estetica di Immanuel Kant, l’idea di un ‘sublime negativo’ connesso a questo sisma di magnitudine incommensurabile.[2]

Filosofi, storici, teorici della letteratura e studiosi di varia estrazione, nell’ambito degli Holocaust Studies americani e ancor più nel contesto francese, si sono cimentati con i temi dell’irrappresentabile e del sublime, tanto da indurre a chiedersi se e quanto questa ricchissima elaborazione teorica possa aver inciso sulla produzione artistica e sulle rappresentazioni popolari della Shoah.[3] Lo storico Peter Novick invitava a non esagerarne l’impatto. Con piglio ironico, parlò di «una letteratura molto accademica, scritta da e per accademici, quasi sempre pubblicata su riviste accademiche, spesso invasa dai gerghi, o scritta presupponendo che il lettore abbia familiarità con le teorie accademiche correnti».[4] Al di là del suo valore, in che misura questa letteratura ha pesato sui modi di rappresentare la Shoah? Probably not much, era la risposta lapidaria di Novick. Una risposta che però corre il rischio di sottovalutare, da un lato, le sempre più vistose ricadute extra-accademiche del dibattito intorno ai limiti della rappresentazione, e dall’altro, i modi in cui il cinema, l’arte, la letteratura e in senso lato la cultura popolare hanno elaborato quegli stessi dilemmi filosofici, etici ed estetici con i propri strumenti espressivi. Sono alcuni dei temi al centro del nostro saggio; ma non potremo affrontarli senza aver tracciato una linea divisoria preliminare, che è etica prima e più che metodologica.

Così come si è distinto, nell’ambito dei cosiddetti trauma studies, il trauma inferto alle vittime della Shoah (o ai loro eredi nella seconda e terza generazione) dal cosiddetto perpetrator trauma indotto in alcuni carnefici dall’intollerabilità delle violenze praticate; così come si sono distinti il silenzio e l’afasia in cui piombarono molti sopravvissuti dopo la liberazione dalla Sprachlosigkeit densa di colpa e di vergogna che colpì nel dopoguerra parte della società tedesca; allo stesso modo è doveroso affrontare la nozione di un sublime negativo della Shoah dal punto di vista delle vittime e dal punto di vista dei carnefici, separatamente. Tenere distinti i due versanti è tanto più necessario quando si considera che le diverse posizioni storico-morali rispetto alla catastrofe hanno generato o ispirato estetiche del tutto differenti. Se il sublime delle vittime è legato al senso di annichilimento e impotenza a cospetto di un male inimmaginabile che sembra intimare il silenzio, il sublime dei carnefici è un senso di tripudio e di esaltazione per l’enormità del crimine commesso, e alla via del silenzio preferisce la teatralità verbosa, il furor teutonicus e il kitsch apocalittico.

2. Sebbene la parola ‘sublime’ non vi compaia, questa pagina di Vladimir Jankélévitch sul «grandioso massacro» nazista offre il viatico ideale per avvicinarsi al sublime negativo della Shoah dal punto di vista storico-esistenziale di quanti ne hanno patito le conseguenze, prossime e remote:

Le invenzioni inedite della crudeltà, gli abissi della perversità più diabolica, i raffinamenti inimmaginabili dell’odio, tutto ciò ci lascia muti, e prima ancora confonde la mente. Non si finisce mai di approfondire questo mistero della malvagità gratuita.
Propriamente parlando, il grandioso massacro non è un crimine su scala umana; non più delle grandezze astronomiche e degli anni luce.[5]

Ecco convocati in poche righe gli elementi di un’esperienza che ricade tipicamente nella sfera del sublime – se vogliamo, una varietà del mathematisch Erhabene di Kant, il ‘sublime matematico’ suscitato dalla dismisura dell’infinitamente grande, senza però, in questo caso, alcuna elevazione morale. C’è dunque nel genocidio ebraico una sproporzione, un eccesso, che lascia ammutoliti come l’infinità delle galassie, e al cui cospetto ogni risorsa del linguaggio umano sembra esaurirsi e disseccarsi, già che il sublime – la provincia dell’estetica più vicina alla mistica – ha un legame profondo con l’ineffabile. Non torneremo, in queste brevi note, sulla questione dell’indicibilità dello sterminio, attorno alla quale esiste ormai una ricchissima letteratura.[6] Ci basterà dire che questo colpo quasi mortale inferto alla capacità umana di espressione ha suscitato una grande varietà di risposte nelle diverse arti e, soprattutto, ha intaccato in modi differenti la parola e l’immagine.

Nel campo dell’immagine, dalle arti visive al cinema, la teorizzazione della Shoah come evento irrappresentabile si è legata quasi indissolubilmente – passando per una rilettura dell’aniconismo mosaico, e impregnandosi del suo radicalismo profetico-religioso – all’estetica non figurativa e astrattista delle avanguardie novecentesche, soprattutto grazie alla lezione di Lyotard e all’estenuante elaborazione teorica svolta a partire dal film Shoah (1985) di Claude Lanzmann. Gérard Wajcman, forse il più radicale teorico dell’irrappresentabile come cifra della civiltà e dell’arte del Novecento, ha paragonato il film di Lanzmann, che rifiuta ogni ricorso illustrativo alle immagini e ai filmati di repertorio, all’opera suprematista di Malevic: «Shoah è la finestra del Quadrato nero aperta adesso sul paesaggio più tragico del secolo, la sua notte oscura nel cuore del suo giorno. È la finestra di Malevic rivolta verso il nostro mondo che inquadra l’oggetto in close up».[7]

Ma nella vicenda dell’arte occidentale il sublime non è vincolato necessariamente al rifiuto della raffigurazione, ha anzi una sua consolidata tradizione iconografica, elaborata soprattutto nell’ambito del romanticismo,[8] che ha trovato la sua espressione esemplare nei paesaggi di Caspar David Friedrich e di altri pittori coevi. In questa prima parte del nostro saggio prenderemo in esame due casi, invero piuttosto isolati, in cui il sublime negativo della Shoah, anziché spingere a soluzioni moderniste o astrattiste, ha indotto a recuperare questa tradizione e i suoi codici figurativi: una sequenza del film La vita è bella (Roberto Benigni, 1997) e alcune immagini del ciclo Nous ne sommes pas les derniers (1970-1976) del pittore sloveno Zoran Music.

Il gioco su cui s’impernia La vita è bella è semplice e atroce a un tempo: un padre ebreo nell’Italia fascista, Guido Orefice (Roberto Benigni), per proteggere il figlio Giosuè dagli orrori della deportazione e dello sterminio prova a convincere il bambino di sei anni che tutto quel che accade nel campo è parte di una gara a premi che ha per posta un carrarmato; e incredibilmente ci riesce, anche se a prezzo della vita. Questa idea d’intonazione fiabesca, e prima ancora la scelta di adottare il registro della commedia per una storia d’ambientazione concentrazionaria, è stata ed è tuttora oggetto di controversie. Nella sua requisitoria critica contro La vita è bella, Kobi Niv ravvisa nell’espediente di Guido-Benigni un trionfo della menzogna che è quasi in odore di negazionismo:

Esattamente lo stesso gioco che Guido ha offerto al figlio di sei anni Giosuè, Benigni lo offre agli spettatori di La vita è bella. Proprio come Guido usava ogni trucco e faceva ogni sforzo per nascondere al figlio la verità del campo di concentramento dove erano imprigionati, vale a dire la verità dell’Olocausto, così il film fa con i suoi spettatori: nasconde ai loro occhi, tramite i trucchi e l’inganno, la verità dell’Olocausto.[9]

La colpa di Benigni sarebbe dunque quella di aver creato «un campo di concentramento senza violenza; un Olocausto senza morte».[10]C’è tuttavia nel film, come Kobi Niv riconosce, una breve sequenza che fa eccezione: Guido, con Giosuè addormentato in braccio, mentre è di ritorno alla baracca si perde nella foschia e s’imbatte in una montagna di corpi umani, davanti alla quale ammutolisce.

Roberto Benigni, La vita è bella, 1997

«L’immagine bluastra e nebbiosa è così sfocata, e scompare così rapidamente, che gli spettatori a malapena possono discernere qualche dettaglio; molti a quanto pare non ricordano neppure, alla fine del film, che una tale immagine vi fosse»,[11] commenta Niv, il cui bersaglio polemico costante è lo scarso realismo di La vita è bella. Eppure, a ben vedere, è fuorviante leggere in questa sequenza il momento della suprema mistificazione, anche perché, come lo stesso Niv riconosce, a intravedere la pila di cadaveri sono «il padre e il pubblico del film ma non il bambino addormentato»,[12] facendo così venir meno l’equiparazione totale tra quest’ultimo e lo spettatore. Al contrario, si può suggerire, questo è il momento in cui il gioco s’interrompe, la commedia si sfalda, le premesse stesse del film sono fatte vacillare («Forse ho sbagliato strada», confessa Benigni per bocca di Guido). Il film riconosce di aver raggiunto un limite invalicabile, abbandona il registro comico e adotta in modo improvviso e straniante il registro del sublime, recuperando le convenzioni della pittura paesaggistica romantica. La foschia, la montagna, la Rückenfigur minuscola e inerme, quasi travolta dall’immensità del paesaggio – un paesaggio di cadaveri, in questo caso – sono elementi ricorrenti nella pittura di Caspar David Friedrich, in opere come Il monaco in riva al mare (1808-1810) e Nebbia mattutina in montagna (1808).

Caspar David Friedrich, Nebbia mattutina in montagna, 1808

Guido-Benigni, piccolo e di spalle al margine destro dell’inquadratura, ne esce come per rintanarsi in un’invisibile quinta, lasciando lo spettatore ammutolito e solo davanti alla montagna di morti.

L’irrappresentabile non prende qui la forma di un vuoto, di un’assenza, di un’allusione velata o indiretta, di un’astrazione modernista, ma si riallaccia all’iconografia del sublime ereditata dal romanticismo. È uno dei rari casi nella filmografia della Shoah in cui una scelta pienamente ‘figurativa’ non solo non confligge con il Bilderverbot, con il divieto delle immagini, ma lo rinsalda e lo satura di echi intericonici. Ed è una via espressiva che, a nostra conoscenza, attende ancora di trovare un posto nella riflessione teorica.

Chi volesse intraprendere una tale riflessione, dovrà far tappa obbligatoria presso Zoran Music. Nell’accompagnare il lettore alla sua opera pittorica, Jean Clair si richiamava a una celebre pagina di Platone:

Ci sarebbe un indicibile dell’orrore come c’è un indicibile del divino. Ci sono cose che non si possono né dire né vedere, come non si possono declinare gli attributi di Dio, né se ne può guardare il volto.
Un dialogo di Platone introduce tuttavia una riflessione di genere diverso. Nella Repubblica, Socrate ci dice che l’orrore sta proprio in ciò che è desiderabile. Leonzio, figlio d’Agleone, salendo dal Pireo, fuori delle mura della città, «notò dei cadaveri distesi ai piedi del carnefice; da un lato desiderava vederli, dall’altro per ripugnanza distoglieva lo sguardo. Per un certo tempo lottò e si coperse il volto, ma alla fine vinto dal desiderio, spalancò gli occhi e corse verso i cadaveri gridando: «Ecco, disgraziati, saziatevi di questo bello spettacolo!».
Un bello spettacolo per gli occhi, quindi, quello dei cadaveri impilati: che l’orrore sia anche una categoria estetica?[13]

Questa scelta originaria di tenere gli occhi bene aperti davanti all’orrore è la precondizione dell’opera di Music, nato nel 1909 a Gorizia e deportato a Dachau nel 1944, dove cominciò a disegnare ciò che vedeva attorno a sé su fogli rubati nella fabbrica presso cui lavorava o nell’infermeria del campo. Dopo la liberazione si stabilì a Venezia, e nei primi anni Settanta inaugurò un ciclo di disegni e dipinti in cui fissava i suoi ricordi visivi degli anni della deportazione. Cresciuto nei boschi dell’Istria e della Dalmazia, Music vide nelle pile di cadaveri di Dachau, prima di ogni altra cosa, una strana e perturbante foresta. Per decifrare quell’orrore dalla fisionomia ignota o irriconoscibile, dovette riallacciarsi alle memorie iconografiche familiari della pittura di paesaggio. Alcuni passi della sua conversazione con Jean Clair illuminano questo punto:

Cadaveri dappertutto. Non si contavano più. Era un mondo allucinante, una specie di paesaggio con montagne di cadaveri […]. Era come una foresta, i tronchi tagliati, gettati a destra e a sinistra, di traverso… I cadaveri erano impilati così, gli uni sopra gli altri, testa/piedi, uno strato così, uno strato cosà, come tronchi […]. Un pittore non poteva guardare tutte quelle cose, era talmente enorme, talmente enorme… oggi non lo si può descrivere. Tutti quei morti che camminavano ancora, che crollavano a terra e cercavano di rialzarsi. Questa specie di pianura di morti, come si vede la neve sulle montagne. […] Non oso usare la parola enorme. Monumentale, d’una bellezza atroce, terribile. Qualcosa d’incredibilmente, d’enormemente tragico, d’incomprensibile, poter assistere a un paesaggio di morti, un paesaggio di quel genere […] quando uno vede un paesaggio di morti, è abbastanza diverso dal disegno di una gamba all’Istituto di medicina. Lì è come una natura morta. Ma al campo era come un paesaggio, una foresta di cadaveri. Una foresta vergine, se si può dire. Non si può descrivere, non si può immaginare. Sono cose allucinanti, irreali.[14]

La terribile visione dei paesaggi di cadaveri si traduce, nei disegni e nei dipinti del ciclo Nous ne sommes pas les derniers, in alcune immagini che richiamano, tra le varie altre fonti (Goya è forse la più evidente), il ‘sublime naturale’ della pittura paesaggistica romantica.

Dal ciclo Nous ne sommes pas les derniers di Zoran Music, 1970-1976

Sono immagini di orrore trasfigurato che sembrano conferire alla morte e alla decomposizione la grazia quasi diafana di una natura autunnale. D’altro canto Dachau, sede storica di una scuola d’arte, era stata «luogo deputato della pittura naturalistica della fine dell’Ottocento: la vicinanza dell’idillio e del raccapriccio, che associa il Wald romantico e l’albero sovente dipinto da Dahl e da Friedrich, appartiene a quest’imitatio perversa del nazismo che, nella sua ossessione per la purezza etnica – Dachau doveva essere ‘judenrein’ – non poteva che contaminare i luoghi e i monumenti più sacri della cultura tedesca».[15] L’elemento perturbante di queste immagini è dato dalla collisione tra una tradizione pittorica magnificata nella Germania nazista, all’insegna del culto della natura contro la corruzione della città, e il prodotto finale di questa intossicazione romantica: un apparato industriale capace di produrre montagne, colline e boschi di corpi umani. L’impresa di Music può essere accostata sotto questo aspetto a quella di Paul Celan: il tentativo di purificazione di un linguaggio (la lingua tedesca, per Celan, la tradizione pittorica germanica, per Music) contaminato dalla contiguità con la barbarie.[16]

«Il Führer è un grande ammiratore della pittura paesaggistica romantica e ha in particolare un’alta considerazione di Caspar David Friedrich», confidò Joseph Goebbels.[17] Questo ci porta a spostare le nostre annotazioni nel campo dei carnefici. Qui la materia è oscura, la teoria non offre grandi appigli: un poco di queste tenebre e di questo brancolare confonderanno, fatalmente, anche le nostre pagine.

3. Sull’oscuro sentimento del sublime sperimentato dagli esecutori della Soluzione finale, esemplare è il discorso segreto che Heinrich Himmler tenne il 4 ottobre 1943 nel castello di Posen (nome tedesco di Poznán) davanti ai Gruppenführer delle SS, al quale Saul Friedlander e Dominick LaCapra hanno dedicato alcuni importanti saggi. In particolare, al centro delle loro analisi sta questo breve passo, rarissima menzione diretta del piano di sterminio, che si chiude non per caso con un invito al silenzio:

La maggior parte di voi sa che vuol dire vedere cento cadaveri distesi l’uno accanto all’altro, o cinquecento, o mille. Essere andati fino in fondo e – a parte casi di debolezza umana – avere mantenuto la propria integrità, è questo che ci ha resi duri. È una pagina gloriosa della nostra storia, mai menzionata e da non menzionare mai.[18]

La struttura stessa della prima frase, fondata sulla ripetizione, sull’accumulazione e sul crescendo enfatico («wenn hundert Leichen beisammen liegen, wenn fünfhundert daliegen oder wenn tausend daliegen») sembra tradire una sinistra forma di tripudio per la quale Saul Friedlander ha evocato una delle parole chiave della retorica nazista, Rausch, da lui tradotto con l’inglese elation (euforia, esaltazione) ma che ha anche connotazioni di delirio, estasi, intossicazione.[19] Friedlander, storico di formazione e cultura psicoanalitica, tentava di interpretare questo sentimento di esaltazione soprattutto attraverso la categoria freudiana dello Unheimliche o ‘perturbante’. Aggiungeva tuttavia in una nota: «Per ulteriori analisi, avremmo bisogno di una nuova categoria equivalente alla categoria kantiana del sublime, ma specificamente intesa per cogliere l’orrore inesprimibile».[20] In un saggio incentrato anch’esso sul discorso di Posen, LaCapra accostava l’ebbrezza dei carnefici per i numeri esorbitanti del loro crimine al ‘sublime matematico’ kantiano;[21] ma forse potremmo ravvisare in queste parole anche un’eco stravolta del ‘sublime dinamico’, suscitato non già dalla potenza della natura scatenata, bensì dalla ‘tempesta d’acciaio’ di un inarrestabile apparato sterminatore, che all’epoca del discorso di Himmler funzionava a pieno regime.

L’espressione scelta da Himmler per elogiare gli alti gradi delle SS («anständig geblieben zu sein») è anch’essa rivelatrice: a cospetto del cumulo crescente di morti, il loro merito consisteva nell’aver mantenuto l’Anstand, termine quasi intraducibile che per Carl Amery era «la parola chiave del sistema di virtù piccolo borghese in Germania».[22] Di questo Anstand – che è decoro, decenza, integrità – Amery forniva alcuni esempi lugubremente appaiati: presentarsi puntualmente al lavoro al presbiterio o nello scantinato della Gestapo; lavarsi le mani dopo un’onesta giornata di lavoro nei campi coltivati o nei campi di concentramento. E aggiungeva, alludendo al discorso di Posen: «Così Himmler poteva vantarsi del fatto che i suoi commandos della morte sapevano mantenere il ‘decoro’ nel mezzo del loro difficile compito».[23] Nel discorso di Posen, l’Anstand piccolo borghese è dunque magnificato fino quasi a coincidere con la posizione dello spettatore a cospetto del sublime, dove il sentimento della superiorità della propria natura razionale è congiunto alla consapevolezza di potersi mantenere integri, in salvo, pur in mezzo alla distruzione totale.

È proprio questa giustapposizione di piccola borghesia e Apocalisse, di ‘banalità’ arendtiana ed ebbrezza omicida, di burocrazia e wagnerismo, una delle cifre estetiche del sublime (e del kitsch) nazista; lo è fin dalla fase nascente del Terzo Reich – la disamina più preveggente è quella che ne offrì Ernst Bloch in Eredità del nostro tempo [24] ma ha una lunga storia anche dopo la caduta di Hitler. Sempre nella nota a piè di pagina in cui invocava una nuova formulazione del sublime kantiano, Friedlander rimandava all’edizione americana di una sua opera precedente, Réflets du nazisme, specificando che in essa aveva «tentato di descrivere, tra gli elementi del Rausch, l’esaltazione che si origina dalle visioni di distruzione totale». Il libro in questione era dedicato ai riflessi del nazismo sulla cultura dei decenni successivi, e in particolare su quello che Friedlander chiamava, in termini foucaultiani, il nouveau discours sul Terzo Reich formatosi tra gli anni Sessanta e Settanta. Un discorso che si esprimeva in varie forme, dal romanzo (The Portage to San Cristobal of A.H. di George Steiner) alla storiografia (la biografia di Hitler di Joachim Fest), dal cinema d’autore (La caduta degli dèi di Luchino Visconti, Il portiere di notte di Liliana Cavani, Hitler, ein Film aus Deutschland di Hans-Jürgen Syberberg) alla letteratura erotica che mescolava nazismo e sadomasochismo.

«È la giustapposizione dell’estetica kitsch e dei temi di morte che desta meraviglia, questo brivido speciale, caratteristico del nuovo discorso sul nazismo ma, a quanto pare, del nazismo stesso».[25] La comprensibile meraviglia di Friedlander si potrebbe ricondurre a ragione proprio seguendo il suo suggerimento di approfondire la categoria del sublime: è vero, come egli scrive, che il kitsch espelle il male e la morte dal suo quadretto di armonia edulcorata, e pertanto «questo kitsch della morte, della distruzione, dell’Apocalisse, è un kitsch particolare, una rappresentazione della realtà che non si integra nella visione del kitsch ordinario»;[26] ma la contraddizione si ricompone se si pensa che il «kitsch ordinario» è una contraffazione del bello, mentre il kitsch nazista e del «nuovo discorso» dev’essere analizzato anzitutto come un pervertimento del sublime.[27] In esso si mescolano, come abbiamo visto, l’esaltazione per l’enormità del crimine, la fascinazione per la morte e la distruzione contemplate dal modesto piedistallo dell’Anstand, una sorta di tripudio dionisiaco, un frisson carnevalesco, ma anche una certa teatralità e letterarietà come ‘posa’ davanti al delitto immane. C’è dunque, in certe immagini del nazismo diffuse nella cultura degli anni Sessanta e Settanta, un’eco dell’originario Rausch dei carnefici davanti allo spettacolo della distruzione totale.

Il pamphlet di Friedlander risale al 1982, ed è un peccato che sia stato (perlomeno in Italia) pressoché dimenticato, perché le vicissitudini di quel sublime kitsch o di quel kitsch sublime non sono mai cessate fino ai nostri giorni, trovando in anni recenti sempre nuove incarnazioni cinematografiche, storiografiche e letterarie. In queste pagine ci limiteremo a qualche riflessione intorno a due frammenti di particolare rilievo, vista la fortuna e il grado di controversia suscitato dalle opere da cui sono tratti: alcune pagine del romanzo Le Benevole di Jonathan Littell e una sequenza di Schindler’s List (1993) di Steven Spielberg.

Le Benevole (Les Bienveillantes, 2006) è forse il caso letterario più importante degli ultimi anni. Insignito del Grand Prix du roman de l’Académie française e del Premio Goncourt, tradotto in decine di lingue e diventato un bestseller internazionale, il libro ha segnato la consacrazione del suo autore esordiente, il franco-americano Jonathan Littell. Questo fluviale romanzo-confessione dove l’immaginario aguzzino nazista Max Aue ripercorre la sua brillante carriera di genocida, dagli Einsatzkommando ai campi di sterminio, si può definire, sotto molti aspetti, un’opera di modernariato letterario: per la sua ambizione ‘inattuale’ di riproporre nei nostri tempi un romanzo titanico e smisurato alla Musil o alla Mann, per la sua pretesa di fare il verso alla letteratura più nera e radicale degli anni Venti e Trenta, da Jünger a Céline, ma ancor più per la sua riproposizione di tutti gli elementi del nouveau discours sul nazismo osservati da Friedlander: lo stridore tra il kitsch e il macabro; una visione del nazismo come eruzione di forze ctonie, scatenamento di tutti i dèmoni, e al tempo stesso luogo dell’ordine più algido e apollineo; un’erotizzazione del potere e una fascinazione per la distruzione totale, la rigenerazione attraverso il sangue, l’Apocalisse. Come mostra anche lo studio preparatorio di Littell per le Benevole, il saggio Le sec et l’humide, la costellazione culturale dell’autore è dominata da testi e riferimenti degli anni Settanta – in cima a tutti Männerphantasien (1977) di Klaus Theweleit.[28] Il suo romanzo è l’estremo ‘riflesso’ delle immagini della Shoah e del Terzo Reich diffuse attraverso tutto lo spettro della cultura di quel decennio, dal cinema d’autore ai fumetti.

Nel primo movimento del romanzo, che ha la struttura di una composizione musicale, Max Aue medita sull’ordine ricevuto dai superiori di compiere le azioni di sterminio degli Einsatzkommando fuori dalle mura delle città, così da impedire la presenza di spettatori e di curiosi, e torna alla pagina di Platone che abbiamo trovato già citata da Jean Clair (grande detrattore, peraltro, del romanzo di Littell, che considera una «apocalisse kitsch»):[29]

Eppure anche il desiderio di vedere quelle cose era umano. Sfogliando il mio Platone, avevo ritrovato il passo della Repubblica al quale mi aveva fatto pensare la mia reazione di fronte ai cadaveri della fortezza di Lutsk: Leonzio, figlio di Aglaione, mentre saliva dal Pireo costeggiando dall’esterno il muro settentrionale, si accorse che c’erano dei cadaveri che giacevano vicino al boia, e allo stesso tempo desiderava di guardarli ma provava ripugnanza e si volgeva dall’altra parte. Per qualche istante lottò con se stesso e si coprì il viso, ma poi, vinto dal desiderio, spalancò gli occhi e corse verso i cadaveri dicendo: «Ecco voi disgraziati, saziatevi di questo bello spettacolo». A dire la verità, i soldati sembravano provare di rado l’angoscia di Leonzio, solo il suo desiderio […]. Alcuni, era chiaro, godevano dell’atto in sé, ma quelli li si poteva considerare dei malati, ed era giusto farli cercare e affidare loro altri compiti, o addirittura condannarli se passavano i limiti. Quanto agli altri, che la cosa gli ripugnasse o li lasciasse indifferenti, la eseguivano per senso del dovere e dell’obbligo, e così godevano del proprio zelo, della propria capacità di portare a termine con successo un compito tanto difficile nonostante il disgusto e l’angoscia: «Ma io non provo nessun piacere a uccidere», dicevano spesso, godendo così del proprio rigore e della propria virtù.[30]

Questo godimento «del proprio rigore e della propria virtù» a cospetto di montagne di cadaveri è il perfetto equivalente dell’Anstand per il quale Himmler elogiava i suoi uomini. Ma, come abbiamo già visto, in questo ritrarsi dal compiacimento volgare dell’uccisore si annida un compiacimento di secondo grado, il sentimento euforico di un’oscura sublimità del crimine. Ne troviamo conferma in una pagina che cade un po’ più in là nel romanzo:

Devo precisare che tornavo regolarmente ad assistere alle esecuzioni, nessuno lo pretendeva, ci andavo di mia iniziativa. […] Infliggendo a me stesso quel penoso spettacolo, ne avevo il presentimento, non miravo a dar fondo allo scandalo, all’insormontabile senso di una trasgressione, di una mostruosa violazione del Bene e del Bello, ma accadeva piuttosto che quel senso di scandalo si consumasse da sé, e infatti ci si abituava, alla lunga non si provava più quasi nulla; così, quel che cercavo di recuperare, disperatamente ma invano, era proprio quello choc iniziale, quella sensazione di una frattura, di uno squassarsi infinito di tutto il mio essere; al suo posto ormai provavo solo un’eccitazione tetra e angosciosa, sempre più breve, acida, confusa con la febbre e con i miei sintomi fisici, e così, lentamente, senza esserne davvero consapevole sprofondavo nel fango mentre cercavo la luce.[31]

Aue attraversa dunque l’orrore spalancando gli occhi in cerca dell’esperienza sublime. Ma se il sublime nel discorso di Himmler era un’affermazione virile del soldato davanti allo spettacolo della distruzione, qui è al contrario un’ebbrezza di dissoluzione, di spossessamento. Più che Kant, Aue riporta alla mente Georges Bataille: la «frattura», lo «squassarsi infinito» come via che porta alla «luce». Le vittime messe a morte non sono che marionette di un gioco cosmico che ha per posta la sua illuminazione estatica. E questa illuminazione gnosticheggiante su un cosmo malvagio in cui era meglio non esser nati – il basso continuo ‘tragico’ del libro, che si richiama all’Orestiade di Eschilo – ha bisogno, per dispiegarsi appieno, di un’immolazione, di una continua effusione del sangue. Aue scrive come un membro del Collège de Sociologie intrufolato chissà come nelle SS (Littell ne fa peraltro un lettore di Blanchot!), uno gnostico votato al bas matérialisme, un nazista ‘della mano sinistra’, eppure questa sua eresia partecipa pienamente della logica genocida delle elite naziste, illustrata da LaCapra a partire dal discorso di Posen:

Riferendosi allo «spettacolo» di un numero sempre più grande di cadaveri, Himmler allude a una sorta di esperienza-limite iniziatica e radicalmente trasgressiva per i perpetratori nazisti – un indicibile rito di passaggio che implica qualcosa di simile a un sacrificio, la vittimizzazione e la rigenerazione attraverso la violenza.[32]

Il Rausch trionfa nelle pagine di Littell, che sgrana gli occhi come Leonzio ma non compie la miracolosa alchimia trasfigurante di Music, non mette nessun filtro tra le pulsioni tenebrose del suo protagonista e i «fratelli umani» (cioè i lettori) a cui si rivolge. La sua adesione integrale al punto di vista del carnefice fa delle Benevole un ultimo e più insidioso ‘riflesso’ della retorica nazista:

Zoran Music poteva, anche dieci o vent’anni dopo, dipingere dei carnai, perché vi era sfuggito […]. Si può immaginare un giovane pittore fare oggi la stessa cosa e lanciarsi in un simile ‘plagio di cadaveri’? Eppure è proprio quel che si fa nel registro letterario nelle pagine delle Benevole, per il più grande piacere dei voyeur, non dei testimoni.[33]

L’esperienza ‘sublime’ dei carnefici è un nodo quasi inestricabile, e non è un caso che Friedlander si appelli già nel titolo del suo saggio al «disagio dell’interpretazione storica» e che LaCapra, al termine di alcune pagine assai involute che hanno Friedlander per diretto interlocutore, arrivi a constatare la presenza di un tangled web, una «rete ingarbugliata» di significati che tiene assieme «il trauma, il perturbante, il sublime, il sacro secolarizzato e la logica sacrificale».[34] Sono i segni del fallimento della teoria, a cui queste pagine non hanno certo l’ambizione di rimediare.

Dove non arrivano le lente e faticose scalate degli studiosi, con i loro picchetti e le loro imbracature, spesso arrivano d’un balzo le opere d’immaginazione. Schindler’s List è sotto questo aspetto una portentosa macchina teorica, e non solo perché ha messo in moto una vastissima letteratura critica (che ci si rammarica non sia più vasta ancora, e più profonda)[35] ma anche perché ha elaborato, con gli strumenti del cinema, i principali dilemmi teorici della Shoah e della sua rappresentazione. La famigerata shower scene dove le deportate ad Auschwitz sentono con sollievo scorrere l’acqua dalle docce da cui si attendevano il gas, per esempio, dietro l’apparenza di una scena da B-Movie erotico o da film horror è una lezione magistrale di etica dello sguardo che sonda i limiti della rappresentazione rispetto alla morte nelle camere a gas, come è stato mostrato dai suoi interpreti più sottili.[36] Ma la sequenza a cui intendiamo dedicarci è un’altra, ed è stata sistematicamente trascurata (con una sola eccezione)[37] dagli studi critici, malgrado essa segni l’ultima apparizione della bambina con il cappottino rosso, simbolo del film e chiave di volta della conversione di Schindler da industriale cinico e opportunista a salvatore di vite umane. La sequenza si svolge a Chujowa Gorka, in Polonia, nell’aprile del 1944. Amon Goeth (Ralph Fiennes), comandante del lager di Plaszow e grande antagonista di Oskar Schindler (Liam Neeson), ha ricevuto l’ordine di esumare e cremare i corpi degli oltre diecimila ebrei uccisi a Plaszow e nella liquidazione del ghetto di Cracovia: il campo dev’essere smantellato, e i prigionieri condotti nel più grande e organizzato campo di Auschwitz.

Schindler’s List, com’è noto, è la trasposizione cinematografica di un’inchiesta storica in forma di romanzo, Schindler’s Ark (1982) dello scrittore australiano Thomas Keneally. Come nel caso della shower scene, che Spielberg immaginò ‘dilatando’ poche righe del tutto marginali nel libro di Keneally, anche qui è utile tornare al brano ispiratore della sequenza:

Durante una visita immediatamente prima del suo compleanno, Oskar aveva visto la fila di pire sul dorsale sovrastante le officine. Una settimana dopo, aveva notato che quella macabra attività era aumentata. I cadaveri venivano estratti dalla terra da prigionieri maschi che lavoravano con la bocca e il naso coperti. I corpi venivano trasportati su coperte, carriole e lettighe fino alle cataste approntate per il rogo. Quando la pira, a forza di strati, raggiungeva l’altezza della spalla, veniva irrorata di benzina e accesa. Pfefferberg aveva osservato con orrore che le fiamme davano ai cadaveri una vita temporanea: li aveva visti contorcersi e allontanare da sé i legni ardenti, con le membra protese e la bocca spalancata in un estremo grido. Un giovane SS correva in mezzo alle pire agitando la pistola e urlando ordini frenetici.
La cenere dei morti ricadeva nell’aria e sui panni stesi ad asciugare nei giardini delle ville degli ufficiali. Oskar era stupito per il modo in cui i soldati consideravano quel pulviscolo nell'aria, come se si trattasse di onesti e inevitabili residui industriali.[38]

Quel giovane membro delle SS che corre in mezzo alle pire «agitando la pistola e urlando ordini frenetici» diventa, nel film, l’incarnazione più vivida del Rausch degli sterminatori e della loro via al sublime. La centralità della sua apparizione è sottolineata dalla piccola ‘infrazione’ linguistica di un lungo sguardo in macchina d’interpellazione, che sembra invitare lo spettatore a specchiarsi nell’esaltazione omicida. Incorniciato dalle fiamme alle sue spalle, il soldato grida come un posseduto, ha un accenno di febbrile ilarità carnevalesca, e i generici «ordini frenetici» che gli mette in bocca Keneally diventano qui un distillato di kitsch wagneriano: «So ist es! Walhalla! Walhalla läuft hier!» («È così! Il Walhalla! Qui è in atto il Walhalla!»). Presa isolatamente, l’inquadratura potrebbe esser letta come l’equivalente cinematografico delle strategie retoriche di Littell, un modo per tendere un sortilegio allo spettatore, trascinarlo nel punto di vista del carnefice e far sì che condivida la sua tenebrosa esaltazione.

Steven Spielberg, Shindler’s List, 1993

Quell’apparizione, tuttavia, è al centro di una sequenza che, a dispetto della sua brevità, rivela una complessità e una densità altissime. A legare le inquadrature è la continuità della musica extradiegetica: Immolation, sorta di requiem composto dall’autore della colonna sonora John Williams, dove un coro intona il verso di una preghiera ebraica, «Im chayeinu, anu notnim chayim» («Con le nostre vite, noi diamo la vita»). La sequenza si apre con un sole scialbo minacciato da nuvole scure. Le successive inquadrature ci svelano che si tratta della cenere dei corpi cremati, che piove sulla città: piove sui bambini che giocano a pallone con un ufficiale nazista, in piena naturalezza; piove su un’elegante signora a passeggio, che ne resta turbata per un istante ma prosegue il suo cammino; piove su Schindler stesso, che rimuove la cenere dalla carrozzeria della sua automobile, si sofferma a scrutarla e capisce che qualcosa di terribile sta accadendo. Da qui parte il secondo atto della sequenza, che corrisponde a un’intensificazione drammatica della musica extradiegetica: siamo ora tra le pire e le fosse comuni riaperte, dove le SS urlano ordini tappandosi il naso per non sentire l’odore della carne bruciata e i prigionieri trasportano cadaveri sui carretti. Dall’alto della collina, minuscole sagome di soldati osservano o sorvegliano lo scenario di distruzione, ma l’inquadratura è fagocitata dal fumo denso e nero. L’azione è convulsa, e ritorna la camera a mano nervosa e mobile che avevamo visto all’opera nella sequenza della liquidazione del ghetto, a cui questa sequenza è legata tematicamente (essa segna infatti una nuova tappa della presa di coscienza di Schindler, sottolineata dall’apparizione della bambina). A questo punto, tra il fuoco, il fumo e il crepitìo assordante, erompe il Rausch del giovane membro delle SS. Ma la sua esaltazione wagneriana è subito ‘straniata’ dai discorsi burocratici di Goeth, che su un fondale di fiamme si lamenta con Schindler per le seccature organizzative comportate dall’ordine dei superiori. Ed è a questo punto che Schindler vede passare su uno dei carretti il cadavere della bambina con il cappotto rosso. La sequenza si chiude sul suo lungo primo piano sconvolto.

Tutti gli elementi della «rete ingarbugliata» sulla cui analisi LaCapra si è intrattenuto faticosamente per pagine sono qui radunati in poche inquadrature, a incorniciare l’esplosione centrale del Rausch: il sublime negativo, il perturbante (l’accostamento di quotidianità e orrore, i bambini che giocano con l’ufficiale sotto la pioggia di ceneri umane, Goeth che fa ordinari calcoli burocratici in pieno inferno), così come il sacro secolarizzato e la logica sacrificale. Ma la logica sacrificale degli sterminatori, la loro esaltazione neopagana per la rigenerazione attraverso il sangue (l’evocazione del Walhalla davanti alle pire) è, nella teologia implicita di Schindler’s List, contrapposta alla misteriosa fecondità spirituale della morte delle vittime, a cui allude la preghiera di Immolation («Con le nostre vite, noi diamo la vita»).

Il sublime dei carnefici non è che un fracasso ininterrotto da cui bisogna distogliersi per percepire il colore rosso di una vittima.


1 J. Rancière, Le destin des images, Paris, La fabrique éditions, 2003, p. 125. La migliore confutazione polemica della retorica dell’irrappresentabile è in G. Didi-Huberman, Images malgré tout, Paris, Les Editions du Minuit, 2003. Cfr. anche S. Friedlander (ed. by), Probing the Limits of Representation. Nazism and the “Final Solution”, Cambridge-London, Harvard University Press, 1992. In italiano, cfr. il recente A. Minuz, La Shoah e la cultura visuale, Roma, Bulzoni, 2010, pp. 113-143.

2 Cfr. J.F. Lyotard, Le Différend, Paris, Les éditions de Minuit, 1983, § 93, p. 91.

3 Per una ricognizione sugli incontri teorici tra Shoah e sublime, cfr. Z. Braiterman, Against Holocaust-Sublime. Naive Reference and the Generation of Memory, «History and Memory», XII, 2, Fall/Winter 2000, pp. 7-28. Cfr. anche B. Lang, Holocaust Representation. Art within the Limits of History and Ethics, Baltimore-London, The Johns Hopkins University Press, 2000.

4 P. Novick, The Holocaust in American Life, New York, Houghton Mifflin Company, 1999, p. 212.

5 V. Jankélévitch, L’imprescriptible, Paris, Editions du Seuil, 1986, p. 29.

6 Cfr., tra gli altri, L. Jurgenson, L’expérience concentrationnaire est-elle indicible?, Paris, Éditions du Rocher, 2003; L. Pipet, La notion d’indicible dans la littérature des camps de la mort, Paris, L’Harmattan, 2000; M. Rinn, Les récits du génocide: Sémiotique de l’indicible, Lausanne-Paris, Delachaux & Niestle, 1998; J.E. Young, Writing and Rewriting the Holocaust. Narrative and the Consequences of Interpretation, Bloomington-Indianapolis, Indiana University Press, 1988.

7 G. Wajcman, L’objet du siècle, Lagrasse, Verdier, 1998, p. 225.

8 Per una visione d’insieme, cfr. B. Saint Girons, Fiat lux, une philosophie du sublime, Paris, Quai Voltaire-Edima, 1993.

9 K. Niv, Life is Beautiful but not for Jews. Another View of the Film by Benigni, Lanham-London, Scarecrow Press, 2003, p. 48. Un’argomentazione simile è condotta, autorevolmente, da L.L. Langer nel saggio Life is not beautiful in Id., Using and Abusing the Holocaust, Bloomington-Indianapolis, Indiana University Press, 2006, pp. 30-47.

10 K. Niv, Life is Beautiful but not for Jews, cit., p. 10.

11 Ivi, p. 8.

12 Ibidem.

13 J. Clair, La barbarie ordinaria. Music a Dachau, Torino, Umberto Allemandi & C., 2001, p. 18.

14 Ivi, pp. 80-105.

15 Ivi, p. 33.

16 Cfr. A. Lauterwein, Paul Celan, Paris, Belin, 2005. Lauterwein ha anche condotto un’interessante analisi incrociata tra la poesia di Celan e la pittura di Kiefer in Id., Anselm Kiefer et la poésie de Paul Celan, Paris, Éditions du Regard, 2006.

17 Cit. in F. Spotts, Hitler and the Power of Aesthetics, Woodstock-New York, The Overlook Press, 2002, p. 196.

18 Cit. in M. Marrus, L’Olocausto nella storia, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 45. La traduzione contenuta nell’edizione italiana del testo di Marrus è stata qui rimaneggiata in alcuni punti per renderla più aderente all’originale.

19 Cfr. S. Friedlander, On the Unease in Historical Interpretation, in Id., Memory, History and the Extermination of the Jews of Europe, Bloomington-Indianapolis, Indiana University Press, 1993, p. 110; sulla traduzione di Rausch, cfr. anche D. LaCapra, History and Memory: In the Shadow of the Holocaust, in Id., History and Memory after Auschwitz, Ithaca-London, Cornell University Press, 1998, p. 40.

20 S. Friedlander, On the Unease in Historical Interpretation, cit., p. 115.

21 Cfr. D. LaCapra, Representing the Holocaust: History, Theory, Trauma, Ithaca-London, Cornell University Press, 1996, p. 108.

22 «Non è traducibile, proprio come decency o honnêteté, ed è (per lo meno oggi) ancora più ambiguo e difficile da definire di queste parole chiave appartenenti a sistemi di virtù stranieri o del passato. Che cos’è questo Anstand tedesco? […] Includeva cose quali l’onestà, la coscienziosità, la pulizia, la puntualità, l’affidabilità nel lavoro assegnato; la diffidenza verso ogni forma di eccesso e ogni vistosità, ogni ambivalenza, ogni ambiguità; e l’obbedienza all’autorità» (C. Amery, Die Kapitulation oder deutscher Katholizismus heute, Reinbek, Rowohlt, 1963, cit. in E. Voegelin, Hitler e i tedeschi, Milano, Medusa, 2005, pp. 79-80).

23 Ibidem.

24 «L’impiegato esplode, selvaggio e bellicoso, vuole ancora obbedire, ma solo come soldato, combattente e credente. […] le tenebre non avevano mai dovuto tollerare un commercio così intenso con dei piccolo borghesi, tanta perfidia, volgarità e provincialismo ostinato, tanta Edda in pirografia, tanti motti in sassone» (E. Bloch, Eredità del nostro tempo [1935], Milano, Il Saggiatore, 1992, pp. 87-88).

25 S. Friedlander, Réflets du nazisme, Paris, Seuil, 1982, p. 22.

26 Ivi, p. 23.

27 Cfr. E. Friedlander, Some Thoughts on Kitsch, «History and Memory», Passing into History: Nazism and the Holocaust beyond Memory - In Honor of Saul Friedlander on His Sixty-Fifth Birthday, IX, 1/2, Fall 1997, pp. 376-392.

28 Cfr. J. Littell, Le sec et l’humide, Paris, Gallimard, 2008.

29 J. Clair, Une apocalypse kitsch, «Commentaire», 116, t. 29, Hiver 2006-2007, pp. 1106-1107.

30 J. Littell, Le Benevole, Torino, Einaudi, 2007, p. 97. Il passo è commentato largamente in E. Husson, M. Terestchenko, Les complaisantes: Jonathan Littell et l’écriture du mal, Paris, François-Xavier de Guibert, 2007, pp. 135-144.

31 J. Littell, Le Benevole, cit., p. 175.

32 D. LaCapra, History and Memory, cit., pp. 28-29.

33 P.E. Dauzat, Holocauste ordinaire. Histoires d’usurpation. Extermination, littérature, théologie, Paris, Bayard, 2007, p. 177.

34 D. LaCapra, History and Memory, cit., p. 40.

35 Un punto di partenza è Y. Loshitzky (ed. by), Spielberg’s Holocaust. Critical Perspectives on Schindler’s List, Bloomington-Indianapolis, Indiana University Press, 1997.

36 Cfr. L. Saxton, Haunted Images. Film, Ethics, Testimony and the Holocaust, London-New York, Wallflower Press, 2008, pp. 76-79; G. Weissman, Fantasies of Witnessing. Postwar Efforts to Experience the Holocaust, Ithaca-London, Cornell University Press, 2004, pp. 176-182. Per una discussione della shower scene e del dibattito nato intorno a essa, cfr. anche G. Vitiello, Il testimone immaginario. Auschwitz, il cinema e la cultura pop, Napoli, Ipermedium libri, 2011, pp. 147-152.

37 Cfr. F. Evers, Vexierbilder des Holocaust: Ein Versuch zum historischen Trauma in der Populärkultur, Berlin, Lit Verlag, 2011, pp. 34-49.

38 T. Keneally, La lista di Schindler, Milano, Frassinelli, 2004, pp. 239-240.