Hans Belting, Antropologia delle immagini

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Hans Belting, Antropologia delle immaginiIl teschio di Gerico, l’incisione di Dürer raffigurante Erasmo da Rotterdam, gli scatti di Robert Frank sono oggetti d’indagine convenzionalmente attribuiti ad ambiti di studio differenti. Non è così in Antropologia delle immagini di Hans Belting, nel quale vengono posti in relazione, in un percorso testuale e iconografico, statue votive, stemmi, stele funerarie e fotografie in nome della ricerca di un’essenza: il concetto puro di immagine. È la seduzione che ne deriva a stimolare il confronto con ciascuno dei capitoli, nonostante la loro notevole complessità teorica.

Poiché da sempre l’uomo, nel tentativo di interpretarlo e di prenderne possesso, ha compreso il mondo attraverso le immagini, l’autore non mostra alcun dubbio sul fatto che la nozione di immagine non può che essere determinata sulla base di un approccio antropologico. Di fronte a un artefatto (quasi un richiamo al manufatto di longhiana memoria e una presa di distanza dalla connotazione romantica di opera d’arte) la sfida, poco ortodossa, di Belting è liberare l’immagine dall’identificazione con il mezzo che la rende visibile; se il mezzo trasmissivo e la tecnica (così come la percezione) sono inevitabilmente soggetti alla loro storicità, è necessario restituire l’immagine alla sua dimensione atemporale per riuscire a coglierne la natura più intima. Una simile impostazione tradisce l’inadeguatezza del tradizionale metodo storico-stilistico adottato dalla storia dell’arte e, richiedendo un’integrazione di tipo interdisciplinare, pone le fondamenta per una più ampia ‘scienza delle immagini’, una Bildwissenschaft. Non a caso, il volume, pubblicato per la prima volta nel 2001 e tradotto in italiano dieci anni dopo in seguito ad accesi dibattiti, si arricchisce di contributi provenienti dalla filosofia, dalla semiotica, dalla psicologia, dalla teoria dei media, ed è servito come orientamento per il gruppo di ricerca, con membri appartenenti a diversi ambiti scientifici, del corso superiore fondato e diretto da Belting dal 2000 al 2003 alla Hochschule für Gestaltung di Karlsruhe.

Se ci s’immerge nella lettura del volume, si scopre che c’è solo un posto nel quale le immagini trovano una spiegazione e un significato: il corpo, il naturale ‘luogo delle immagini’, mezzo vivente o trasmittente figurativo (se pensiamo ai corpi dipinti e alle maschere), esso rappresenta anche il «luogo dove le immagini vengono prodotte, conosciute e riconosciute» (p. 74). La fruizione e la produzione di immagini, fisiche e mentali, pone al centro dell’interesse l’uomo come entità culturale; la complessa interazione tra immagini interiori ed esteriori e la concezione della mente come parte integrante del corpo forniscono a Belting argomentazioni che mettono in discussione un rigido dualismo tra spirito e materia, tipico del pensiero occidentale.

Le riflessioni dell’autore non si limitano a delle mere constatazioni e indagano, ripercorrendo antichissimi atti rituali celebrati nel culto dei morti, il senso delle azioni simboliche che l’uomo compie in relazione alle immagini. Emerge così una suggestiva fascinazione: «il mezzo rappresentava il corpo del defunto così come esso era per i corpi dei vivi che effettuavano lo scambio simbolico tra morte e immagine. Perciò, in questo caso, il corpo non rappresentava un mezzo tra immagine e osservatore, bensì tra morte e vita» (p. 41). Nel suo impiego durante gli atti cultuali, l’immagine costituisce qualcosa di più che una pratica umana e sociale; nello scambio con la morte e nel desiderio di vanificare i limiti di spazio e di tempo imposti dalla natura umana, essa fonda la sua genesi. La «condizione originaria dell’immagine» (p. 222), spiega Belting, è una categoria di cui la morte rappresenta l’archetipo, è l’assenza, pronta a dare l’illusione di negarsi tramite la presenza del mezzo e a svelarsi nell’assenza dell’oggetto, visibile solo attraverso la sua immagine (paradosso sul quale già Barthes, interrogandosi sulla caratteristica essenziale della fotografia, ci aveva messo in guardia).

Dal ruolo dell’immagine nei riti funerari alla crisi, dibattuta e urlata, della rappresentazione, il testo non rinuncia a sollevare problematiche inerenti al destino attuale delle immagini. L’autore riconosce che il potere figurativo dei media non è scisso da interessi commerciali e politici indirizzati al controllo sociale, ravvisa nelle potenzialità dei mezzi digitali una ‘crisi del referente’ fondata sulla simulazione che domina i mondi virtuali (tecnologia alla quale rivolgiamo il nostro atavico, e antropologico, desiderio di fuga dal reale); ma piuttosto che liquidare la questione con una definizione allarmista, Belting afferma con lucidità che «quando l’attuale situazione di euforia, o il senso della fine dei tempi, si sarà acquietata, ci troveremo dinanzi al compito di riconsiderare il discorso sulle immagini e la figuratività» (p. 29). Un sottile monito che ha il merito, se non altro, di ritenere ancora possibile un pensiero critico.