Hermann Nitsch, Hermann Nitsch a Palermo. Das Orgien Mysterien Theater

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Ma l’opera, come escremento, non è che materia: senza vita, senza forza né forma. Cade sempre e crolla appena è fuori di me.

J. Derrida, Artaud: la parole soufflée

 

Azionismo, body art, performance, happening. Tutti i termini, più o meno pertinenti, che costellano e richiamano l’arte di Hermann Nitsch implicano in maniera evidente l’unicità di un atto presente, l’irriproducibilità dell’operazione artistica, l’irripetibilità dell’evento che si fa opera d’arte, insomma la sincronia fra produzione artistica e fruizione. L’azione si svolge sotto gli occhi dell’osservatore, addirittura spesso sulla pelle stessa di chi vi prende parte: il corpo offerto alla body art esige la propria ineludibile presenza – spesso in una situazione di rischio per il corpo stesso. La performance in generale e, soprattutto, l’happening si realizzano solo nel qui ed ora di ciò che avviene sotto lo sguardo dei visitatori e cessa di essere opera d’arte nel momento in cui l’avvenimento stesso si conclude. Si tratta, in tutti questi casi, della possibilità di un ritorno a una forma di aura irriproducibile (nell’epoca della riproducibilità condotta alle sue più estreme conseguenze), di una strenua sfida in nome di una possibile catarsi collettiva nell’epoca della dispersione e della dissoluzione nel virtuale.

Alla luce di tali considerazioni, una mostra che tenti il recupero a posteriori dell’atto performativo facendo esposizione di quel che, materialmente, ne è rimasto si trova inevitabilmente nel paradosso di dover in parte contraddire le premesse di ciò che intende testimoniare. Se l’Azionismo – per definizione – nasce dalla necessità di un’esperienza diretta dell’azione che caratterizza l’opera artistica, una mostra legata all’Azionismo non può che essere, per certi aspetti, un tradimento dei suoi stessi presupposti, ponendo l’assenza d’azione in luogo della sua assoluta centralità, la fissità e la staticità in luogo del mutevole e del contingente, la persistenza dell’avvenuto in luogo della transitorietà dell’avvenimento e, soprattutto, la contemplazione più o meno distaccata in luogo della partecipazione diretta.

Evidentemente, allora, non è ‘azionismo’ la mostra giunta a Palermo (10 luglio-20 settembre 2015), dopo l’improvviso ‘no’ di Città del Messico, benché faccia capo proprio a Hermann Nitsch, che dell’Azionismo è stato tra i maggiori artefici, e prenda il nome dalle sue performance artistiche che intrecciano la tradizione delle orge dionisiache con quella dei misteri medievali, appunto Das Orgien Mysterien Theater (Il teatro delle orge e dei misteri). Non è azione viva ma «relitto», come lo stesso Nitsch definisce il materiale che propone nelle esposizioni in giro per il mondo. Eppure lo sguardo che una mostra del genere, lontana dall’azione, permette di rivolgere all’azione stessa ha un interesse e una rilevanza non inferiori alla diretta partecipazione all’evento, per la luce che getta non solo sull’Azionismo e sulla sua performatività, ma sul fare artistico in generale.

Per i settanta giorni della mostra palermitana di Nitsch, lo spazio espositivo di ZAC – il capannone dei Cantieri Culturali alla Zisa consacrato alle arti contemporanee – sembra essersi trasformato in una chiesa, o in una sua parodia. Si avanza per una sala dalle pareti ingombre di enormi tele: da quelle invase da circonvoluzioni di disegni a tema religioso (come Deposizione nel sepolcro e La caduta di Gerusalemme) che disperdono il corpo umano nelle mille pieghe di una linea che corre a colmare l’intera superficie tracciabile; ad altre coperte da strati convulsi di vernice nera mischiata a sangue animale, passando infine per quelle nelle quali il colore sparisce e il sangue, con altri liquidi corporali, resta l’unico protagonista in un collage di garze medicanti, pile di fazzoletti di carta e paramenti liturgici. Al centro della sala si susseguono, invece, in successione ordinata, connessi da un fil rouge di altre centinaia di piccole pile di fazzoletti candidi, un enorme quadrato costituito da tele schizzate da violenti getti di nero e sangue, portantine utilizzate nel corso dei riti collettivi per trasportare i corpi dei partecipanti, altre tele che combinano sangue e paramenti sacri, e teche di vetro nelle quali convivono in perfetto equilibrio altri paramenti – pianete, stole, veli, borse, corporali, purificatoi – con strumenti chirurgici d’ogni tipo.

 © Alessandro Di Giugno © Alessandro Di Giugno

Una delle portantine è invece addobbata a mo’ d’altare: la tovaglia sostituita da altre stole e pianete liturgiche, al centro, come per un’imminente eucarestia, un calice e, in luogo della pisside, un vassoio d’acciaio per uso medico contenente non ostie bensì della garza e una pinza chirurgica macchiata di rosso. Ai piedi di questa parodia d’altare, un enorme telo sporcato di scuri resti organici rappresi, stesi evidentemente da piedi e mani in gesti frenetici; alle sue spalle, invece, la cosiddetta ‘farmacia’, ossia una larga struttura colma di mensole che ospitano schiere di boccette, bottiglie e alambicchi colmi di liquidi d’ogni tipo, provette piene di sangue, una selezione degli immancabili indumenti liturgici e di altri strumenti medici e, al centro, un ostensorio, come se ci trovassimo di fronte alla parete di fondo dell’abside di questa parodia di una chiesa.

Fin qui la mostra è stata il cammino attraverso la traccia del simbolo (il rito liturgico) e del segno (gli scarti di un avvenimento trascorso). La messa come allusione rappresentabile, ordinata e codificata all’irrappresentabilità caotica del divino e, avviluppato alla messa, il ‘relitto’ come allusione visibile all’inaccessibilità dell’azione violenta ormai conclusasi. Ma varcando la soglia costituita dall’abside-‘farmacia’ si giunge all’ultima sezione della mostra, nella quale dall’allusione, dal simbolico e dal residuo si tenta lo sguardo – seppur mediato e indiretto – verso l’azione stessa.

 © Alessandro Di Giugno

Alle pareti, adesso, si affaccia un puzzle di decine e decine di fotografie scattate durante i vari riti collettivi che caratterizzano il teatro delle orge e dei misteri di Nitsch, immagini ai limiti della sopportabilità, ben lontane dal tipo di testimonianza alla quale ci aveva abituati la prima parte del percorso: donne bendate e legate che lasciano uscire sangue e uova dalla bocca, uomini crocifissi dalla folla in mezzo a carcasse di animali, organi animali applicati su corpi umani attraverso bende e fasciature e, ovunque, litri e litri di sangue. Immagini che, in fondo alla sala, si animano su cinque pannelli sospesi, grazie alle proiezioni di altrettante performance che hanno segnato il percorso artistico di Hermann Nitsch, dalle più antiche alle più recenti. Intanto, in questo ‘dietro le quinte’ in cui l’immagine effettiva dell’azione ha sostituito la metafora della prima parte, nel retro della ‘farmacia’ un’immagine del volto di Cristo sostituisce, proprio in corrispondenza dell’ostensorio, la metafora incarnata dall’ostia.

È, dunque, questo gioco di allusioni, allegorie, segni e simboli la chiave di una mostra simile: i ‘relitti’ della prima parte alludono allo sguardo più diretto della seconda, ma entrambe le parti alludono, a loro volta, al fatto che l’opera d’arte non è lì, è altrove nel tempo e nello spazio, perché tutto ciò che si può ricavare dall’azione – e che può essere messo in mostra – non è che vano residuo, resto che tutt’al più può farsi approssimativa rappresentazione dell’irripetibilità del fare che l’ha prodotto. E l’anomalia dell’esposizione di Nitsch rinvia al paradosso del fare artistico tout court: tutte le opere d’arte, e tutte le mostre che tentano di evocarle, sono rappresentazioni di ciò che non c’è, metafore di un gesto irripetibile. Come scrive Jacques Derrida, «l’opera, come escremento, non è che materia: senza vita, senza forza né forma. Cade sempre e crolla appena è fuori di me», mentre Carmelo Bene gli fa eco sostenendo che «quel che conta nell’arte non è il prodotto artistico, ma il prodursi dell’artefice in rapporto al quale l’opera non è che una ricaduta residuale, un escremento. E perciò l’opera è il materiale morto… è il cadavere… evacuato dall’evento».