Il rischio, il conflitto e il gioco della verità. Intervista alla Compagnia Carullo-Minasi

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Carullo-Minasi, that has received the ANCT Prize in 2017, with a motivation that defined it as «the last, little revolution of italian theatrical scenes», represents today one of the most original realities in italian artistic creation. This interview is the result of the encounter with the messinese company on the occasion of the debut of Marionette, che passione!, their show hosted in the summer season of Catania’s Teatro Stabile. It tries to investigate and to outline the main points of their research and authorial gaze.

 

 Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi

 

D: Partirei proprio dal ‘qui e ora’. Ci stiamo incontrando all’interno della stagione estiva del Teatro Stabile di Catania che vede il debutto del vostro ultimo spettacolo Marionette, che passione! da Rosso di San Secondo. Voi che vivete e lavorate a Messina, che sguardo avete sulla vostra città? E, sempre da un punto di vista culturale, come appare ai vostri occhi Catania e il legame tra queste due sorelle – se sono davvero da considerarsi sorelle – nella costa orientale della Sicilia?

 

R: Anzitutto siamo molto contenti di questa domanda, perché rappresenta per noi il focus su cui le istituzioni dovrebbero cominciare a ragionare in maniera intelligente, facendo quella che sempre viene chiamata ‘rete’ ma che sembra così difficile in un contesto come quello siciliano. Riteniamo questa, veramente ‘qui e ora’, un’occasione che probabilmente dovrebbe caratterizzare le esperienze dei cosiddetti ‘giovani’ che non sono più giovani, che hanno un percorso alle spalle di dieci anni e che comunque vogliono potere sperimentare quello che qui è accaduto, cioè avere una macchina istituzionale messa a loro disposizione con fiducia e meraviglioso rischio. Perché la felicità, ma al contempo anche l’arte, è rischio e rischio equivale anche a responsabilità: noi, con tutta la squadra, ci sentiamo estremamente responsabili e di questa responsabilità ne facciamo un valore. Vogliamo, però, che questo rischio – che è stato assunto da Catania nella figura straordinaria di Laura Sicignano – sia un punto d’esempio per tutta la Sicilia. Perché noi ci sentiamo onorati di potere intraprendere una cosa che ti mette d’innanzi a tutta una serie di elementi con cui in genere non siamo soliti operare: abbiamo sempre giocato e lavorato con una povertà del teatro e qui continuiamo a ragionare sulla povertà del teatro – e sulla magnificenza di quella povertà –, sapendo però di potere contare su una struttura che evidenzia che cos’è il teatro. Il teatro è povero, deve rimanere povero, ma si deve avvalere della forza degli esseri umani, perché amplifica la loro potenza per poi raccontare la nullità del genere umano. Messina è in un momento di grande disvalore culturale, che rischia un impoverimento delle generazioni a venire. Se non si vede teatro, se non si cerca di creare, appunto, delle connessioni, le generazioni non si incontrano e non possono poi arrivare a dire quello che si costruisce nel tempo, piano piano, con l’esperienza. E si può cominciare a dire che questa è un’occasione di grande esperienza che fuoriesce dai canoni che eravamo abituati a sperimentare.

 

 

D: Cristiana Minasi e Giuseppe Carullo, negli ultimi anni siete stati riconosciuti dalla critica teatrale tra le compagnie più originali nel panorama italiano contemporaneo. Qual è l’elemento, l’aspetto che più conferisce, a vostro parere, originalità al vostro linguaggio?

 

R: Noi lavoriamo su quello che è il ‘gioco della verità’, dell’essenza di qualcosa che accade lì e per davvero. Sicuramente quella che perseguiamo è una poetica fatta di riferimenti anche molto diversi tra loro: che hanno a che fare con il clown, con la dialettica, la cosiddetta ‘struttura ludica’ proposta dalla scuola russa di Vasil’ev, con l’essere quello che siamo, il nostro essere un po’ più ‘particolari’, più originali nella vita. Ne facciamo un valore. Abbiamo sempre lavorato sull’idea che è dal limite che viene fuori l’opera d’arte. Giochiamo su tutto quello che in genere è nascosto e quindi partiamo da noi, ragioniamo su quello che è nascosto in noi come potenza, ma anche su quello che è nascosto nella macchina teatrale. E di questo ne facciamo motivo di drammaturgia. L’originalità è anche data dal fatto che scriviamo noi i nostri testi, anche se si tratta di rielaborazioni, sono comunque delle drammaturgie che si intersecano con la scenografia, il corpo dell’attore, lo spazio, gli oggetti scenici: diventano un tutt’uno.

 

D: La struttura del dialogo sembra essere una caratteristica fondamentale nella vostra ricerca teatrale. Dall’iniziale Trilogia sul limite, ispirata al Simposio di Platone, al De Revolutionibus, proveniente dalle Operette Morali di Leopardi, anch’esse costruite attraverso una struttura dialogica. Il dialogo, quindi, come tentativo di chiarificazione delle problematiche più profonde che segnano l’esistenza umana, come tentativo di risanare fratture tra gli individui, forse a volte incolmabili. La fiducia che assegnate alla componente verbale nei vostri lavori in teatro, viene messa in crisi da qualcosa? Si viene a creare una tensione tra il logos e gli altri elementi inscindibili nella dimensione teatrale, come la corporeità, il rapporto ogni volta diverso con gli spettatori, il rapporto tra la parola e la dimensione visuale/sonora della scena?

 

R: Il tema centrale, che caratterizza poi il conflitto che crea la vita in scena, è questo divergere intorno a qualcosa. Che è poi la stessa identica cosa ma su cui però ci si anima e si determina un fatto. In scena si vedono, cioè, due persone che non è che litighino, ma che concretamente disquisiscono intorno a qualcosa che appartiene a entrambi, ma che ha due punti di vista differenti. Alla fine è il conflitto della vita stessa, quando si vede un padre e un figlio, una madre e un figlio: i due punti di vista, la sfaccettatura, il voler scalfire quelle che sono le ragioni degli altri, capendo anche quella che è la ragione propria, che poi alla fine è essa stessa contraddittoria. È un gioco a due ma che può valere anche nei monologhi e in tutte le circostanze e che chiaramente ha a che fare con quella che è la forza del teatro. Il teatro è attivo se si vede in scena un conflitto. Noi portiamo dei dubbi e questi dubbi non vengono comunque mai risolti ma elaborati, cioè mostrati in tutte le loro sfaccettature. In questo spettacolo, per eccellenza, si vede un conflitto interiore tra il voler smettere di sperare e il non poter non continuare a sperare. Quindi un combattere continuo tra la verità e la finzione, tra la vita e la morte, tra la passione e la morte della stessa. I personaggi alla fine non si risolvono perché, concretamente, hanno a che fare con questo dilemma: loro vorrebbero liberarsi dalla passione ma la passione li rende marionette di loro stessi. Si muovono quasi a prescindere dalla loro stessa volontà, perché sono animati da un qualcosa che ha a che fare con loro ma a prescindere da loro. Per questo abbiamo giocato con gli elementi scenici come se fossero un’appendice, un prolungamento di loro che spesso prende il sopravvento.

 

 

D: La ‘struttura ludica’, proveniente dallo studio intrapreso con il pedagogo russo Anatolij Vasil’ev, come metodo-chiave a cui ricorrere per alimentare il processo creativo in ambito teatrale. Perché e in che modo ve ne siete appropriati, qual è la sua specificità?

 

R: La ‘struttura ludica’ si avvale dei riferimenti del gioco legato all’azione verbale, quindi cerchiamo di riconoscere, lavorando in un processo che va a togliere sovrastrutture, quello che è l’oggetto principe, il tema principe nascosto nel testo, che noi andiamo a trovare e al quale ci aggrappiamo. Diventa, quindi, come una scalata cui mirare, ma sin dal principio. Spesso nel teatro ‘psicologico’, che comunque appartiene anche a Vasil’ev e agli studi stanislavskiani, ci si muove al contrario, ci si tuffa dentro, qui invece si vede sin dal principio un attore che mira a un oggetto del discorso che diventa centrale e focale e che spesso è nascosto alle prime, immediate relazioni con il testo. Quindi la ‘struttura ludica’ è un ping-pong, un dialogo di continue opposizioni – che è poi il dialogo della vera vita –, e in mezzo agli attori c’è un oggetto del contendere che diventa poi l’elemento dell’opposizione. Quindi si arriva a raccontare spesso, anche con i dialoghi platonici, quello che è il tema della complessità, di come la verità non sta né da una parte né dall’altra ma racconta, appunto, la forza della complessità. Che è, poi, quello che noi vogliamo raccontare. D’altronde la vita – per eccellenza e per ironia – racconta la vita ma anche la morte: la vita come grande beffa meravigliosa.

 

 

D: Con l’ultimissima produzione, Marionette, che passione!, portate avanti il discorso del ‘teatro nel teatro’ che avevate già iniziato in Patruni e sutta, tratto da Lisola degli schiavi di Marivaux, dove affrontavate centralmente l’hegeliana relazione servo-padrone. È possibile intravedere una continuità tematica con il precedente spettacolo? Soprattutto a partire dall’essenziale metafora della marionetta con cui viene visto l’uomo nella sua relazione con le dinamiche dell’esistenza?

 

R: La dimensione metateatrale diventa fatto drammaturgico: in questo modo s’intende rompere la quarta parete coinvolgendo in modo estremo il pubblico e mettendolo quasi in una posizione di segreta partecipazione. Il pubblico non se ne accorge ma finisce per essere parte integrante di un qualcosa che viene rigettato su di esso e si rende conto di essere coinvolto, di non essere perciò spettatore-vittima ma uno spettatore che comunque deve prendere una posizione. Come se si prendesse coscienza di un qualcosa che si credeva non appartenesse a noi stessi. L’obiettivo vuole essere quello di mettere noi stessi, in prima persona, senza maschera alcuna o comunque con delle maschere che giocano ironicamente su quella che è la qualità personale di ciascuno di noi. È fin dai primi spettacoli che noi inseguiamo questa idea. C’è uno spettacolo [Due passi sono (N.d.R.)] in cui alla fine Cristiana dice: «C’è un sacco di gente», come a far entrare il pubblico dentro la storia e a prendere una posizione sulla scena. Poi la scena viene aperta, ci sono le luci che diventano parte della scenografia, degli oggetti. Spesso gli spettacoli cominciano senza che si capisca bene se siano iniziati o no, così come quando finiscono: non si capisce se siano o meno finiti. E il pubblico resta in una posizione di immediata partecipazione, di coinvolgimento: si realizza una dimensione circolare – malgrado ci si avvalga, purtroppo, di un teatro all’italiana –, una dimensione di compartecipazione.

 

 C. Natoli, C. Minasi, G. Cesale, G. Carullo e M. Ventura in Marionette, che passione! (foto di A. Parrinello)

 

 

D: Quale esigenza vi ha spinto a scegliere di portare in scena questo testo di Rosso di San Secondo, scritto nel 1917? In quale aspetto risiede il suo legame più forte con la contemporaneità?

 

R: Anzitutto è stata una scelta collegata a un suggerimento, tra gli altri, della direttrice. E quando lo abbiamo letto vi abbiamo individuato moltissimi elementi di coincidenza con una poetica fondata sull’assurdo dei dialoghi, su una contemporaneità che rimane comunque sempre un po’ sospesa in un tempo frenetico ma che poi, in realtà, è estremamente lento, sempre uguale a se stesso. Poi avevamo visto il collegamento fortissimo col tema del teatro, che diventa appunto il centro che vogliamo raccontare e che è incarnato soprattutto dal ‘Signore in grigio’. In terzo luogo, diventa uno spettacolo nello spettacolo: il parlare di marionette e avere a che fare coi nostri corpi, con qualche cosa che deve giocare, qualcosa che sembra non essere nostro. Mi fa pensare molto alla gente che non vive una vita propria, ma piuttosto ciò che altri vogliono che essi vivano. Le passioni di oggi sembrano non essere più quelle di un tempo, come se quello che ci muove fosse tutt’altro, come se qualcun altro comandasse le nostre stesse passioni. Questo spettacolo ha, invece, una dimensione molto antica, bella, quasi artigianale. Rimanda all’essere mossi da passioni profondamente umane, mentre oggi vedo passioni estremamente tecnologiche e commerciali che un po’ mi allontanano dall’idea del teatro nel senso più profondo e più puro del termine.

 

 

D: Quanto il vostro sguardo autoriale sente il bisogno di attingere, per il processo creativo in teatro, a forme e contenuti presenti in opere d’arte non prettamente teatrali, appartenenti ai linguaggi della letteratura, del cinema e dell’arte figurativa nelle sue più svariate sfaccettature?

 

R: Per quanto riguarda l’arte figurativa, in Delirio bizzarro, per esempio, l’idea era di ricorrere al futurismo per una scenografia che raccontasse quelli che erano i propositi della legge Basaglia: sculture, immagini ideali, questo, appunto, è un legame tra l’opera d’arte e il lavoro scenografico. Per quanto riguarda la letteratura, ci avvaliamo sempre di grandi maestri perché crediamo che solo da lì si possa attingere la più grande consapevolezza di come funzionano certe scritture che possono essere strumento di insegnamento. Pensavamo inaffrontabile Leopardi ma, riscoprendolo, ha una profonda ironia, un’intelligenza caustica che ‘sovraracconta’ il contemporaneo, cioè lo supera e lo rende straordinario. La poesia stessa può diventare il nostro fronte di battaglia. Non vogliamo fermarci a una drammaturgia fatta di frasi molto strette, di tempi molto ‘pausati’, come in Due passi sono o in Delirio bizzarro, una cosa che certo ci appartiene, che ha a che fare con la Sicilia, con molti nostri colleghi, con molti dei nostri punti di riferimento. Vorremo farci colorare anche da altro, per capire quali sono i punti di contatto con questo ‘altro’ che ci viene fatto odiare a scuola.

 

 

D: L’originalità del vostro linguaggio, dei vostri lavori, risiede anche, come è stato riconosciuto nel Premio ANCT 2017 (Associazione Nazionale Critici di Teatro), nell’«aver reso permeabili i confini del Teatro, (ri)portandolo al centro d’inusuali spazi urbani». Cos’è che vi spinge a uscire dalla struttura ‘protetta’ del teatro e a far contaminare l’identità dei vostri lavori con quella degli spazi altrui?

 

R: Questa ‘deformazione’ ci deriva dal fatto che noi, comunque, non lavoriamo mai in posti ufficiali e quindi rimaniamo sempre affascinati dalle potenzialità che un luogo, qualunque esso sia, ci restituisce. Molti spettacoli sono stati creati in contesti esclusivi, per esempio De Revolutionibus è nato a Stromboli, in una situazione in cui l’immaginario naturale supera di gran lunga quelle che sono le possibilità artificiali. Ed è un sogno che in realtà si è realizzato quando siamo riusciti a fare questa Trilogia sul limite. Due passi sono, ad esempio, è stato fatto in un teatro gigantesco, disponendo però il pubblico non in platea ma in scena con noi, come fosse un convitato, separato solo da un tappetino, che era il loro tappetino d’ingresso su cui era scritto «Salve». T/Empio, critica della ragion giusta l’abbiamo realizzato in un tribunale e Conferenza tragicheffimera all’interno di un centro di salute mentale, avvalendoci delle opere d’arte create dai malati psichiatrici. Il teatro ha, secondo noi, la sua strepitosa possibilità di presenza ovunque: lo vediamo in strada, dove c’è la più grande verità teatrale nelle persone quando le osservi vivere, muoversi e raccontare il dramma della propria stessa esistenza, di continuo. Sì, vogliamo che il teatro sia qualcosa di strano che appartiene alla vita di ognuno, ogni giorno. Perché l’arte non ha confini, l’arte è lì dov’è necessaria.

 

  C. Minasi, G. Cesale e G. Carullo in Marionette, che passione! (foto di A. Parrinello)

 

 

D: Da un punto di vista creativo, come appare ai vostri occhi il panorama teatrale italiano, questa sorta di arcipelago con tutte le isole legate tra loro dalle loro storie e dai loro linguaggi? E come vi vedete inseriti all’interno di questo sistema?

 

R: Siamo stati molto fortunati all’inizio, partendo da una forte necessità che era quella di raccontare un’urgenza. Poi, dopo, siamo stati riconosciuti più per l’originalità, l’esclusività. Forse dipendeva anche dal fatto che eravamo lontani da quelle che erano le mode, le caratteristiche del teatro contemporaneo che spesso, comunque, non riusciamo purtroppo a vedere. Questo, per certi aspetti, è stato anche un vantaggio. Poi siamo entrati in questa macchina pericolosissima, che è appunto la ‘produzione ininterrotta’, pericolosissima perché il sistema teatrale italiano odierno pretende ogni anno una produzione, però pretende anche che tu possa ‘circuitare’ e anche che tu possa essere distributore. Questo porta all’esaurimento – oltre che nervoso – della qualità e delle condizioni attraverso cui tu puoi sperimentare bene quello di cui sei artefice. Malgrado io [Cristiana Minasi (N.d.R.)], da laureata in legge, abbia delle capacità contrattuali, relazionali, diventa un rischio. Perché tu, comunque, non puoi – come in questa occasione ci viene consentito di fare – sperimentare fino in fondo quella che è la tua ricerca meramente artistica. Quindi si rischia, con tutte queste limitazioni, di distruggere quella che è la qualità prettamente artistica. Gli spettacoli e le griglie di valutazione tra loro cominciano ad assomigliarsi e finisci per stare dentro quegli schemi, quelle griglie che tolgono respiro alla potenza. Non credo che noi abbiamo un contesto, infatti anche la critica non riesce a ‘contestualizzarci’. Un po’ perché, con i nostri testi, facciamo drammaturgia contemporanea, un po’ perché facciamo delle regie di testi assurdi quali quelli di Leopardi, Platone: siamo difficili da etichettare e, anche se rischioso, è in fondo la nostra volontà.