Appunti sull’immaginario dei nervi e il corpo scenico ottocentesco

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The essay explores the imaginary of the body as a nervous/neurotic one by questioning nineteenth-century psychological, medical, and paramedical culture. The author shall take into account theoretical writings by Mesmer, Charcot, and other Italian psychologists living in the late Nineteenth Century and shall dwell on the relationship between such an imaginary and the ways theatrical critics described young Eleonora Duse’s body on the stage.

La diffusione nella cultura europea ottocentesca di una nuova immagine del corpo come «incontrollabile e fantasmagorico ‘teatro dei nervi’»[1] risale già all’inizio del secolo XIX. Vero è che il «corpo nervoso si presenta […] più come un fantasma culturale che come un dato biologico»,[2] una risposta variamente articolata e di grande potenza evocativa alle scoperte scientifiche e alle profonde trasformazioni che segnano la moderna società industrializzata ottocentesca. A partire dalla fine del Settecento, e poi per un intero secolo, l’immaginario del corpo nervoso invade la cultura europea. Ricerca scientifica, riflessione filosofica e vita artistica si intrecciano e si influenzano a vicenda senza soluzione di continuità. E la nevrosi, variamente intesa e definita, ma complessivamente eletta a malattia del secolo, progressivamente assurge a simbolo del disagio e della crisi di un’intera società, delle sue dissonanze interne come delle sue zone oscure, delle patologie latenti come della eccitazione incontrollabile dettata dalla sovra stimolazione delle moderne città industrializzate (in particolare Parigi e Londra).

Ripercussioni di tutto questo si rintracciano anche nella cultura teatrale ottocentesca, nel modo di guardare al corpo, di intendere la sua presenza sul palcoscenico, di rappresentarlo e poi di descriverlo in azione; nell’elaborazione teorica così come nella pratica scenica; nel teatro di prosa così come nella danza[3] e nelle forme di varia spettacolarità dal café-concert francese[4] al music hall inglese, per fare solo due esempi. Le trasformazioni dell’immaginario del corpo, inoltre, non possono che mettere in discussione o quantomeno rendere problematici i concetti di organicità, sincerità, totalità del corpo scenico. Accanto al paradigma dominante fin dal Rinascimento di una unità organica del corpo, che è fra l’altro anche garante della unità organica dell’altro corpo, quello sociale e politico, uno sguardo «dissestivo e disgregante» costringe fin dal Cinquecento «a riconoscere un principio di frammentazione della forma corporea»[5] che nel corso del XIX secolo assume anche i tratti del corpo nevrotico e isterico.

Affrontare il tema del corpo nervoso nell’Ottocento teatrale significa pertanto affrontare questioni che rimandano a un ampio contesto culturale, allungare lo sguardo indietro fino agli albori della scena mesmerizzata, mettere in discussione il rapporto scena spettatore, interrogarsi sulle relazioni e gli influssi fra ricerca medica, scena, letteratura, arti figurative e, più tardi, anche cinema.

Nelle pagine che seguono inizieremo a individuare alcuni nodi tematici e problematici e ci soffermeremo su un solo caso, la giovane Eleonora Duse, rimandando ad altri studi le articolazioni di una storia tanto ampia e quanto complessa.

Mesmer e il corpo nervoso

Proprio negli anni in cui la fisica dell’elettricità e del magnetismo cominciavano a dare i primi importanti risultati, Franz Anton Mesmer, giunto a Parigi nel 1780, propone la sua teoria sul magnetismo animale da cui la terapia sui pazienti affetti da malattie nervose.[6]È questa una tappa significativa di una storia che vede il corpo nervoso prendere forma, configurandosi come meccanismo privo di un principio interno coordinatore che ne regoli reazioni e sensazioni, dominato da automatismi, suggestionabile e, se sottoposto alla terapia dei magneti, curabile nelle sue disfunzioni interne. Proprio in relazione alla cura, da cui deriverà successivamente la pratica ipnotica, il mesmerismo segna anche una tappa significativa rispetto a quel legame che si va stringendo sempre più fra cura medica, relazione umana fra medico e paziente e pubblico di testimoni e spettacolarizzazione dell’evento; una pratica terapeutica che influenzerà profondamente l’immaginario collettivo,[7] quello artistico[8] e la ricerca scientifica degli anni successivi.

J.J. Paulet, Mesmer magnétisant une patiente, in L0’Antimagnétisme ou origine, progrès, décadence, renouvellement et réfutation du magnétisme animal, 1784

Mesmer e il mesmerismo si diffondono rapidamente e, in particolare, il fenomeno dell’ipnosi si espande in tutta Europa e negli Stati Uniti fino ad approdare stabilmente alla scena teatrale: qui ipnotizzatori di professione (ne sono un esempio Donato e Danae Carl Hansen) si rivolgono ormai a gruppi di spettatori che vengono ipnotizzati collettivamente, fino alla realizzazione di veri e propri spettacoli di piazza. È interessante notare che sono proprio gli spettacoli di alcuni di costoro a indurre uomini di scienza a riaccostarsi allo studio dell’ipnosi: Dupotet convinse Elliotson, poco dopo Lafontaine convertì Braid (che conierà il termine ipnosi), Donato porterà l’italiano Morselli a occuparsi di magnetismo. Tuttavia, dopo alcuni anni di grande diffusione, Mesmer e il mesmerismo cadranno in discredito per venire recuperate solo verso gli anni Ottanta dell’Ottocento, quando, contemporaneamente a Nancy e a Parigi, Hippolyte Bernheim e Jean-Martin Charcot recupereranno, ciascuno entro il proprio percorso di ricerca, la funzione dell’ipnosi a scopo terapeutico.

Nel frattempo, con l’avanzare della scienza neurologica, si è venuto definendo un nuovo orizzonte teorico e scientifico. Alla teoria sulla trasmissione degli impulsi nervosi per mezzo dello scorrimento di un fluido magnetico nei nervi, si è sostituita quella che ne prevede la conduzione su base elettrica, attraverso l’eccitazione progressiva delle vie nervose; d’ora innanzi i nervi saranno paragonati a fili elettrici, ‘irritabili’, e le loro vibrazioni richiameranno le onde sonore o luminose.

Intanto il positivismo si è affermato con prepotenza e ha costretto anche i fenomeni di suggestione e di ipnosi a riconfigurarsi entro un panorama che ne laicizzerà quegli aspetti che nel frattempo l’avevano collegata per lo più a forme di spiritismo popolare. Eppure, se «dalla scuola spiritica organizzata a casa di Darwin nel 1874, a cui sono invitati fra gli altri George Eliot, George Henry Lewes, Francis Galton e lo stesso Meyers che inventerà il termine ‘telepatia’, fino al museo patologico della Salpêtrière, la scienza estende il proprio ambito di intervento al mistero dell’energia nervosa, in un tentativo di gestirne gli effetti inspiegabili», tuttavia proprio questo tentativo «finisce da ultimo per ribadirne, o persino per accrescerne, lo statuto meraviglioso».[9]

Non è qui il luogo per inseguire i tanti rivoli lungo i quali si è diffuso nel corso del secondo Ottocento l’immaginario del corpo nervoso. Ciò che interessa innanzitutto queste pagine è indicare preliminarmente l’ambiguità o quanto meno la duplicità del suo statuto: un corpo ‘sottile’ e particolarmente reattivo alle sollecitazioni, obbligato a reagire all’esperienza dello shock di fronte al sensazionalismo delle merci nella società europea industriale; predisposto a riprodurre con immediatezza mimetica e automatica quanto esperito del mondo esterno senza la mediazione interna della coscienza, privo degli antichi principi di organizzazione interni (cuore, anima). La sua straordinaria reattività al mondo esterno coincide con la mancanza di coerenza e di sintesi delle sue reazioni; la sua porosità rispetto alle sollecitazioni lo rende disponibile a registrare il mondo senza selezioni e, insieme, lo costringe in un tale stato di sovraeccitazione da non permettergli di trattenere nulla o da degenerare in corpo malato; il suo essere predisposto al contagio corrisponde alla facilità con la quale contagia; attraversato da flussi di sensazioni che lo consumano, appare come corpo sonnambulo, montaggio della fantasia o automa inautentico, a seconda delle connotazioni che assume.

E così, da un lato, l’automatismo imitativo e l’iper reattività agli stimoli della moderna società ne fanno per molti la chiara espressione di una degenerazione sociale, come testimonia Degeneration di Max Nordau, prodotto di

un mondo in perenne movimento, stilizzato e insieme decomposto in un’anarchia di spasmi, tic, torsioni, linee zigzaganti, gesti automatici e non finalizzati […]. Ogni riga che leggiamo o scriviamo, ogni volto che vediamo, ogni conversazione, ogni scena che osserviamo dal finestrino di un treno in corsa, mette in moto i nostri nervi sensoriali e i centri del cervello. Persino i minimi shock del viaggio ferroviario, impercettibili alla coscienza, i rumori perpetui, le diverse scene nelle strade della città, la suspense nel sapere che risvolti avranno gli eventi in corso, la costante attesa del giornale, del postino, dei visitatori, costano fatica e logoramento del cervello.[10]

Da un altro lato, e al contrario, l’irrompere della sensazione nervosa nella condizione sospesa del corpo crea le basi di una nuova forma di creatività: il corpo non più compatto, ordinato, obbligato a corrispondere a un’immagine anatomica precisa, oggetto ibrido, scomponibile e ricomponibile secondo le regole della fantasia, può farsi luogo e strumento di una diversa creatività.

Corpo isterico, corpo feticcio. L’ ‘invenzione’ di Charcot

È in questo contesto che risulta particolarmente interessante il percorso di Charcot e l’influenza che la sua proposta ebbe presso i contemporanei.

A. Brouillet, Una lezione di Charcot alla Salpêtrière, 1887

Jean-Martin Charcot[11] si pone come punto di riferimento degli studi neurologici dell’isteria a partire dal momento in cui, già primario di uno dei più importanti reparti dell’Ospedale della Salpêtrière di Parigi, assume nel 1870 anche l’incarico di un reparto riservato a pazienti affette da convulsioni (epilettiche e isteriche).

Da allora, estende le sue ricerche allo studio dell’isteria e dal 1878 anche all’ipnotismo per trovare un ordine e una regola dietro l’apparente disordine (operazione che aveva già tentato Briquet).[12]

Come altre nevrosi l’isteria è considerata dai suoi predecessori una patologia funzionale del sistema nervoso non riconducibile a lesioni anatomiche; le sue cause non vengono mai ben specificate, sebbene collegate «a una continenza prolungata o a una sovreccitazione degli organi genitali» (e ciò spiegherebbe perché i soggetti più a rischio siano le religiose e le prostitute) e a una forma di predisposizione ereditaria.[13] Anche Charcot parla di lesioni dinamiche o funzionali del sistema nervoso centrale (non anatomiche, dunque, e non permanenti). La novità della sua proposta consiste nel focalizzare l’attenzione sui sintomi dell’isteria, che sarebbero sempre imitazioni dei sintomi di altre patologie (innanzitutto dell’epilessia), ma che se ne differenzierebbero sempre per minimi dettagli; sintomi che sarebbero permanenti (le così dette stimmate isteriche: paralisi, anestesia, iperestesia, contrattura, restringimento del campo visivo e dolore nella regione ovarica) e che sarebbero caratterizzati da regolarità tali da poterli distinguere con precisione dagli analoghi sintomi organici. Malattia di cui Charcot non indaga le cause e non propone un’eziologia, l’isteria deve essere innanzitutto descritta attraverso un’analisi accuratissima delle differenze formali fra i suoi sintomi e quelli di analoghe malattie.

Come strumento di verifica delle dinamiche della malattia isterica Charcot fa ampio uso dell’ipnosi che è tecnica congeniale a mostrare (e dimostrare) non solo il sintomo ma anche il suo movimento e realizzare così una rappresentazione/dimostrazione dinamica insieme seriale e diacronica. Praticata in presenza di un pubblico di spettatori, l’ipnosi induce la malata in uno stato di estrema eccitabilità e suggestionabilità, che è lo stato perfetto per riprodurre sotto un’attenta guida, artificialmente e ‘in modo controllato e manipolabile’, le fasi di una crisi isterica. È ciò che accade nelle lezioni-spettacolo alla Salpêtrière, dove un folto pubblico di addetti ai lavori, di intellettuali, di artisti e di curiosi (fra gli altri Alfonse Daudet, Émile Zola, Guy de Maupassant, i f.lli Goncourt, Sigmund Freud, Pierre Janet) assiste a una ‘recita’ del medico e delle sue pazienti, che prevede la riproduzione in diretta delle fasi di un attacco isterico. Il grande sforzo di Charcot di inventariare il maggior numero di varianti possibili dei sintomi isterici si avvale di un metodo comparativo e differenziale: un sintomo viene considerato patognomonico dell’isteria mediante l’analisi delle differenze rispetto al modo in cui si presenta in altre malattie.

Il frutto di tale lungo e accurato lavoro è la costruzione di un vero e proprio paradigma dell’isteria che, con il supporto della fotografia presto introdotta alla Salpêtrière,[14] si avvale anche di uno straordinario repertorio iconografico di ‘pose’.[15] Il pericolo in cui incorre e infine cade Charcot è quello di sovvertire l’ordine logico delle priorità, assoggettando la ricerca alla necessità di definire un modello e costringendo così le pazienti/cavie ad aderire a quel modello e ripetere incessantemente, con la regolarità che a quel modello necessita per essere comprovato, gli stessi gesti, le stesse posture, le stesse reazioni.

La conseguenza di questa amplificazione della dimensione spettacolare della scena magnetica è la serializzazione del soggetto ipnotizzato. Egli non è più un soggetto singolare, portatore di un sapere rivelatorio e di un evento irripetibile. È un soggetto seriale, ripetibile, anzi costituito come sonnambulo proprio per assicurare tale serialità.[16]

A questo punto è interessante fare ritorno alla questione della teatralità delle Lezioni del martedì, la creazione cioè da parte di Charcot di un teatro ipnotico, in quanto ‘dominato’ dall’ ‘incantatore’ che «delimita e intensifica il sintomo, lo costringe alla perfezione di un disegno, il quale fornisce, all’interno dell’artificio stesso, una sorta di verità dell’evento sintomatico in sé».[17] Un teatro siffatto è altresì il «teatro della classificazione delle parole, della classificazione dei soggetti, è il teatro dotato del potere di costruire tassonomie di corpi sofferenti».[18]

Il pubblico di astanti, che permette al sintomo di mostrarsi, di esibirsi pienamente e intensamente, è così presenza indispensabile a realizzare la classificazione del corpo isterico e, insieme, è il testimone necessario delle molteplici forme nelle quali l’ostentazione di un feticcio si esprime. Nel discorso sull’isteria, infatti, i frammenti anatomici e le pose diventano metonimici di un paradigma (quello definito da Charcot) della malattia che li riaggrega in una verità del corpo malato. Eppure, come sottolinea Didi-Hubermann, i sintomi della isteria sono conseguenza di un processo imitativo autoreferenziale, non rimandano ad altro se non all’esigenza di auto rappresentazione che rimanda a sua volta a quella di essere visibili. L’ostentazione di un feticcio, l’ostentazione di una mancanza. Teatro e fotografia concorrono qui, spogliati di qualunque autonomia creativa, alla definizione dell’invenzione di Charcot.

Facendo ora ritorno in sintesi sul corpo isterico, sarà un corpo separato, sconnesso, suggestionabile, particolarmente reattivo agli stimoli, che finge e che si autorappresenta per essere visibile, un corpo anatomizzato senza che poi i frammenti si organizzino in un tutto coerente perché è un corpo privo di un centro e un principio individuationis, un corpo/spettacolo, carico di ambiguità. Dov’è la sua verità? Può mentire il corpo? Può mentire la sofferenza fino a portare i segni di altre malattie? E qual è la radice del dolore che quel corpo mostra? L’immaginario intorno al corpo nervoso/isterico si carica di questioni che pertengono da vicino alla riflessione sul teatro, sull’autenticità del corpo in scena, sul dolore e le forme della sua manifestazione, sul rapporto fra crisi dell’esperienza nella contemporaneità e ripercussioni sul corpo in scena, sull’esperienza estetica dello spettatore. Molte questioni alle quali non si può in questo contesto dare voce.

Per restare dunque strettamente ancorati agli anni di Charcot, proponiamo di seguito una riflessione che muove dagli studi sulla giovane Eleonora Duse e si articola in una triplice direzione: da un lato, la ricezione del ‘corpo scenico’ della Duse e la particolare e significativa ricorrenza di una terminologia che fa riferimento all’universo semantico della nevrosi/isteria per descrivere sia l’attrice sia lo spettatore; da un altro lato, la ricorrenza nel repertorio dell’attrice durante gli anni Ottanta di testi che prevedono figure femminili in parte riconducibili entro l’universo delle nevrosi femminili, con la singolare vicenda del rifiuto da parte dell’attrice di uno dei testi italiani ascrivibili a tutti gli effetti all’interno di questa categoria tematica, la Giacinta di Capuana;[19] infine una riflessione sulla possibilità di utilizzare l’isteria come allegoria benjaminianamente intesa di un’arte recitativa e di un’esperienza di fruizione estetica ad essa connessa che dà forma a una condizione franta e alienata del soggetto nella società contemporanea.

P. Richer, J.-M. Charcot, Études cliniques sur lP. Régnard, Catalepsie. Suggestion terreur; Attitude provoquée, in J.-M. Charcot, Iconographie photographique de la Salpêtrière, 1877

Nevrosi’ e ‘isteria’ per dire la diversità: Eleonora Duse giovane (1881-1889) in scena

Nel 1880 vengono tradotte e pubblicate in Italia le lezioni di Charcot e nel 1881 la raccolta di ritratti fotografici delle pazienti in cura alla Salpêtrière. Intanto, almeno a partire dagli anni Sessanta e poi con maggior intensità durante gli anni Ottanta, gli studi sull’isteria, sull’ipnosi e sul magnetismo si diffondono rapidamente presso gli ambienti medici[20] e si inizia a dibatterne sulle riviste specializzate.[21] Non dimentichiamo poi che, proprio in quegli anni e proprio per influenza della cultura positivista, la medicalizzazione della diversità femminile potenzialmente eversiva porta a individuare proprio nell’isterica, dal comportamento sessuale deviato – o frigida o ninfomane – e dalla particolare attitudine alla simulazione (tratto d’altra parte caratteristico di tutte le donne), la principale responsabile dei crimini femminili. Ne saranno di lì a poco documenti particolarmente illuminanti il trattato di Cesare Lombroso e Guglielmo Ferrero, La donna delinquente, la prostituta e la donna normale (Torino, 1893) e la Fisiologia della donna di Paolo Mantegazza (Milano, Treves, 1893).

In campo artistico, le influenze più significative dell’immaginario dei nervi fin qui descritto sono certo quelle che coinvolgono la narrativa,[22] innanzitutto scapigliata (da Tarchetti a Boito a Gualdo), ma anche di Verga e di Capuana,[23] da un lato, e di d’Annunzio, dall’altro. Il documentato studio di Edwige Comoy Fusaro fornisce a oggi il quadro più ampio e articolato esistente sui rapporti fra letteratura e malattie nervose, dal trionfo del positivismo ai primi anni del Novecento. Se ne deduce una rete fitta di relazioni e di scambi fra riflessione medica e letteraria, all’interno di un vasto panorama culturale in cui la nevrosi femminile, e in misura minore quella maschile, solcano l’immaginario narrativo quali sintomi di una crisi profonda che investe la società di fine secolo. Più in particolare, il discorso sulla nevrosi femminile (e l’isteria) viene collocato all’interno di quel contesto ideologico tardo ottocentesco che, sia dal punto di vista medico sia da quello letterario, intende la sessualità femminile come un agente sovversivo dell’ordine e, specularmente, porta avanti l’apologia delle virtù domestiche della donna come perno per una moralizzazione dei costumi. Non è un caso che Paolo Mantegazza sia autore, insieme alla scrittrice Neera, di un Dizionario d’igiene per le famiglie (1881), testo finalizzato a promuovere il ritorno ai valori della tradizione e a sostenere le virtù domestiche della donna. Analogamente, la frase lapidaria di Capuana, autore non dimentichiamo di Giacinta e Profumo, che Comoy Fusaro ricorda opportunamente («La donna? È un animale inferiore, che sparirà dal mondo fra non molto, fra qualche migliaio di secoli»),[24] non è che una delle molte dichiarazioni sull’inferiorità della donna sostenuta dalla cultura letteraria, cui corrisponde l’esigenza di collocarla all’interno dell’istituto familiare borghese, quale suo habitat naturale. Il proliferare alla fine dell’Ottocento di una letteratura (per lo più maschile) nella quale si moltiplicano casi di nevrosi e isteria femminile funziona dunque, in gran parte, come topos normalizzante di trasgressioni sociali (le pressioni dell’emancipazionismo) e neutralizzante di minacce latenti (la sessualità femminile).[25]

Il teatro di prosa, e in particolare quello d’attore, riflette complessivamente la medesima ideologia conservatrice, con qualche differenza rispetto alla narrativa: da un lato, fino a d’Annunzio, raramente i drammaturghi italiani creano personaggi affetti da nevrosi e, dall’altro, le compagnie portano in questi anni in scena soprattutto una drammaturgia francese contemporanea in cui adulteri, tradimenti, prostituzione, corruzione, esuberanze nel vizio e nel cinismo e talvolta nevrosi sono filtrati da un infrangibile moralismo che tutela i valori della famiglia, del decoro e del buon senso.[26] E quand’anche arriva sulle scene una Margherite Gautier, cortigiana, malata di tisi, fra la traduzione attenta di Tettoni e l’interpretazione delle attrici del tempo che ne fanno una giovane pura e immacolata, in scena le poche provocazioni tematiche del testo di Dumas vengono di fatto censurate e la partitura ricondotta alle convenzioni della scena italiana, al registro sentimentale-patetico.

In questo contesto si colloca il percorso assolutamente originale ed extra lege di Eleonora Duse. Due sono i motivi che lo rendono interessante per il discorso che stiamo conducendo. Innanzitutto, una questione di termini in relazione al modo in cui la critica nomina, descrive e prima ancora vede la sua recitazione negli anni Ottanta: le cronache del tempo fanno ricorso con una frequenza significativa ai termini «nervoso», «nevrotico»,[27] «isterico»,[28] spesso coniugati con una non ben precisata ‘modernità’. In secondo luogo una questione di poetica: la giovane Duse (e in parte l’attrice matura) sembra dare corpo e voce a un disagio personale e sociale, della donna e dell’artista, a una condizione ‘dolorosa’ propria di un soggetto dall’identità precaria e franta, che trova interessanti corrispondenze con le forme di quell’immaginario dei nervi di cui si è seppur brevemente detto nella prima parte del saggio.[29]

Innanzitutto, partiamo dalle testimonianze della critica dusiana per renderne conto in modo sintetico. L’affermazione presso il grande pubblico di Eleonora Duse avviene all’inizio degli anni Ottanta quando, in compagnia con Cesare Rossi, dopo qualche mese accanto a Giacinta Pezzana prima donna, la giovane attrice sostituisce la più anziana in quel ruolo e si impone agli occhi del pubblico e della critica con una forza e una diversità che crea presto scompiglio. Uno dei modi che la critica del tempo adotta per nominare tale scompiglio è, si è detto, fare riferimento all’universo semantico della nervosità/nevrosi/isteria, talvolta in accezione neutra, più spesso in accezione negativa e degenerativa. Ne è un esempio l’articolo comparso sulla «Nuova Antologia» nel novembre-dicembre del 1882, dove l’uso del termine «nervosità» (e non ancora nevrosi o isteria) è posto a indicare in modo ambiguo il personaggio e/o lo stile dell’attrice.

[…] nervosità. È questa una parola moderna e da poco entrata nel gergo teatrale. La nervosità è in fondo una malattia come il vizio cardiaco e il mal di fegato. Le donne che la signora Duse si compiace di riprodurre sulla scena son quasi tutte isteriche e in condizioni morbose.[30]
Eleonora Duse in La moglie di Claudio di A. Dumas figlio

La prima questione è infatti: la nevrosi della Duse è per la critica una questione di repertorio o una questione di corpo scenico? Quanto al repertorio, quasi tutta la critica italiana sottolinea la particolarità dei testi portati in scena dalla Duse (francesi, contemporanei, dalla tematica costantemente centrata sui disagi di una condizione femminile che devia dalla norma di tradizione borghese); repertorio che, tuttavia, non è così dissimile da quello di tante altre compagnie primarie. In cosa consiste dunque la novità? È l’insieme che colpisce, è la omogeneità e la persistenza di un certo tipo di testi (e dunque di parti protagoniste) a fare la ‘sua’ differenza.

Dumas in particolare, ma anche Sardou, Scribe e Legouvé, Meilhac e Halévy, forniscono alla Duse partiture che sono innanzitutto provocazioni da cui partire. Al registro drammatico o drammatico-brillante e mai tragico e all’ambientazione per lo più contemporanea (con l’eccezione della Teodora di Sardou), caratteristica di questi testi è di avere come protagoniste figure femminili accumunate da una condizione che, in riferimento alle parole dell’attrice, possiamo definire dolorosa.[31] Sono cocotte, cortigiane o credute tali, o, ancora, figlie di cortigiane, protagoniste del demi-monde, come lo definì Dumas fils, che, in quanto demi, ‘assomiglia’ solo al mondo ma non è il mondo, piuttosto ‘recita’ il mondo e le sue passioni, i suoi sentimenti e valori, ma non li può vivere: tali sono le protagoniste di La principessa di Bagdad, Facciamo divorzio! Fernanda, La moglie di Claudio, Frou Frou, La signora dalle camelie, Odette, Una visita di nozze, Denise, Fedora, ma anche Zampa di gatto di Giacosa, Scrollina di Torelli. Per costoro l’integrazione nel mondo è impossibile, il senso di appartenenza alla società e ai suoi codici negato, lo scollamento fra il mondo interiore e quello esterno, e, ancor più, fra mente e corpo, l’artificio come unica strada di espressione sono realtà con cui convivere e dati non superabili. Il vuoto, la mancanza, la ferita di questi personaggi, il dolore come condizione esistenziale dellestraneità sono i dati che interessano la Duse.

A partire da qui l’attrice, attraverso il suo stile, mette in evidenza con marcature palesi l’elemento di eccentricità nervosa, facendo ‘lievitare’ quei testi in una direzione precisa (ma non scontata).[32]

Tutte le protagoniste dei lavori ch’essa ha con particolare cura studiati, hanno come nota caratteristica la eccentricità spinta fino quasi alla pazzia. E difatti Fedora, Frou-Frou, la Moglie di Claudio, la Principessa di Bagdad, sono tutti tipi diversi di esaltazione isterica che il Biffi ed il Verga saprebbero bene classificare – e che certo il Lombroso iscriverebbe nella immensa famiglia delle mattoidi.[33]

A leggere Fedora, Frou-Frou o la Principessa di Bagdad e soprattutto a vederli portati in scena da altre compagnie con altre primedonne a nessun critico è venuto in mente di utilizzare termini come nevrosi o isteria: sembra dunque che la differenza, in senso patologico, sia data dal modo in cui la Duse recita. E dunque, dall’uso del suo corpo in scena. E qui, sempre con riferimento alle testimonianze del tempo, l’impasto di elementi meccanici e di tratti convulsivi, di automatismi e di tensioni nervose, di repentine metamorfosi fra languori decadenti e scatti fulminei sembrano rendere il corpo scenico della Duse comparabile per analogia a tante altre espressioni del corpo nervoso e automatizzato ottocentesco.

Così sul «Pungolo della Domenica», con riferimenti medici puntuali, viene descritta la Duse nel 1884:

Cominciano i tic nella faccia; insorge l’affanno; le parole incoscienti, troncate a mezzo, ripetute, affollate, trascicate – non son frasi poetiche, ma citazioni da diagnosi mediche – vengono spente nel languore di uno svenimento; le braccia si agitano convulse, attraggono, stingono ferocemente, afferrano, scompigliano; i denti mordono e digrignano; si ulula e si urla come se l’anima della belva si fosse ridestata nell’uomo. Questa è la nevrosi.[34]

Anni dopo, il primo biografo dell’attrice, nonché compagno d’arte per qualche anno, Luigi Rasi, scriverà:

Ecco: la Duse, al primo tempo della sua grandezza, possedeva al sommo la faccia che noi vediamo il più spesso nelle malattie generali del sistema nervoso, e, particolarmente nelle grandi nevrosi: la faccia convulsiva. L’occhio agitato da tremiti impercettibili; si recava rapidamente in direzioni opposte; le guancie passavano con incredibile rapidità dal rossore al pallore; le narici e le labbra fremevano; i denti si serravan con violenza, e ogni più piccola parte del volto era in movimento... La persona poi, a significar ben compiuta la espressione del tipo, avesse guizzi serpentini, o abbandoni profondi, rispondeva perfettamente coll’azione e contrazione delle braccia, delle mani, delle dita, del busto, all’azione e contrazione del volto. E perciò, forse, la grande artista riusciva insuperabile nella presentazione dei personaggi a temperamento isterico.[35]

Molte cronache degli anni Ottanta formano complessivamente il racconto di un corpo in cui ricorrono con frequenza la frammentazione nei singoli dettagli, la estrema e sconcertante mobilità di ogni singolo frammento, percepito e restituito al lettore come pezzo di un corpo anatomizzato. Cioè a dire, queste cronache, anche da un confronto con le contemporanee cronache su altre attrici, testimoniano non solo la singolarità del corpo scenico della Duse ma anche un singolare modo di percepirlo e descriverlo, per dettagli pregnanti anatomizzati.

Mani che si contorcono continuamente che battono «il palmo […] sui braccioli, tenendo fermo il gomito», che appuntano «l’indice della mano destra continuamente in faccia a chi parla»,[36] che si agitano perennemente come quelle di un prestigiatore, che battono sui tavolini, si attaccano alle pareti, si lasciano scivolare sulle poltrone o strisciano sul viso.[37] Spesso qualcosa di meccanico si inserisce in un languore eccessivo delle membra, e «un certo abbandono inerte delle braccia lungo la persona stanca e abbattuta – un certo sollevare angoloso del braccio, tenendolo in una tal quale rigidezza meccanica – un certo sollevare delle mani aperte, con tutte le cinque dita divaricate» richiamano il corpo di un automa che può sollevare a scatti braccia «rrigidite» che «tagliano l’aria in modo bizzarro, colle mani strette a pugno convulsivamente».[38] Qualcuno critica l’eccesso di elementi «nervosi», «troppi i sussulti, troppi irrigidimenti, troppi scatti, troppe contrazioni – troppa epilessia, troppa catalessi»,[39] irrequietudini che divengono eccessive e «un po’ troppo frequenti, e un po’ troppo piene d’orgasmo» tanto che «quel “contrarsi continuo delle mani” pare a qualcuno “soverchiamente spasmodico” […] troppo evidentemente artificiale».[40]

Qualcun altro ricorda un dettaglio che apre il nostro discorso a una ulteriore via di indagine. La Duse avrebbe il difetto di «tenere alto il capo e piegare il corpo all’indietro» e di «camminare un po’ sghimbescio»,[41] «obliquamente»[42] come sui serpenti, scriverà la Ristori, e un critico tedesco all’inizio del 1893, parlerà di «un modo di camminare naturale, che ha qualcosa di strascicato, stentato, che sembra scivolare indietro, con il dorso incrinato».[43] Consapevolmente o meno, il corpo piegato all’indietro che fa ritorno anche in alcune immagini della Duse,[44] soprattutto caricaturali,[45] richiama il tropo visivo per eccellenza della malattia nervosa in Charcot: la curva, sia nella forma dell’inarcamento della schiena (la posa ad arco), sia nelle altre molteplici forme di contorsione che si ritrovano di in molte delle riproduzioni iconografiche delle donne isteriche della Salpêtrière.

P. Régnard, Catalepsie, in J.-M. Charcot, Iconographie photographique de la Salpêtrière, 1877A.Tellini, Caricatura in acquarello di Eleonora Duse, in L. Rasi, La caricatura e i comici italiani, 1907

Silvia Mei sottolinea giustamente un elemento importante che ricorre nel materiale iconografico relativo alla recita di Cavalleria rusticana in cui la Duse a partire dal 1884 vestì i panni della protagonista Santuzza: il contrasto fra un volto perennemente cangiante, dall’occhio convulsivo come avrebbe scritto poi Rasi, e un corpo irrigidito. Ricordando un passo di Susan Bassnet, che si avvale nella sua analisi del materiale iconografico relativo a questa recita, la studiosa sottolinea l’enfasi posta dall’attrice sulla testa mobilissima, mentre l’irrigidimento evidente dei muscoli del collo e di conseguenza del torace e delle spalle spezzano la tale espressività, quasi a indicare una compresenza di nevrosi e di repressione.

G. Orens, Eleonora Duse in Santuzza di Cavalleria rusticana

La voce della Duse poi è stridula e poco potente, dal timbro aspro che deve essere dissimulato «– ed essa ha inventata una recitazione tutta sua, rapidissima pianissima, che non consente nessuno scoppio di voce – e dissimula bene l’asprezza del timbro, facendolo parere concitazione dell’animo».[46] Il rifiuto di una «recitazione, come è stata sempre, bella, chiara, sonora» e la sostituzione con «una specie di pettegolezzo affrettato, svogliato, disarmonico, che spesso taglia a mezzo i periodi, che, in ogni modo, li riempie di dissonanze crudeli»,[47] sono un’altra testimonianza del procedere secondo un ritmo infranto che caratterizza non solo la sua recitazione ma anche in parte quella dell’insieme degli attori che le sono accanto.

In sintesi, dunque, le cronache ci parlano del modo di vedere e di raccontare il corpo scenico (della Duse) a fine Ottocento: sul piano descrittivo, compaiono in modo ricorrente tratti che proprio in quegli anni qualcuno (Charcot ma non solo lui) catalogava come caratterizzanti le malattie nervose e in particolare l’isteria; ma le cronache ci testimoniano anche, nella difficoltà di definire uno stile perturbante come quello della Duse, una complessiva propensione ad affrontare la diversità patologizzandola e riducendola a espressione di una degenerazione morale oltre che estetica. Nel discorso sulla Duse, i frammenti stilistici divengono così metonimici di un paradigma della malattia che li riaggrega in una verità di un’arte malata (in modo analogo a quanto Charcot aveva fatto con i sintomi isterici). La nevrosi da patologia medica sembra così passare a indicare la deformazione delle regole della sociale convivenza (di ordine, di compostezza, di distinzione e di educazione) proprio attraverso l’infrazione delle convenzioni estetiche di unità e armonia compositiva, di omogeneità e di linearità stilistica. Un solo esempio di una cronaca del 1885 renderà chiaro questo passaggio:

Le attrici della nuova scuola non piangono, sussultano nervosamente: non si disperano, si contorcono le mani, se la pigliano colle seggiole… E ve ne sono delle donne così conformate nel moderno repertorio; ve ne sono delle donne tutte nervi e senza cuore: ve ne sono di queste figurine anemiche, isteriche, malate di nevrosi… e queste la Duse le incarna bene. Ma ridurre le altre donne diversamente organizzate a questo, è falsare l’umanità del tipo, è formare il manierismo, o se si vuole il verismo.
Quando nella società per bene si troverà una signora educata che tiene le gambe cavalcioni, in presenza di altre persone; si metterà ogni pochino la mano nei capelli; scontorcerà continuamente mani e corpo; si dondolerà sulla seggiola: seduta sopra una poltrona o un canapè, parlando, batterà continuamente il palmo della mano sui braccioli, tenendo fermo il gomito: appunterà l’indice della mano destra continuamente in faccia a chi parla: anderà proprio sul viso a discorrere e… tante altre cose del genere converrò che rappresentando signore moderne, la Duse possa fare tutto ciò, converrò che queste cose siano permesse a una signora educata.[48]

È qui evidente, in analogia con quanto avviene più in generale nella cultura del tempo, come l’uso dei termini nevrosi/isteria sia un modo per connotare in senso patologico quegli elementi di emancipazione dei costumi che alludono all’affermazione di una nuova figura di donna a fine secolo. La Duse dà voce e corpo a signore che non appartengono alla società per bene, non solo perché rompe i principi di armonia, di unità del corpo scenico, ma anche perché più direttamente porta sul palco ciò che non deve essere rappresentato, in quanto minaccia l’ordine della società che il teatro di prosa del tempo così efficacemente rappresenta.[49]

Quando anche al riferimento alla nevrosi/isteria non si accompagni un giudizio negativo, certo la critica di quegli anni non fa alcun cenno esplicito alla più generale nevrotizzazione del soggetto nella società urbanizzata né avanza considerazioni sulla potenzialità creativa del corpo nervoso. Eppure, se dal punto di vista di Didi Huberman l’isteria è una invenzione (di Charcot ma con lui di un’intera cultura) che ha la finalità di normalizzare la differenza e se questo vale anche per la critica italiana nei confronti della differenza recitativa della Duse, da un altro punto di vista l’isteria, come coagulo di elementi formali e di pensiero, consapevolmente e artisticamente utilizzata (e dunque capovolta nelle sue valenze originarie), può diventare l’allegoria di quella condizione dolorosa che segna molti percorsi artistici della modernità e può farsi elemento centrale di una poetica artistica. Per dare forma scenica alla condizione dolorosa di cui si è detto, che è poi la condizione dell’estraneità dalle cose e dalla vita, dalle sensazioni e dagli affetti che caratterizza il soggetto nella società contemporanea e ancor più la donna e l’artista, il corpo scenico si nevrotizza, si dà a frammenti, vive di scarti stilistici, contraddice il corpo armonico. E così l’ostentazione di una mancanza (di pienezza, di esperienza, di sentimento, di vita), come per le donne di Charcot così anche per la condizione dolorosa della Duse attrice e delle sue donne, si dà nella finzione della scena come corpo nevrotico/isterico, opaco, non naturale, grottesco.[50] Un corpo che non esprime sentimenti ma la mancanza dei sentimenti, della possibilità stessa di provali per la rottura di quel rapporto fra interno ed esterno di cui si è detto: un corpo che dice, attraverso le maschere dei personaggi, l’impossibilità della vita, la finzione della vita, ma non mai la vita nella sua immediatezza.

Da nervi a nervi: il corpo dell’attrice e il corpo dello spettatore

In conclusione: quale parte viene riservata allo spettatore in questo mobilissimo quadro scenico? Nel 1884 Leone Fortis sul «Pungolo» di Milano scrive:

Così com’è, la Duse è un’artista che si ammira molto con la mente, ma che non si sente nel cuore – che si impone, che soggioga il pubblico come ha soggiogato, e lo confessai, la mia diffidenza – ma che assai difficilmente strapperà dal suo cuore uno di quei gridi irrefrenabili che solo la profonda commozione dell’animo può trarne.[51]

Qualcosa di molto simile sosterrà Adelaide Ristori nell’articolo pubblicato su «Le Gaulois» nel 1897: «Tale qual è la Duse è un'artista che la mente ammira assai, che si impone, che soggioga il pubblico, a cui comunica la sua sovraeccitazione nervosa, e lo trasporta».[52]

Qualcun altro testimonierà il disagio, scriverà di corde intime che vengono fatte vibrare, quasi di un senso di vergogna e di un groppo alla gola che non permette di ridire e di dare libero sfogo ai propri sentimenti, un «brivido freddo», un senso di «vergogna».[53] Mirella Schino propone di parlare di un «dramma del guardare»,[54] abilmente orchestrato e diretto dall’attrice attraverso il suo modo di utilizzare gli elementi della scena, dal rapporto con gli oggetti a quello con gli altri attori: la tendenza a recitare a stretta vicinanza con i compagni, a toccarli oltre che a toccare il proprio volto e gli oggetti che la circondano, l’esasperazione del principio di resistenza quale principio regolatore dei suoi rapporti in scena, la sottolineatura di momenti fisicamente perturbanti (il lungo bacio in Luna di miele o quello in Fedora), o ancora l’infittirsi di gesti inutili con i quali l’attrice smontava l’organicità del testo, la capacità di creare primi piani improvvisi avvicinando sguardo e attenzione dello spettatore su dettagli imprevisti. Il dramma del guardare diviene partecipazione quasi fisica, nervosa, espressione di una relazione intima e febbricitante che provoca ora disagio ora afasia. Sarebbe molto interessante fare uno studio diacronico (oltre che sincronico nei vari paesi) sullo spettatore di Eleonora Duse, comparativo anche rispetto agli altri attori e attrici a lei contemporanei e rispetto alle diverse fasi del suo percorso artistico. Per restare ora in Italia e negli anni Ottanta, la ricorrenza più significativa è ancora una volta il riferimento all’universo dei nervi, la distanza rispetto all’allora consueto canale di comunicazione fra scena e platea (il cuore, il sentimento che provoca commozione) e l’insistere su un verbo ‘soggiogare’ collegato alla sovreccitazione nervosa. ‘Da nervi a nervi’: ecco un tipo di comunicazione che si libera dall’imperio dell’immedesimazione psicologica e dell’adesione emotiva, che passa per un canale di comunicazione sottile, vibratile, agile e va a colpire proprio quella parte immediatamente reattiva e sciolta dal controllo della mente e della coscienza dello spettatore. La sovraeccitazione nervosa non induce l’immedesimazione e raffredda il sentimento, non si dispiega secondo i ritmi di un crescendo emotivo, ma costringe a un’esperienza frammentata e discontinua, è intensa e violenta ma non conduce al pianto. Infine: riguarda un universo di senso nel quale, proprio perché il rapporto interno/esterno (vissuto intimo ed espressione delle emozioni) tanto del personaggio quanto dell’attrice è interrotto o comunque reso problematico, cade (talvolta) o si problematizza (più spesso) anche il rapporto verità/finzione inteso come verità dei sentimenti, delle emozioni che dal personaggio passa all’attore e quindi allo spettatore. Viene in tal modo messo in discussione un meccanismo proprio di tanto teatro del tempo, in cui la commozione (e il pianto) finali permettono allo spettatore di scaricare il surplus di energie accumulate durante la recita, nella quale ha potuto provare per procura e per un periodo circoscritto quelle emozioni che non sono concesse alla vita. Di fronte allo specchio deformato della realtà (il corpo scenico della Duse) che porta al centro del quadro ciò che non è ammesso nella società ordinata, ciò che non può integrarsi e che resta allo stato di frammento disarmonico, i corpi degli spettatori sono costretti a spogliarsi delle proprie armoniche certezze e, ampliando la metafora della condizione dolorosa, a isterizzarsi anch’essi. Qualcosa di più del dramma del guardare.


1 A. Violi, Il teatro dei nervi. Fantasmi del moderno da Mesmer a Charcot, Milano, Mondadori, 2004, p. 1.

2 Ibidem.

3 Cfr. F. McCarren, Dance Patologies. Performance, Poetics, Medicine, Stanford, Stanford University Press, 1998; G. Lista, Loïe Fuller danseuse de la Belle Époque, Paris, Somogy éditions d’art, 1994; P. Veroli, Loie Fuller, Palermo, L’Epos, 2009.

4 Era diffuso a Parigi il così detto genere epilettico di cui erano rappresentanti Paulus, Polaire. Cfr. R.B. Gordon, Le caf’conc et l’hysterie, «Romantisme», IXI, 64, 1989, pp. 9-21 e Id., Dances with Darwin 1875-1910: Vernacular Modernity in France, Aldershot, Ashgate, 2009.

5 A. Violi, Le cicatrici del testo, Bergamo, Sestante, 1998, p. 9.

6 F.A. Mesmer, Le magnetisme animal. Amadou, Payot, Paris, 1791. Sul magnetismo animale da Mesmer in poi esiste un’ampia letteratura di cui ricordiamo solo alcuni titoli: F. Rausky, Mesmer o la rivoluzione terapeutica [1977], trad. it. di L. Sosio, Milano, Feltrinelli, 1980; H.F. Ellenberger, La scoperta dell’inconscio. Storia della psichiatria dinamica [1970], Torino, Bollati Boringhieri, 1976; L. Chertòk, R. de Saussure, La Naissance du psychanaliste, de Messmer à Freud, Paris, Payot, 1973; A. Civita, Ricerche filosofiche sulla psichiatria, Milano, Guerini studio, 1990; in particolare sull’ipnosi e il cinema rimandiamo a R. Eugeni, La relazione d’incanto. Studi su cinema e ipnosi, Milano, Vita e Pensiero, 2002. Sul rapporto ipnotismo e scena teatrale vittoriana cfr. A. Winter, Mesmerized, Chicago, University of Chicago, 1998. In sintesi la proposta di Mesmer si articolava in quattro punti: «1. un sottile fluido fisico riempe l’universo e forma un mezzo di connessione tra l’uomo e la terra, i corpi celesti, e anche tra uomo e uomo; 2. la malattia ha origine dalla distribuzione non omogenea di tale fluido all'interno del corpo umano, la guarigione si ottiene quando viene ristabilito l’equilibrio; 3. Con l’aiuto di talune tecniche il fluido può essere incanalato e immaganizzato, e convogliato in altre persone; 4. In questo modo si possono provocare nel paziente delle crisi e si possono curare le malattie» (H. F. Ellenberger, La scoperta dell’inconscio, cit., p. 71).

7 Mesmer arrivato a Parigi introduce il dispositivo del baquet (tinozza) che permette di allargare l’originaria pratica terapeutica a due (medico di fronte a paziente) a un collettivo di pazienti disposti intorno alla tinozza che funziona da catalizzatore di magnetismo.

8 E.A. Poe, La verità sul caso di Mr. Valdemar, in Id., Racconti del Terrore, Milano, Mondadori, 1985. Il più famoso dei racconti legati al mesmerismo e all’ipnosi è certamente Trilby, romanzo di George du Maurier. La storia della cantante lirica dalla straordinaria voce e del suo compagno e ipnotizzatore Svengali ha un successo straordinario alla fine dell'’Ottocento e attraversa tutte le arti contemporanee: dal romanzo illustrato dall’autore stesso, alla piéce teatrale al balletto fino alle numerose versioni cinematografiche (a partire da quella del 1914 di Harold M. Shaw). Cfr. R. Eugeni, La relazione d’incanto, cit.

9 A. Violi, Il teatro dei nervi, cit., p. 134.

10 M. Nordau, Degeneration [1892], Lincoln, University of Nebraska Press, 1993, p. 84.

11 J.-M. Charcot, Œuvres completes, Paris, Progrès médical /Lecrosnier e Babé, 1886-1893; in italiano di Charcot sono stati recentemente tradotti alcuni scritti: Le indemoniate nell’arte, trad. it. di G. Sangalli, Milano, Spirali, 1980; La donna dell’isteria, trad. it. di M.G. Amati, Milano, Spirali, 1989; Lezioni alla Salpêtrière, trad. it. di A. Civita, Milano, Guerini associati, 1989. Per ciò che riguarda la bibliografia critica su Charcot, ricordiamo solo: G. Guillain, J.-M. Charcot (1825-1893). Sa vie. Son œuvre, Paris, Masson, 1955; S. Freud, Charcot, in Id., Opere 1892-1899. Progetto di una psicologia e altri scritti, Torino, Bollati Boringhieri, 1968 e Id., Prefazione e note alla traduzione delle “Lezioni del martedì alla Salpêtrière” di J-M. Charcot, in Opere 1886-1895. Studi sull'isteria e altri scritti, Torino, Bollati Boringhieri, 1982; M. Foucault, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France, (1973-1974), Milano, Feltrinelli, 2004; G. Didi-Huberman, L’invenzione dell’isteria. Charcot e l’iconografia fotografica della Salpêtrière [1982], Genova, Marietti, 2008; Id., Postfazione a J.-M. Charcot, P. Richer, Les Démoniaques dans l’art. Suivi de ‘la foi qui guérit’, Paris, Macula, 1984; H.F. Ellenberger, La scoperta dell’inconscio, cit.; W. Bannour. Jean-Martin Charcot et l'Hystérie, Paris, Métailié, 1992; T. Gelfand, C. Goetz, M. Bonduelle, Charcot. Constructing Neurology, New York, Oxford University Press, 1995; L. Dibattista, J.-M. Charcot e la lingua della neurologia, Bari, Cacucci, 2003.

12 P. Briquet, Traité Clinique et Thérapeutique de l’Hysterie, Paris, J-B Ballière & Fils, 1859.

13 M. Modenesi, “La névrose qui agite notre siècle”. Narrativa naturalista e narrativa simbolista a confronto, in S. Cigada, M. Verna (a cura di), Simbolismo e naturalismo: un confronto, Milano, Vita e Pensiero, 2006, p. 215. Cfr. Anche M.A. Trasforini, Corpo isterico e sguardo medico. Storie di vita e storie di sguardi fra medici e isteriche nell’800 francese, «Aut aut», 187-188, gennaio-aprile 1982, pp. 175-206; M. Russo, Female Grotesque: Carnival and Theory, «Feminist Studies/Critical Studies», a cura di T. de Laurentis, London, MacMillan, 1986.

14 Le prime fotografie della follia vennero realizzate al Surrey County Asylum di Springfield in Inghilterra, diretto dal dottor H.W. Diamond, presidente della Royal Photographic Society. Alla Salpêtrière l’introduzione avviene a partire dal 1876, con P. Régnard. Di qui le pubblicazioni sistematiche di due grandi raccolte fotografiche: Iconographie de la Salpêtrière (1875-1877), Paris, Delahaye, 1877 e Nouvelle Iconographie della Salpêtrière (1888-1918), Paris, Lecrosnier et Babè Libraires-Éditeurs, 1888. Come scrive Albert Londe, direttore negli anni ’80 del servizio fotografico della Salpêtrière, la macchina fotografica è «la vera retina dello scienziato»: A. Londe, La photographie dans les arts, les sciences et l’industrie, Paris, 1888, p. 24.

15 Rimando a questo proposito a G. Didi-Huberman, L’invenzione dell’isteria, cit., pp. 155-225.

16 R. Eugeni, La relazione d’incanto, cit., pp. 112-13.

17 G. Didi-Huberman, L’invenzione dell’isteria, cit., p. 305.

18 Ibidem.

19 Quando nel 1888 Capuana offre la sua riduzione teatrale di Giacinta a Eleonora Duse, certo lo fa anche in relazione a questo retroterra culturale; purtroppo l’attrice, che accoglie in un primo momento entusiasticamente la proposta, poi declina l’invito. Giacinta sarà portata in scena dalla Compagnia di Cesare Rossi il 18 maggio 1888, al teatro Sannazzaro di Napoli, presente, fra gli altri, Giovanni Verga, e sarà complessivamente un insuccesso. Cosa ne avrebbe fatto la Duse non ci è dato sapere; ma certo Capuana oltre che dalla stima per l’attrice, condivisa anche con Verga, Gualdo, Boito, Giacosa, era stato spinto anche dalla consonanza fra il consueto repertorio di questa attrice in quegli anni coniugato a quel suo particolare modo di recitare e la sua Giacinta, emblema di una femminilità scissa fra vita reale e fantasie di fuga, una Emma Bovary italiana, affetta da malesseri e crisi nervose, condannata alla solitudine, all'incomunicabilità, espressione di un sentire moderno infine sconfitta nella impossibilità di trovare una via di uscita. Un’occasione mancata o forse l’indicazione che per la Duse il terreno più fertile all’espressione della propria artisticità resta, per il momento e nonostante alcuni inserti italiani (da Cavalleria rusticana e In portineria di Verga a Tristi amori di Giacosa alla Moglie ideale di Praga), il repertorio francese.

20 Cfr. C. Maggiorani, Il magnete e i nervosi. Centurie di osservazioni, Milano-Napoli-Palermo, 1869; Id., Sul centro nervoso che presiede alle vicende di catalessi, Roma, 1879; C. Lombroso, Sull’azione del magnete e sulla trasposizione dei sensi nell’isterismo, «Archivio di psichiatria, Scienze penali e Antropologia criminale», III, 2, 1882. Su questi temi rimando a C. Gallini, La sonnambula meravigliosa. Magnetismo e ipnotismo nell’Ottocento italiano, Milano, Feltrinelli, 1983 e, in particolare, al capitolo dedicato all’Isterica.

21 Ricordo innanzitutto la «Gazzetta medica italiana» edita in diverse province italiane, sulla quale proprio agli inizi degli anni ’80 vengono pubblicati i primi studi dedicati a ipnosi e isteria: dei medici Tamburini e Seppilli (sez. Lombardia, n. 26, 1881), di Gaetano Cernuscoli (sez. Veneta, n. 13, 1882), di Lorenzo Ellero (sez. Veneta, n. 46, 1882), interventi nei quali il riferimento a Charcot è sempre presente. Cfr. L. Ellero, Sopra un caso di ipnosi con fenomeni della cosidetta trasposizione dei sensi: Lettera del dott. Lorenzo Ellero al Prof. Achille De Giovanni, Padova, Prosperini, 1882.

22 La letteratura critica in merito è molto ampia, per il caso italiano ricordiamo almeno: V. Roda, Il soggetto centrifugo. Studi sulla letteratura italiana fra Otto e Novecento, Bologna, Pàtron, 1984; A. Dolfi (a cura di), Nevrosi e follia nella letteratura moderna, Roma, Bulzoni, 1993; E. Comoy Fusaro, Nevrosi fra medicina e letteratura. Approccio epistemologico alle malattie nervose nella narrativa italiana (1865-1922), Firenze, Polistampa, 2007.

23 Fra i principali testi ricordiamo: Una nobile follia (1866) e poi Fosca (1869) di Tarchetti, Tigre reale (1875) e solo in parte La lupa (1880) di Verga, La gran rivale (1868) e Decadenza (1892) di Gualdo, alcune novelle di Boito come Macchia grigia (1877) e Notte di Natale (1876), Giacinta (1879) e Profumo (1890) di Capuana.

24 E. Comoy Fusaro, Nevrosi fra medicina e letteratura, cit., p. 218.

25 Solo in alcuni casi (Bouvard di Tarchetti, Trapezio di Boito per esempio) i personaggi nevrosici rifiutano i modelli sociali.

26 Se anche vengono inseriti in repertorio testi più piccanti di quanto il gusto moralistico italiano fosse allora abituato a sopportare, tuttavia la loro sostanza, come scrisse acutamente d’Arcais, resta moralissima: cfr. F. d’Arcais, Appendice a Rivista drammatico-musicale, «L’Opinione», 21 febbraio 1881, p. 1.

27 Il Tommaseo Bellini attesta «neurosi» e non «nevrotico» in Il Vocabolario universale italiano compilato a.c. della Società Tipografica Tramater e C, Napoli, 1829-1840, area semantica che attiene alla patologia a differenza del più neutro «nervoso».

28 Rimando per questo a D. Orecchia, La prima Duse. Nascita di un’attrice moderna, Roma, Artemide, 2007.

29 Cesare Molinari nel suo L’attrice divina. Eleonora Duse nel teatro italiano fra due secoli (Roma, Bulzoni, 1985) aveva già affrontato il problema. Proprio dalla lettura delle sue pagine nasce questa riflessione.

30 s.i.a., Rassegna drammatica, «Nuova Antologia», 36, novembre-dicembre 1882, pp. 564-565.

31 «Io non guardo se hanno mentito, se hanno tradito, se hanno peccato – o se nacquero perverse – purché io senta che esse hanno pianto – hanno sofferto per sentire o per tradire o per amare… io mi metto con loro e per loro e le frugo frugo non per mania di sofferenza, ma perché il compianto femminile è più grande e più dettagliato, è più dolce e più completo che non il compianto che ne accordano gli uomini»: citiamo dall’appendice a firma di D’Arcais (Rivista drammatico-musicale) comparsa sull’«Opinione» il 29 dicembre 1885 (p. 1) in cui il critico trascrive la lettere dicendo di averla da poco ricevuta.

32 Sul rapporto fra repertorio, recitazione, poetica dusiana rimando al mio La prima Duse, cit.

33 D.V. [Leone Fortis], Corriere dei teatri, «Il Pungolo», 6-7 maggio 1884.

34 Dott. Bugia, La Duse, «Il Pungolo della Domenica», 11 maggio 1884, p. 149.

35 L. Rasi, La Duse, Roma, Bulzoni, 1986, p. 27.

36 A. Manzi, La Duse e la nuova scuola (Vero e Verismo), «La Scena illustrata», 15 febbraio 1885, p. 4.

37 Cfr. Jarro [G. Piccini], I nervi della Duse, in Id., Sul palcoscenico e in platea, 1893; ma anche Filippi, Rassegna Drammatico-Musicale. La Duse, «La Perseveranza», 30 maggio 1884.

38 Colizzo, Venezia. La Duse al Rossini, «L’Arte drammatica», 7 aprile 1888, p. 2.

39 Dr. Verità [Leone Fortis], Corriere dei teatri, cit.

40 D.V. [Leone Fortis], Corriere dei teatri, «Il Pungolo», 12-13 maggio 1884.

41 Filippi, Rassegna Drammatico-Musicale. La Duse, «La Perseveranza», 30 maggio 1884.

42 s.i.a., Corriere dei teatri, «Il Pungolo»., 9-10 maggio 1884.

43 P. Schlenther, Eleonora Duse, «Deutsche Rundschau», hrsg. von Julius Rodenberg, Heft 4, Januar 1893, pp. 127-139. L’articolo, come altri dello stesso autore e di altri critici tedeschi, è in corso di pubblicazione, a cura di Cristina Grazioli, per «Mimesis Journal. Rivista semestrale di studi sula vita e le forme di teatro», http://www.ojs.unito.it/index.php/mj/index. Ringrazio Cristina Grazioli per la segnalazione.

44 A proposito dell’iconografia dusiana, si rimanda a S. Mei, Sulle ali della sua intelligenza. Note a margine all’iconografia dusiana, in I. Biggi, P. Puppa (a cura di), Voci e anime, corpi e scritture, Atti del convegno internazionale su Eleonora Duse, Roma, Bulzoni, 2009.

45 Abbiamo scelto di esemplificare sulle caricature piuttosto che sulle fotografie (che sono per questi anni tutte foto in posa) perché il disegno, e in particolare quello caricaturale, permette di testimoniare meglio e più efficacemente il corpo agito in scena, sottolineando le peculiarità del movimento; ma ancor più perché ci interessa qui affrontare il discorso sullo sguardo rivolto alla Duse, su come i contemporanei vedono e trattengono memoria di quel corpo e di quello stile recitativo.

46 Dr. Verità [Leone Fortis], Corriere dei teatri, «Il Pungolo», 4-5 maggio 1884.

47 La Domenica, Nella settimana, «Domenica letteraria», 28 ottobre 1883, p. 5.

48 A. Manzi, La Duse e la nuova scuola (Vero e Verismo), cit.

49 All’interno di questo percorso l’incontro successivo della Duse con la drammaturgia di Ibsen (con Nora Helmer di Casa di bambola, innanzitutto, ma anche con Rebecca West di Rosmersholm) le permetterà di approfondire questo percorso, che incrocia, senza mai aderirvi perfettamente, il pensiero e il dibattito sulla ‘donna nuova’ di fine secolo. Allora tuttavia la Duse avrà smussato parte dei tratti nervosi fin qui descritti: il suo stile sarà allora l’espressione di un modo di sentire la realtà del mondo e quella dell'arte come in uno stato di vecchiezza, in cui poetica della sottrazione subentrerà a quella della nevrosi. Cfr. C. Molinari, L’attrice divina, cit. Ma su questo punto sarebbe necessaria una lunga argomentazione che non è possibile sviluppare in questa sede.

50 «Il sistema di gesti isterici dell’attacco sembra attingere al mondo del corpo grottesco come corpo in divenire, che esce dai limiti e cerca di superare la frattura col mondo e con gli altri corpi»: M.A. Trasforini, Corpo isterico e sguardo medico, cit., p. 202.

51 D.V.[Leone Fortis], Corriere dei teatri, «Il Pungolo», 4-5 maggio 1884.

52 A. Ristori, Lettera a Giuseppe Primoli, conservata presso il Museo dell’Attore di Genova, Fondo Ristori, ora anche in M. Schino, Il teatro di Eleonora Duse, Nuova edizione riveduta e ampliata, Roma, Bulzoni, 2008, p. 440.

53 P. Rajskij, La Duse a Pietroburgo, trad. it. di M. Di Giulio, «Ariel», gennaio-agosto 1989, pp. 41-54.

54 Cfr. M. Schino, Il teatro di Eleonora Duse, cit., pp. 63-66 ma anche sgg.