Incontri reali, annunciati, mancati fra arte e teatro negli anni Sessanta. I ‘luoghi della parola’

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Il saggio ha l’obiettivo di indagare i ‘luoghi della parola’ all’interno dei quali, lungo gli anni Sessanta, arti visive e performative hanno iniziato a entrare in relazione. Vengono anzitutto presi in considerazione i primi convegni che hanno coinvolto figure appartenenti all’uno e all’altro settore, dall’esame dei quali emergono testimonianze, visioni, riflessioni che rimettono in discussione le prospettive correnti sull’argomento e illuminano in particolare il processo di rinnovamento della critica in quel periodo. Infine, in forma di contrappunto, l’autrice dedica spazio alle prospettive degli artisti, anch’essi impegnati in un affine – ma sensibilmente diverso – scambio transdisciplinare nel medesimo giro d’anni.

The essay aims to investigate the theoretical contacts between arts and theatre in Italy during the 1960s. The examination of the first conferences involving figures from both fields challenges the current perspectives on the relationships between the two disciplines, and highlights in particular the process of refoundation of criticism in that period. Finally, the author moves to the perspectives of the artists, who were also engaged in a similar transdisciplinary confrontation, but in a quite different way.

0. Premessa: incontri reali fra arte e teatro negli anni Sessanta

Nel territorio cangiante e frastagliato, non ancora del tutto sondato – almeno dal punto di vista teatrologico –, dei rapporti fra arti visive e performative nell’Italia degli anni Sessanta, in particolare nell’ottica del loro reciproco rinnovamento, il presente contributo è stato commissionato con un obiettivo preciso: indagare i ‘luoghi della parola’ che hanno accolto i primi incontri fra i due campi.

Nella preliminare attività di ricognizione e loro identificazione, si è manifestato poi un secondo, peculiare proposito, individuato come necessario da chi scrive: saggiare la qualità dei contatti reali che in quel contesto si sono sviluppati fra i due campi. Vale a dire, non le convergenze ideali ‘a distanza’, numerose e pure importanti, e nemmeno le esperienze circoscritte a incontri individuali; ma i dialoghi concreti e complessivi, dal vivo, che si sono effettivamente costruiti fra un versante e l’altro nell’arco di tempo analizzato. Ciò significa, anzitutto, concentrarsi sugli eventi, spesso storicamente ‘impalpabili’, sugli intrecci di relazioni e sulle persone intorno a cui questi s’irradiano: una materia cangiante, apparentemente inafferrabile, che però spesse volte è stata riconosciuta come caratterizzante nell’ambito della storia dello spettacolo; e che anche in questo caso si auspica possa offrire un contributo a ri-osservare fatti, storie e tendenze noti.

Anzitutto sonderemo i primi convegni che lungo il decennio cominciano a riunire esponenti di entrambe le aree, seguendo lo sviluppo del rapporto fra arti e teatro dal punto di vista teorico: attraverso le testimonianze scritte, verranno esaminati alcuni episodi legati all’iniziativa di Germano Celant e di Giuseppe Bartolucci, fra i primi promotori del dialogo su questi versanti. Ma questa prima ricognizione, che occupa la gran parte delle pagine che seguono, non è sembrata, a chi scrive, sufficiente: mancava, infatti, la voce degli artisti. Si è ritenuto quindi opportuno, in chiusura, provare a porre il dibattito critico a confronto con la loro prospettiva. Perciò, prenderemo in considerazione in termini di ‘contrappunto’ uno dei vari progetti che nello stesso periodo coinvolge fattivamente praticiens dell’uno e dell’altro ambito: l’happening Grammatica No Stop Teatro ideato da Achille Perilli, che sarà richiamato tramite una fonte particolare, quale il film sull’evento girato da Alberto Grifi.[1]

Di primo acchito, potrebbe sembrare che i due oggetti di studio non abbiano molto in comune. Invece, provengono in un certo senso dal medesimo ambiente: quello che s’irradia intorno al percorso del Gruppo 63, di cui va riconosciuta la natura – anche problematica – di matrice.[2]

La lettura comparata dei due livelli d’indagine condurrà a identificare diversi punti di contatto possibili fra arte e teatro. Non da ultima, la netta divaricazione che a quest’altezza cronologica si può percepire fra artisti e osservatori, fra prassi e teoria. Nonostante nei casi analizzati sia addirittura presente un alveo generativo comune, le due traiettorie – pratico-artistica e teorico-critica –, per quanto riguarda gli anni Sessanta, paiono destinate a rimanere due facce di una stessa esperienza che in quel periodo è ancora in fase di elaborazione.

Dalla perlustrazione delle fonti, delle visioni e delle motivazioni dei protagonisti, colti nei loro primi effettivi contatti, scopriremo infatti che le diverse acquisizioni sul tema dei rapporti fra arti e teatro sono frutto di un precoce processo di auto-storicizzazione da parte della critica. E che talvolta si pongono in fruttuoso contrasto con uno scenario che in questa fase si presenta magmatico, decisamente sperimentale e del tutto in divenire; in cui non esistono piste già battute, ma si aprono possibilità di lavoro inedite e il ‘nuovo’ – compresa la relazione fra arti e teatro – è ancora tutto da costruire.

 

1. Arti e teatro a convegno intorno al Sessantotto, con un’eccezione

Va precisato anzitutto che la forma-convegno, negli anni Sessanta in Italia, non è ancora diffusa e consolidata nei termini di quello spazio di confronto e ibridazione fra le arti in cui si convertirà a partire dai Settanta, dischiudendo radicali orizzonti di ripensamento dei saperi e in special modo dei loro confini. Non che non si organizzassero già iniziative di questo genere nell’uno e nell’altro campo.[3] Ma, almeno per quanto concerne il teatro, è proprio in questo momento che tale forma si mette a punto nei termini di un dispositivo – poi diffusissimo – di confronto transdisciplinare, capace di esercitare quella funzione propulsiva di rinnovamento che sarebbe stata associata in seguito a tali luoghi di discussione (un esempio lampante di tale processo in progress è la non-documentazione, parziale ed ‘esplosa’ di un evento-cardine come il Convegno di Ivrea).[4]

Fino a un certo punto, i congressi teatrali realizzati fra il 1959 e il 1969 rimangono tutto sommato rigidamente ancorati a una visione moderna della scena, alla questione del testo, alle istituzioni di riferimento, insomma a problemi interni al sistema dello spettacolo dal vivo. Soprattutto – per il tema qui indagato – entro tale scansione temporale non sembrano darsi occasioni d’incontro reali, concrete e complessive fra arti visive e teatro. La situazione cambia tardi: verso la fine del periodo, più precisamente fra il ’67 e il ’69, con un giro di boa che ruota fatalmente intorno alle stagioni più ‘calde’ della contestazione.[5]

La copertina del catalogo di Arte povera più azioni povere, Salerno, Rumma, 1968

Possiamo valutare fra i primi episodi di questo processo di ‘avvicinamento’ l’Assemblea che si organizza nel contesto di Arte povera più azioni povere, curata ad Amalfi dal 4 al 6 ottobre 1968 da Germano Celant, nel quadro della terza (e ultima) Rassegna di Arti figurative promossa da Marcello Rumma.[6] Come constata Piero Gilardi nella sua sintesi pubblicata sul catalogo della manifestazione, l’evento rappresenta una sorta di «coronamento»: se non proprio – come suggeriva –[7] dell’intero percorso di ‘performativizzazione’ delle arti (anche) in Italia, almeno del processo di maturazione e trasformazione in quest’ottica dell’Arte povera.

Consacrata appena l’anno prima, la tendenza è infatti fra i primi fenomeni nel campo delle arti visive nel nostro Paese a mettere in forma un riferimento sistematico, esplicito e complessivo alle arti sceniche nel quadro del generale processo di ‘teatralizzazione’ in atto.[8] E rispetto alle tappe precedenti predisposte da Celant, l’evento di Amalfi si pone come un tentativo ulteriore in questo senso: in quanto – come si spiega fin dal titolo – si intende accostare a opere e installazioni anche una serie di ‘azioni’ create dagli artisti, aprendo a un confronto sempre più stretto e diretto con la dimensione performativa.

Non a caso, fra i partecipanti figura uno dei maggiori critici teatrali del tempo: Giuseppe Bartolucci, che pochi mesi prima si era fatto promotore di un’altra iniziativa affine, dal titolo Per un nuovo senso dello spettacolo.[9] L’incontro, organizzato assieme al critico d’arte Giorgio De Marchis nel contesto della IVa Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro fra l’1 e il 3 giugno 1968, poneva anch’esso la rinnovata centralità della questione performativa e coinvolgeva numerosi artisti e teorici dell’uno e dell’altro versante.[10] Dunque, si configurerebbe come il primo dialogo dal vivo fra arti e teatro negli anni Sessanta. Purtroppo, pare che il convegno non si sia concretizzato,[11] ma si è ritenuto comunque di prenderlo in considerazione, soprattutto perché vari contributi preparati per l’evento (o collegabili a esso) risultano almeno in parte pubblicati.[12]

Abbiamo dunque due oggetti d’indagine, ciascuno, come si è visto, con i propri limiti. Da un lato, c’è l’incontro di Pesaro, mai realizzato e solo in parte documentato (peraltro, col filtro peculiare della prospettiva di Bartolucci, che raccoglie gli scritti in sede editoriale). Dall’altro, quello di Amalfi, con tanto di una consistente restituzione ex post (anche se più che di veri e propri atti di convegno, si può parlare di un’auto-narrazione a più voci mirata a rielaborare l’evento secondo una precisa prospettiva critica). Mentre, com’è evidente, quest’ultimo evento risulta fortemente sbilanciato sul lato – peraltro molto circoscritto – delle arti visive e, nello specifico, di conseguenza, sull’idea di teatro che si andava modellando in quell’ambito.

Assieme, però, i due oggetti vanno a comporre un dittico importante. Fanno parte a pieno titolo di un continuum di pratiche e di pensiero, almeno in parte analizzabile, che sta a fondamento di alcuni fenomeni relazionali fra le due aree, poi riconosciuti come caratterizzanti dagli anni Settanta (e invece, evidentemente, già attivi fin da prima). Così, pur con tutti i problemi storiografici esposti, questi episodi possono rendere quantomeno un’idea dei rapporti reali fra arti e teatro negli anni Sessanta: sia di ciò che stava succedendo in quel momento nel campo di forze che si andava costruendo fra i due settori; sia – soprattutto – di cosa si auspicava di poter fare accadere di lì in avanti attraverso tali confronti.

 

2. Un incontro reale e ‘mancato’? Convergenze e divergenze dal punto di vista del teatro

Nei testi prodotti per l’Assemblea di Amalfi, il tema della teatralità e le questioni a esso correlabili non vengono posti al centro del dibattito. Gli argomenti ricorrenti e diffusi sono ben altri: la mercificazione dell’arte, il ruolo dell’artista nella società tardo-capitalista, i legami coi meccanismi di potere e più ampiamente con la loro contestazione. La performatività entra frontalmente soltanto in alcuni discorsi individuali (ma significativi). Così è comunque possibile isolare alcuni primi, potenziali punti di contatto, segnati dalla prospettiva di determinati osservatori:

  • il binomio determinante fra ‘corporeità’ ed ‘essenzialità’ (per usare due termini condivisi da Celant e da Bartolucci);[13]

  • la sostanziale revisione delle relazioni fra arte e vita;[14]

  • a cascata, la mutazione del rapporto fra individuo-artista e collettività-pubblico, con rimandi diretti alle ideologie e alle pratiche della contestazione.[15]

 L’Assemblea di Amalfi, documentata nel catalogo di Arte povera più azioni povere

A questi temi – con tutti i limiti del caso – possiamo sommare quelli emergenti dai contributi correlabili all’incontro di Pesaro, un contesto di maggior respiro teorico, in quanto svincolato dal confronto con un evento preciso. Inoltre, tali scritti riflettono esplicitamente sul dialogo fra arti visive e performative: paiono essere stati raccolti da Bartolucci proprio a tal scopo, come a radicare e sostanziare una tendenza relazionale che andava via via, nel tempo, prendendo sempre più corpo.[16] Nei testi correlabili al convegno marchigiano la rete di potenziali connessioni appena tracciata si conferma e consolida, mentre vengono introdotti anche aspetti nuovi. Così, potremmo completare il quadro degli elementi convergenti fra arte e teatro alla fine degli anni Sessanta sempre secondo la prospettiva dei critici che li stavano osservando, aggiungendo al nostro inventario in fieri:

  • l’inedito accento sulla dimensione della temporalità e della processualità;

  • la fuoriuscita dai luoghi e dalle forme tradizionali, con la costruzione di nuovi spazi (fisici e/o ideali) di lavoro;

  • una peculiare declinazione della rifondazione delle relazioni arte/vita e individuo/collettività che assume le forme della ricerca di un rapporto differente, più attivo con lo spettatore (e più ampiamente con la società).[17]

Qui e lì si va profilando una battaglia aperta, esplicitamente anti-istituzionale, che prende di mira i paradigmi vigenti nei sistemi della produzione e fruizione artistica, peraltro tramite con un richiamo affine, da una parte, alle Avanguardie Storiche[18] e, dall’altra, agli scenari internazionali della ricerca.[19] A conti fatti, l’autentico fil rouge che pare unire sul momento arti e teatro – o, meglio, determinate zone dei due ambiti –, com’è stato notato, è più di tutto quello della rivolta.[20] È forse questa la motivazione di fondo che conduce le due discipline a confronto, suggerendo la possibilità – ancora tutta in potenza – di un’impresa davvero condivisa; o, quantomeno, è questa la fisionomia che la relazione assume nel pensiero, nella riflessione e nell’immaginazione che i teorici di entrambi i campi a quest’altezza cronologica cominciano a tracciare.

Fin qui, comunque, non emergono novità particolari, è in gran parte storia nota. Negli interventi di critici e studiosi provenienti da questi primi incontri reali fra arte e teatro si conferma tutto sommato quello che è il profilo riconosciuto dei contatti fra i due settori nel secondo Novecento. Ma, scavando sotto la superficie dei ragionamenti considerati, emergono delle questioni implicite che lasciano intravedere alcuni dati di convergenza più strutturali, seppur meno visibili; e, al tempo stesso – al di là dei tanti «falsi specifici» di cui è costellato tale territorio in questo periodo – ,[21] anche diversi snodi di divergenza sostanziali (ma non per questo meno interessanti).

Partiamo dalla delicata questione della sperimentazione di un differente rapporto con lo spettatore, con la comunità, con la società in rivolta: nel contesto del Nuovo Teatro italiano degli anni Sessanta risulta avulsa dalla vocazione partecipativa – in senso stretto e in senso lato – che si può leggere nell’idea di performatività descritta nelle pagine prese in esame. Nel decennio in questione, la ricerca nelle arti sceniche è ancora lontana dall’apertura dell’opera-oggetto in una processualità d’ampio respiro che la segnerà dagli anni Settanta in avanti; rimane ben inquadrata nella cornice del prodotto-spettacolo – tutto da rifondare – e immersa in indagini di carattere linguistico-espressivo che, per quanto sperimentali potessero essere, in fin dei conti continuavano a collocare il pubblico in una posizione tutto sommato convenzionale.[22] Non che non si dessero riflessioni, anche radicali, su questi fronti. Ma, salvo qualche eccezione, si tratta di proposte che si esprimono su orizzonti diversi, non legati al coinvolgimento o all’attivazione degli spettatori. Carmelo Bene in Nostra Signora dei turchi sostituisce il sipario con una grande vetrata; uno dei primi lavori di Giancarlo Nanni – come si vedrà – si svolge dietro un muro di polistirolo che ‘impedisce’ la visione della messinscena; per non parlare di Leo e Perla, che, non a caso, intitolano questa loro stagione all’anti-teatro[23] (una formula in fin dei conti poi non così distante dalle prese di posizione di alcuni nei confronti delle ‘azioni povere’ di Amalfi e, più in generale, del processo di performativizzazione delle arti).[24]

L’impresa va sempre nella direzione di una messa in crisi del canone, in questo caso rispetto alle modalità di fruizione. Ma l’intreccio arte/vita per ora pare restar fuori dalla scena italiana della ricerca. E se potrà sembrare che lo scarto verrà in breve colmato, viceversa potremmo suggerire che tale disallineamento si confermerà e anzi si alimenterà – seppur in una declinazione differente – al momento del ‘Sessantotto teatrale’, in relazione a un diffuso allontanamento degli artisti dall’oggetto-spettacolo e dalla dimensione dell’evento scenico.[25] Qualcosa di simile si può dire per un dato apparentemente incontrovertibile, quasi scontato, sempre evocato in questo genere di contesti nell’avvicinare la pratica artistica a quella teatrale: la cosiddetta ‘smaterializzazione’ dell’opera nell’azione o nell’evento, che spingerebbe le arti visive verso tendenze che dovrebbero favorire una relazione diretta, se non addirittura qualche forma di condivisione, con le pratiche sceniche. In realtà, si tratta di una pista che potrebbe invece portare i due campi a una distanza incolmabile. Infatti, mentre la critica d’arte inizia a ragionare nell’ottica della ‘sparizione’ dell’oggetto, quella teatrale pare esprimere una tendenza opposta, verso una sorta di ‘materializzazione’ che la spinge verso la concretezza propria delle arti figurative: nel momento in cui, cercando di superare il tradizionale approccio testocentrico, si apre all’analisi strutturalista di tutti gli altri elementi dello spettacolo – spazio, luci, suono, movimento, etc. –, sotto l’egida del nuovo paradigma della ‘scrittura scenica’.[26]

È vero che anche il Nuovo Teatro in questa fase ‘esce dalla cornice’, ma in senso meno diretto e letterale rispetto all’arte visiva: perché ha tutt’altri canoni di riferimento da discutere e contestare (su tutti, l’antico dominio testocentrico). La dinamica e le motivazioni sono in parte affini fra i due campi: si tratta in entrambi i casi della ricerca di un nuovo e diverso specifico rispetto ai paradigmi vigenti, che allontana le discipline dai rispettivi statuti consolidati; tuttavia così anche, di conseguenza, dall’eventualità di un incrocio certo. Difatti, se differenti sono i contesti di partenza, lo sono anche i modi e gli esiti di un simile processo.

Più che a rapporti effettivi fra arti e teatro, possiamo dire semmai che dal punto di vista teorico, in questo periodo, ci troviamo di fronte a un doppio movimento, comunque prezioso ma certo non condiviso, costituito da «due vettori opposti e complementari»: da un lato, la «teatralizzazione delle arti», e, dall’altro, un processo che potremmo definire all’insegna della ‘visualizzazione’ o ‘spazializzazione’ del teatro.[27] Si tratta di una doppia spinta che, più che provocare già convergenze concrete, si configura nei termini di una premessa: alla creazione di un campo di forze, in vista di un dialogo ancora del tutto potenziale, che proprio in questa fase si comincia a saggiare in maniera concertata dal punto di vista teorico-critico, con il carico di ricadute che segnerà i due ambiti e le reciproche relazioni nei decenni seguenti.

Il lancio del convegno Per un nuovo senso dello spettacolo su «Marcatrè», nn. 37-40, maggio 1968

 

3. Primi effetti concreti dell’incontro fra arti e teatro: premesse a una nuova critica

Dunque, una ricerca dei contatti sistematici, dal vivo fra arte e teatro nell’Italia degli anni Sessanta intorno alla forma-convegno rischia in parte di deludere le aspettative. In più, i casi che abbiamo indagato presentano criticità consistenti. Oltre a manifestarsi piuttosto tardi, collocandosi alla fine del periodo preso in esame, si tratta di iniziative che non coinvolgono alla pari artisti e teorici di entrambe le parti. Basti pensare che ad Amalfi non è presente alcun teatrante (fatte le dovute eccezioni per il caso-limite dello Zoo di Michelangelo Pistoletto); e che la questione della teatralità, dell’azione, solleverà non poco sconcerto, tanto che l’esperienza rimarrà per qualche tempo un unicum nel suo genere. Non da ultimo, considerando anche l’incontro ‘potenziale’ di Pesaro, va riconosciuto che si tratta di episodi estremamente circoscritti, si potrebbe dire quasi personali: in quanto si legano al percorso specifico di due figure, da un lato Germano Celant e dall’altro Giuseppe Bartolucci. Ciò nonostante, non sarebbe corretto affermare che queste esperienze non abbiano conseguenze concrete, importanti nell’immediato.

La linea di contatto fra arti e teatro negli anni Sessanta non va ricercata solo a livello ‘orizzontale’: nel momento in cui si tenta di andare a rintracciare temi comuni all’uno e all’altro settore nelle pratiche e nelle opere – come abbiamo fatto finora sulla scorta di alcuni critici-guida –, si alimentano importanti confluenze possibili, ma col rischio di costruire ipotesi di convergenza piuttosto generiche, idealistiche o idealizzate, da cui talvolta possono nascere sovrapposizioni forzate o, addirittura, qualche fraintendimento teorico. A guardare gli incontri reali fra arte e teatro lungo il decennio, tale relazione si concretizza in qualcosa di più sostanziale, ‘verticale’ e storico: il rinnovamento della critica stessa, che possiamo valutare come il frutto effettivo, diretto, limitato ma certo di tali prove di dialogo transdisciplinari.

Va considerato che è in corso già da qualche tempo un importante movimento di rinnovamento del pensiero e della pratica critica, attivo almeno dal ’63 nel campo delle arti visive,[28] più recente – ma altrettanto fortemente sentito – in contesto teatrale (potremmo prendere come punto di riferimento sempre il Convegno di Ivrea fra il ’66 e il ’67).[29] Si tratta anche in questo caso di due traiettorie assolutamente indipendenti, ciascuna con le proprie motivazioni e prospettive specifiche, che però presentano caratteri comuni tali da poter condurre a ipotizzare l’esistenza di una corrispondenza reale, di un terreno d’incontro fattivo fra i due settori: nell’ottica di quella che è stata chiamata «critica della critica» (in teatro), «critica come autocritica» (in arte) oppure, più semplicemente, ‘nuova critica’.[30]

Facciamo qualche esempio concreto in connessione al percorso che stiamo esaminando. È noto che, secondo Celant, le trasformazioni in atto nelle pratiche impongono con urgenza una revisione dello statuto, della funzione e della figura del critico. Così scriveva intorno al ’68:

Credo infatti che oggi anche la critica debba porsi i problemi linguistici propri di ogni ricerca, deve cercare una collocazione fattuale nel contesto in cui viene a operare, deve rinunciare alla sua funzione di azione ‘giudicatrice’ dei valori, ma deve essa stessa produrre valori, elementi di discussione, deve cioè diventare opera di strategia e metodologia in atto.[31]

Del resto, come constatava nel medesimo periodo Bartolucci, «la critica la “costruiscono” gli spettacoli, si cambia modo di far critica quando gli spettacoli cambiano».[32] Nonostante la riuscita controversa dell’iniziativa – come si può percepire da alcuni interventi sul catalogo che la documenta –,[33] l’incontro di Amalfi in questo contesto può rappresentare un appuntamento chiave. Simili discorsi occupano, infatti, buona parte dei contributi all’Assemblea pubblicati in catalogo (lo stesso vale per quelli legati al convegno di Pesaro). A parole e coi fatti, si restituisce così un radicale ripensamento che va dall’estremo del coinvolgimento di Henry Martin nelle performance dello Zoo, fino alle analisi di Tommaso Trini sulla messa in crisi della posizione del critico, complessivamente esperita in quei giorni.[34]

I punti d’incontro fra arte e teatro che è possibile rintracciare su questi orizzonti non si fermano qui: agiscono anche al livello della ‘auto-lettura’ e auto-narrazione della transizione in corso, lasciando affiorare ulteriori, sostanziali convergenze fra i due campi. Seguendo le riflessioni ‘a caldo’ e le testimonianze ex post dei critici coinvolti, il processo di rinnovamento in questione si potrebbe suddividere in due passaggi – separati in teoria ma naturalmente non in pratica –, il cui snodo si colloca proprio al centro del caso che stiamo esaminando.

L’introduzione scelta da Germano Celant per il catalogo di Arte povera più azioni povere indica due momenti distinti dal punto di vista cronologico, in riferimento alle due sezioni in cui il testo è articolato: fra la fase aurorale di codificazione dell’Arte povera e la successiva virata – almeno della prospettiva critica – verso la smaterializzazione delle opere e la loro apertura in termini processuali-performativi, che avrebbe dovuto trovare la sua prima condivisione pubblica proprio ad Amalfi.[35] Nei pochi mesi che separano uno step e l’altro – sostiene – molto è già cambiato, e l’autore lega esplicitamente la mutazione alla trasformazione parallela e tangente in atto in contesto critico.[36] Dopo le giornate della mostra-rassegna campana si va ancora oltre, com’è possibile verificare nel contributo offerto da Celant alla discussione: emblematicamente intitolato Ad Amalfi ho intuito che, è una disamina di tutto ciò che la critica, intesa in senso nuovo, non può più essere. E di ciò che, invece, potrebbe – e si appresta – a diventare.[37]

Anche Giuseppe Bartolucci si è occupato direttamente, in teoria e in pratica, del percorso di rinnovamento della critica fra anni Sessanta e Settanta. Inoltre anch’egli focalizzava, per quanto riguarda il teatro, due passaggi che potremmo leggere come omologhi a quelli tracciati da Celant: individuando – pure nel medesimo contesto dell’Assemblea amalfitana – un primo momento in cui la critica viene messa in crisi rispetto al suo oggetto d’indagine, ai propri contenuti; e, in seguito, un secondo step in cui viene condotta a ripensarsi nei metodi. Il processo, su cui Bartolucci tornerà più volte, coincide in effetti con due fasi distinte e intimamente legate nel rinnovamento della critica teatrale italiana: fra la ricerca di un nuovo linguaggio – in corso anche in ambito teorico – dalla metà degli anni Sessanta, in rapporto alla diffusione del discorso strutturalista nel nostro Paese; e i tentativi che si manifestano dalla fine del decennio di andare Oltre la critica tecnico-formale,[38] cioè al di là della forma-recensione, della pratica del giudizio, pure della scrittura, di tutti quegli strumenti e principi che definivano tale attività. Anche in questo caso l’opzione di un simile superamento si manifesta, fra le prime volte, sempre nel quadro dell’Assemblea amalfitana,[39] che a questo punto sembra acquisire un ruolo emblematico su entrambi i versanti rispetto alla mutazione in corso.

Se il contenuto delle due dinamiche, in contesto artistico e teatrale, non risulta del tutto omologo, allineato e sovrapponibile, non è così per il loro effetto principale: la riconfigurazione della critica in termini pratici, operativi, militanti. Cosa si trova ‘oltre la critica tecnico-formale’ alla fine degli anni Sessanta? In arte come in teatro, c’è il proliferare – seppur secondo formati diversi – di innumerevoli nuove riviste, fino a quel momento impensabili; l’avvio di attività inedite, che – fra rassegne, progetti, incontri – pongono qui e lì le basi per la messa in forma della figura del curatore (di cui Celant e Bartolucci risultano in effetti fra i primi sperimentatori); non da ultimo, emerge un’immediata, precoce quanto segnante impresa di auto-storicizzazione del nuovo che marcherà i rispettivi ambienti e percorsi negli anni a venire (compresa quella determinata lettura delle relazioni fra arte e teatro che abbiamo brevemente passato in rassegna).[40] A una ‘vecchia’ critica rigidamente dominata da metodologie e categorie estetiche ormai superate, imperniata sul giudizio e sull’interpretazione, distante, almeno in apparenza, dalle pratiche artistiche e dal fluire del reale, si oppone qui una critica del tutto nuova. ‘Nuova’ dal momento che si declina più nei fatti che nelle parole; perché, compagna di strada degli artisti, diventa autrice e produttrice, oltre che interprete del presente; e in quanto, rispetto a esso, si pone in posizione d’ascolto e, al tempo stesso, prende in carico la responsabilità di un intervento concreto.

Una volta verificata l’insufficienza del pur importante rinnovamento ‘tecnico-formale’ lungo gli anni Sessanta, esperienze di confronto come quelle di Amalfi o – in potenza – di Pesaro testimoniano chiaramente le premesse, gli orizzonti e le ragioni di una modificazione nell’approccio critico che segnerà le vicende successive. È forse su questi fronti, più che altrove, che si possono rintracciare dei terreni di contaminazione concreta fra arti visive e teatro. Tanto più che è a livello teorico, più che pratico-artistico, che possiamo osservare come effettivamente operanti proprio quegli elementi comuni individuati dai critici stessi come potenziali punti di contatto fra i rispettivi campi: dalla costruzione di nuovi spazi di lavoro alla ricerca di una relazione diversa coi propri interlocutori; dalla sperimentazione della dimensione della processualità alla centralità del corpo e al recupero della soggettività; fino agli esiti inaspettati di quel tanto citato cortocircuito fra arte e vita destinato a cambiare radicalmente le idee e le pratiche artistiche. Anzitutto, però, appunto, dal punto di vista della critica.

 

4. Conclusione in forma di ‘contrappunto’: oltre la critica, sull’altra faccia della luna

La nostra ricognizione degli incontri reali fra arte e teatro negli anni Sessanta potrebbe concludersi qui. Ma, in questo modo, l’esito del presente studio si limiterebbe alla natura teorico-critica di tali rapporti, escludendo quasi completamente la voce degli artisti. Occorrerà dunque fare un ultimo sforzo e ribaltare la prospettiva adottata fino a questo momento: lasciando la lettura à rebours guidata dalle imprese di auto-storicizzazione ‘a caldo’ proposte dagli stessi protagonisti delle vicende in questione, per andare oltre al già noto.

Anche perché l’incontro – critico – fra arte e teatro che stiamo osservando alla fine del decennio non nasce dal nulla; anzi, a ben vedere, lascia trasparire gli indizi di un contesto relazionale operativo già da qualche tempo prima. Almeno dalla metà degli anni Sessanta, in Italia, esistono senza dubbio degli ambienti in cui il contatto fra arti visive e performative è concreto, vivo, ben attivo, e, fra l’altro, spesso risulta promosso dalle attività degli artisti stessi. Oltre al ‘teatro dei pittori’, agli artisti-scenografi, al formato sempre più diffuso delle conferenze-spettacolo. Basti pensare – per citare solo qualche caso emblematico – che Fabio Mauri, uno dei maggiori artisti visivi italiani del secondo Novecento, milita per anni nella redazione di «Sipario»; oppure che Carlo Quartucci ricorda fra gli spettatori dei suoi primi spettacoli Kounellis, Pascali o Paolini (prima delle collaborazioni effettive). O, ancora, che il Living Theatre, durante la sua lunga permanenza nel nostro Paese, interagisce fattivamente con esponenti di entrambe le aree – e così via.[41]

Personali o professionali, sistematiche o individuali, episodiche o profonde, casuali o mirate, tali frequentazioni sono talmente impastate col fluire della vita quotidiana da risultare scarsamente documentate, poco studiate globalmente e, dunque, difficili da ricostruire da un punto di vista scientificamente solido. C’è però una fonte d’eccezione che consente di rievocarne per quanto possibile le modalità: il documentario girato da Alberto Grifi durante la giornata di Grammatica No Stop Teatro, organizzata il 2 marzo 1967, dalle ore 9 alle 21, alla Libreria Feltrinelli di Roma da Achille Perilli con Nanni Balestrini – allora responsabile delle attività culturali dello spazio – per la presentazione del fascicolo dell’omonima rivista dedicato alle arti performative.[42] In un allestimento articolato fra strisce di plastica trasparenti che pendono dai soffitti e copertoni adagiati al pavimento, in pieno ‘stile happening’, si susseguono concerti, proiezioni di film e soprattutto azioni, realizzate sia da artisti visivi che di teatro. Grande spazio, naturalmente, è riservato alle performance – soprattutto letture – legate al Gruppo 63, di cui facevano parte gli organizzatori e diversi fra i partecipanti.[43]

Ma c’è dell’altro. Per esempio, a evidenziare il ruolo chiave, anticipatore e forse addirittura aggregatore della sperimentazione musicale, si concretizza qui una delle prime uscite del gruppo Mev, che i protagonisti stessi ricordano come il loro «evento di lancio». S’intravede inoltre Patty Pravo, a indicare i rapporti, poco storicizzati nel complesso ma senza dubbio importanti con il circuito dei Piper (ambienti che in quegli anni accolgono vari artisti d’avanguardia, da Mario Schifano a Roma a Pistoletto, Bene o il Living a Torino). C’è un’azione ideata da Toti Scialoja, anche scenografo per Aurél Milloss e per Vito Pandolfi, che viene interpretata da Jory Pepper, a certificare la densità delle relazioni – anche concrete – con le neo-avanguardie d’oltreoceano. Troviamo, poi, alcuni esponenti delle ‘cantine romane’ provenienti dalle arti visive: Mario Ricci, in uno dei suoi primi lavori pensati per essere interpretati da performer in carne e ossa;[44] e Giancarlo Nanni con Manuela Kustermann e Valentino Orfeo, in un aurorale spettacolo convenzionalmente escluso dalla teatrografia.[45] Fra l’altro, vari fra loro partecipano attivamente alla realizzazione dell’evento e delle azioni performative altrui, non solo prestandosi come attori. In più, a sottolineare la funzione di raccordo esercitata pure dal nuovo cinema, va sottolineata la ‘meta-presenza’ di Grifi stesso, che aveva già collaborato da un lato con Gianfranco Baruchello e, dall’altro, con Carmelo Bene, mentre era parallelamente impegnato con Leo e Perla per l’Amleto, che proprio in quel periodo si apprestava al debutto.[46]

Il programma di Grammatica No Stop Teatro, pubblicato su «Sipario», n. 252, aprile 1967

È interessante notare come nelle immagini e nelle testimonianze che restituiscono, seppur parzialmente, la qualità dell’evento, non troviamo quelle che abbiamo registrato nei termini delle coordinate chiave dei rapporti fra arti visive e performative negli anni Sessanta, così come sono emerse dalle visioni ‘in presa diretta’ dei critici del tempo: dalla questione della processualità a quella della corporeità, connaturate al tipo di iniziativa ma non sviluppate in maniera programmatica. È ovviamente presente la spinta alla fuoriuscita dai luoghi istituzionali, ma all’interno dello spazio della Feltrinelli viene ricreata una situazione spettatoriale tutto sommato convenzionale, che in buona parte ricalca la frontalità consueta della fruizione teatrale; e anzi, viceversa, nel film viene rilanciato il problema del rapporto con il pubblico e con la società che in quegli anni si andava criticamente affrontando.[47]

I riferimenti, poi, sono tutt’altri rispetto a quelli messi in campo dagli osservatori. Per citare solo un caso emblematico, basti pensare alla tecnica del collage, presente in quasi tutte le azioni. Il suo portato ludico, combinatorio, ‘improvvisativo’ rimanda – anche esplicitamente – tanto a radici dadaiste, quanto a certa letteratura sperimentale continentale o alla poetica beat, oltre che alle teorie dell’happening che si andavano diffondendo anche nel nostro Paese.[48]

Di più, tutte le prove di campionamento del reale al tempo dilaganti nelle varie pratiche creative aprono a uno scenario sensibilmente diverso sul tanto discusso cortocircuito arte/vita, presumibilmente appunto modellato più su esempi d’altra provenienza che sulle opere, figure ed esperienze italiane al tempo impegnate nel sondare un possibile dialogo fra arti visive e performative. L’idea qui – come testimonia Frederic Rzewski aprendo a un contatto possibile con la società in rivolta – era che l’arte fosse presente in ogni cosa, fatto, persona, e che il ruolo dell’autore consistesse anzitutto nell’individuarla e portarla a emergere.

Come constata Perilli nella sua intervista, sono i segni di «un’atmosfera che si stava scaldando», alla base di «tutto ciò che avverrà dagli anni Settanta». In generale, nel film su Grammatica No Stop Teatro si manifesta, in tutta la sua fluidità e in pieno divenire, quella ricerca di un nuovo, diverso specifico che impronta le differenti zone della produzione artistica-culturale italiana a quest’altezza cronologica. E si mostrano i conseguenti tentativi di incontro fra territori differenti, proponendo un’accezione del dialogo autenticamente transdisciplinare: tramite singoli approcci in cui si dissolvono i confini fra le varie pratiche, alla volta di una contaminazione che abbraccia l’intero arco delle attività espressive (dalle arti al teatro passando per musica, letteratura e cinema). Soprattutto, affiora qui la qualità concreta delle collaborazioni fra autori di varia provenienza, di cui talvolta risulta impossibile dipanare l’intreccio: non una convergenza ideale, teorica, ‘su carta’, di principi o orientamenti, ma una condivisione effettiva, quotidiana, che suggerisce forme di relazione d’arte e di vita ulteriori rispetto a quelle esplicitate in campo teorico, che meritano di essere altrettanto verificate, approfondite e studiate.


1 È necessario puntualizzare che, limitatamente alle competenze di chi scrive, l’indagine sarà sviluppata in prospettiva prevalentemente storico-teatrale, seppur nell’indispensabile incrocio con le arti visive.

2 Se, come vedremo, diversi fra gli organizzatori e i partecipanti di Grammatica No Stop Teatro risultano esplicitamente legati all’esperienza del Gruppo 63, andrà ricordato che sia Celant, sia Bartolucci militavano nelle file di «Marcatrè», che era la sua rivista di riferimento. Non a caso, nei suoi numerosi tentativi di ricostruzione storica il critico teatrale – pur avendo espresso qualche perplessità all’epoca sull’azione dei ‘Novissimi’ – andrà a collocare fra i precedenti importanti delle tendenze degli anni Settanta, del Teatro Immagine e della Postavanguardia, proprio il lavoro del Gruppo 63 e di Achille Perilli (è stato possibile riscontrare tale ricorrenza anche nel consistente materiale inedito e/o preparatorio presente nell’archivio di Giuseppe Bartolucci, attualmente in fase di catalogazione, per la cui consultazione si ringraziano il Sindaco del Comune di Fratte Rosa, che custodisce il fondo, e Amat, nelle persone del direttore Gilberto Santini e di Luca Celidoni, che hanno consentito il contatto con tale istituzione).

3 Il periodo che va dal 1959 al 1969, sia in campo artistico che teatrale, è costellato di convegni, anche importanti, che però almeno fino al Sessantotto non arrivano a coinvolgere contestualmente figure ed esperienze operative in entrambi i settori. In ogni caso va rilevato che, a differenza di quanto accade nel mondo dello spettacolo dal vivo, il processo di rinnovamento nelle arti visive anche da questo punto di vista s’innesca diverso tempo prima (su quest’ultima questione cfr. almeno C. Sylos Calò, Corpo a corpo. Estetica e politica nell'arte italiana degli anni Sessanta, Macerata, Quodlibet, 2018). Per una ricognizione dei congressi più rilevanti a carattere teatrale realizzati nel periodo si rimanda – oltre che alle diverse annate delle riviste di riferimento – a D. Visone, La nascita del nuovo teatro in Italia 1959-1967, Corazzano, Titivillus, 2010, e S. Margiotta, Il nuovo teatro in Italia 1968-1975, Corazzano, Titivillus, 2013.

4 Per un approfondimento sul Convegno per un nuovo teatro (Palazzo Canavese, Ivrea, 9-12 giugno 1967) cfr. almeno: D. Beronio, C. Tafuri (a cura di), Ivrea 50. Mezzo secolo di Nuovo Teatro in Italia 1967-2017 (atti del convegno, Palazzo Ducale, Genova, 5-7 maggio 2017), Genova, AkropolisLibri, 2018; D. Visone, La nascita del nuovo teatro in Italia 1959-1967 (si coglie l’occasione per specificare che la manifestazione, non coinvolgendo figure appartenenti alle arti visive, non sarà trattata in dettaglio in questa sede).

5 All’interno dello scenario appena delineato c’è, però, una vistosa eccezione di cui occorre tenere conto: le già menzionate iniziative organizzate dal Gruppo 63, a partire dal primo incontro di Palermo. Nonostante gli eventi promossi si caratterizzassero per una peculiare apertura al dialogo extra-disciplinare, almeno a prima vista non paiono aver prodotto ricadute immediate, tanto per quanto riguarda il rapporto – pure molto cercato – con le arti performative, quanto rispetto alle relazioni fra queste e le arti visive (anche se vedremo che tali esperienze, in prospettiva, giocheranno comunque un ruolo all’interno del territorio che stiamo cominciando a esplorare). Per una ricognizione delle reazioni ‘teatrali’ alle proposte di coinvolgimento formulate dal Gruppo 63 cfr.: D. Orecchia, Stravedere la scena. Carlo Quartucci. Il viaggio nei primi venti anni 1959-1979, Milano-Udine, Mimesis, 2020; V. Valentini, Nuovo teatro made in Italy 1963-2013, Roma, Bulzoni, 2015; D. Visone, La nascita del nuovo teatro in Italia 1959-1967; sulla questione interviene anche, ‘a caldo’, L. Gozzi, ‘Teatro Gruppo 63 a Palermo’, Marcatrè, n. 1, novembre 1963, pp. 13-16.

6 Cfr.: Arte povera più azioni povere, catalogo della mostra (Arsenali dell’Antica Repubblica, Amalfi, 4-6 ottobre 1968), Salerno, Rumma, 1968; e almeno A. Trimarco, ‘Amalfi, “Arte povera più Azioni povere”’, in G. Celant (a cura di), Arte povera 2011, Milano, Electa, 2011, pp. 204-211.

7 P. Gilardi, ‘L’esperienza di Amalfi’, in Arte povera più azioni povere, pp. 76-82 (p. 81). L’autore rubrica in quest’ottica altri eventi coevi a suo avviso affini, fra cui Grammatica No Stop Teatro – su cui ci sarà modo di ritornare più avanti – e Il teatro delle mostre a cura di Plinio De Martiis, che però, non coinvolgendo autonomamente esponenti delle arti sceniche, in questo studio non sarà affrontato: cfr. Teatro delle mostre, catalogo della mostra (Galleria La Tartaruga, Roma, 6-31 maggio 1968), Roma, Lerici, 1968. Per un approfondimento di queste e altre iniziative correlabili nel quadro del fenomeno di ‘teatralizzazione’ delle arti visive nell’Italia degli anni Sessanta cfr. C. Sylos Calò, Corpo a corpo; l’argomento è discusso anche nel campo degli studi di spettacolo, cfr.: S. Margiotta, Il nuovo teatro in Italia 1968-1975; A. Mastropietro, Nuovo teatro musicale fra Roma e Palermo, 1961-1973, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 2020; D. Orecchia, Stravedere la scena.

8 Cfr. M.T. Roberto, ‘Arte Povera e scrittura scenica’, in G. Celant (a cura di), Arte povera 2011, pp. 630-639.

9 Dell’incontro danno notizia sia «Sipario» (n. 265, maggio 1968), sia «Marcatrè» (nn. 37-40, maggio 1968).

10 Il lancio stampa pubblicato su «Marcatrè» (nn. 37-40) testimonia anche i nomi dei relatori invitati. Vi figurano numerosi artisti e teorici dell’uno e dell’altro versante, dai critici teatrali promotori del Convegno di Ivrea alla nuova critica d’arte; da artisti quali Carmelo Bene o Carlo Quartucci, per le arti sceniche, a Jannis Kounellis o Piero Gilardi per le arti visive; fino a figure provenienti dalla nuova musica e dalle avanguardie letterarie (molte delle quali legate a vario titolo al Gruppo 63 e/o a «Marcatrè»).

11 Nonostante comunicazioni precise vengano condivise a mezzo stampa fin molto a ridosso del congresso è altamente probabile che l’iniziativa non si sia potuta concretizzare, a causa dei moti di contestazione che andavano scuotendo la manifestazione pesarese come altre realtà similari in quel periodo. Si è cercato – senza trovarlo – riscontro della effettiva realizzazione del convegno sia tramite una verifica ‘a distanza’ nell’archivio del Festival del Cinema di Pesaro (per il quale si ringrazia Arianna Zaffini), sia attraverso una prima ricognizione all’interno del già menzionato fondo Bartolucci.

12 Un primo bacino di testi è reperibile in G. Bartolucci, La scrittura scenica, Roma, Lerici, 1968: G. De Marchis, ‘Ancora un nuovo senso dello spettacolo’, pp. 284-285 (salvo il rimando all’iniziativa di Pesaro, il testo si presenta quasi del tutto omologo a Id., Temporalità dell’immagine, pubblicato qualche mese prima sul primo fascicolo dei ‘Quaderni de’ Foscherari’ che, con la cura di Pietro Bonfiglioli, raccoglie il dibattito sorto intorno alla mostra bolognese dell’Arte povera nella primavera del ’68); G. Celant, ‘La critica come opera di strategia e di metodologia’, pp. 285-287; G. Boursier, ‘La provocazione relazionale’, pp. 287-292; C. Sughi, ‘Teatro puro, teatro impuro’, pp. 292-294 (gli interventi presentano riferimenti sia al congresso marchigiano, sia internamente fra loro, mentre dall’altro lato – ed è comunque piuttosto significativo – si possono valutare almeno come una prima raccolta sul tema voluta dal critico). A essi si può aggiungere G. Bartolucci, ‘Per un nuovo senso dello spettacolo’, ivi, pp. 164-169 (ipotizzando che fosse questo uno dei testi-base del convegno: per il titolo, i temi che tratta e i richiami espliciti condivisi negli scritti altrui. L’intervento è stato edito sempre nel ’68 anche in «Quindici», n. 11, e in «Teatro», nn. 3-4). È possibile individuare poi una seconda area di testi, non così esplicitamente legati all’incontro di Pesaro ma prodotti da figure che si prevedeva di invitare, sul n. 1 della rivista «Teatro», pubblicato nel 1969 all’interno di una sezione monografica intitolata ‘Testimonianze: strategia di una «diversa» scrittura scenica’. Si trovano qui contributi di Jannis Kounellis, Michelangelo Pistoletto, Fredric Rzewski, oltre al già menzionato testo di De Marchis, a un altro scritto di Celant e a un’introduzione firmata da Bartolucci, che procede così a integrare la propria ‘collezione’ di ragionamenti intorno a quel «discorso comune» fra arti e teatro che il critico dichiara in atto da un anno (dunque almeno dalla primavera del ’68, se si considera che il fascicolo è stato pubblicato nel mese di marzo. La citazione proviene da p. 12).

13 Cfr. G. Celant, ‘Arte povera – Azione povera’; G. Bartolucci, ‘Azioni povere su un teatro povero’, in Arte povera più azioni povere, pp. 57-62 (naturalmente si tratta di due coordinate chiave del dibattito diffusamente discusse anche negli altri interventi; cfr. inoltre, ad esempio, A. Bonito Oliva, ‘Contro la solitudine degli oggetti’, pp. 69-72).

14 È questa un’ulteriore questione lanciata nel testo introduttivo firmato da Celant, affrontata inoltre in: G. Bartolucci, ‘Azioni povere su un teatro povero’; F. Menna, ‘Un’arte di entusiasmo’, in Arte povera più azioni povere, pp. 85-88 (tenendo conto in ogni caso che anche qui, trattandosi di un tema di discussione trasversale, lo si può valutare come cornice teorica per gli altri interventi; oltre a quelli già menzionati cfr. sempre in Arte povera più azioni povere, a titolo indicativo dell’ampio arco critico coinvolto: G. Dorfles, ‘Gli incontri di Amalfi’, pp. 73-75; D. Palazzoli, ‘Con temp l’azione’, pp. 89-93).

15 Cfr. G. Bartolucci, ‘Azioni povere su un teatro povero’; V. Boarini, P. Bonfiglioli, ‘Il ritorno del rimosso’, in Arte povera più azioni povere, pp. 63-68; A. Bonito Oliva, ‘Contro la solitudine degli oggetti’, (tutti gli autori intervengono in maniera critica sul problema); Piero Gilardi, nel suo report reputa l’opzione dell’agire collettivo in rapporto agli altri artisti e agli spettatori – elemento considerato come distintivo dell’esperienza teatrale – fra i possibili esiti innovativi della mostra-rassegna di Amalfi, poi però non concretizzatosi (cfr. P. Gilardi, ‘L’esperienza di Amalfi’).

16 L’impegno profuso da Bartolucci nel campo relazionale che s’instaura fra arti visive e performative a partire dai secondi anni Sessanta troverà ulteriori sviluppi nel decennio successivo: in particolare attraverso la collaborazione con lo storico dell’arte Filiberto Menna – anch’egli, come ricordato, intervenuto ad Amalfi – e con lo storico del teatro Achille Mango, entrambi docenti all’Università di Salerno. Nella città campana, dal 1973 al 1976, daranno vita a un’importante rassegna incentrata sul teatro di sperimentazione, ‘Incontro-Nuove Tendenze’, che nella sua prima edizione terrà a battesimo il Teatro Immagine (cfr. S. Margiotta, Il nuovo teatro in Italia 1968-1975; M. Valentino, Il nuovo teatro in Italia 1976-1985, Corazzano, Titivillus, 2015).

17 Cfr.: G. Celant, ‘La critica come opera di strategia e di metodologia’; G. De Marchis, ‘Ancora un nuovo senso dello spettacolo’; C. Sughi, ‘Teatro puro, teatro impuro’.

18 Il tema emerge sia genericamente all’Assemblea amalfitana (cfr. F. Menna, ‘Un’arte di entusiasmo’), sia, più specificamente, dai testi correlabili al convegno ‘mancato’ di Pesaro (cfr. G. Celant,‘La critica come opera di strategia e di metodologia’, p. 286; G. Bartolucci, ‘Per un nuovo senso dello spettacolo’, p. 168). In quella sede il tentativo di ricucire una relazione viva con le Avanguardie Storiche si focalizza in entrambi i campi sul Futurismo italiano, fenomeno che potrebbe costituire un ulteriore punto di contatto da sondare fra arti visive e performative nel periodo (sul tema, per quanto riguarda l’ambito dello spettacolo, cfr. L. Mango, ‘L’invenzione del nuovo’, in D. Visone, La nascita del nuovo teatro in Italia 1959-1967, pp. 9-10; S. Margiotta, Il nuovo teatro in Italia 1968-1975, pp. 368-372).

19 Anche il riferimento alla scena internazionale configura potenzialmente un territorio condiviso fra arti e teatro nell’Italia degli anni Sessanta, nello specifico per i rapporti che la nostra critica instaura a quest’altezza cronologica con le neo-avanguardie statunitensi. In particolare, gli scritti esaminati in questo studio sono popolati di consistenti riferimenti a tali percorsi; un esempio su tutti è reperibile nell’approccio di Germano Celant, che nei suoi primi testi rimanda molto spesso al Living Theatre (più che al rapporto «eponimo» con il teatro povero di Jerzy Grotowski, la cui opera – a differenza della compagnia newyorkese – al tempo non è ancora altrettanto radicata in Europa occidentale e nel nostro Paese come sarà in seguito). Il richiamo alle ricerche d’oltreoceano e al gruppo di Julian Beck e Judith Malina è un fenomeno estremamente diffuso anche nella nuova critica teatrale del periodo, con l’esito convergente fra i due settori – com’è stato notato da vari artisti coevi – di rischiare di mancare, fino a un certo punto, il confronto diretto con la peculiarità delle sperimentazioni performative italiane. Cfr., ad esempio, G. Celant, ‘Arte povera – Azione povera’, (testo che si sviluppa da un ragionamento del Living posto in esergo, tratto da un’intervista alla compagnia newyorkese pubblicata sul n. 25 del «Verri», dedicato nel 1967 a Il teatro come evento); e inoltre: M.T. Roberto, ‘Arte Povera e scrittura scenica’; C. Valenti, Storia del Living Theatre. Conversazioni con Judith Malina, Corazzano, Titivillus, 2008.

20 Cfr. ad esempio: S. Chiodi, ‘Germano Celant: attuale e contingente’, Antinomie (29 maggio 2020) <https://antinomie.it/index.php/2020/05/29/germano-celant-attuale-e-contingente/> [accessed 30 September 2021]; L. Mango, La scrittura scenica. Un codice e le sue pratiche nel teatro del Novecento, Roma, Bulzoni, 2003; C. Sylos Calò, Corpo a corpo.

21 G. De Marchis, ‘Ancora un nuovo senso dello spettacolo’, p. 284.

22 È Fabio Sargentini a riflettere su questa particolare divergenza fra arti e teatro nella fase in questione (cfr. ‘Tra arte e teatro’, in S. Carandini (a cura di), Memorie dalle cantine. Teatro di ricerca a Roma negli anni ’60 e ’70, atti del convegno (Sapienza Università di Roma, 19-20 maggio 2008), Biblioteca Teatrale, nn. 101-102-103, gennaio-settembre 2012 (ma 2014), pp. 249-252). Le peculiari condizioni in cui versava il sistema teatrale nazionale dal secondo dopoguerra sono esaminate ad esempio in F. Quadri, ‘Avanguardia? Nuovo teatro’, in A. Attisani (a cura di), Le forze in campo. Per una nuova cartografia del teatro, atti del convegno (Centro Teatrale San Geminiano, Modena, 24-25 maggio 1986), Modena, Mucchi, 1987, pp. 7-21. Su questa scia, diversi osservatori hanno interpretato il ‘ritardo’ della scena italiana in termini di un’arretratezza dovuta alla chiusura del Paese nel ventennio fascista e poi alla tragedia del secondo conflitto mondiale, leggendo le fasi successive prevalentemente nei termini di una dinamica di aggiornamento, che secondo Quadri ha improntato fatalmente sia l’età della ricostruzione, al tempo della nascita della ‘regia critica’, sia il susseguente, opposto slancio del Nuovo Teatro. Pur non potendo scendere in dettaglio, si ritiene opportuno ricordare qui il differente principio dell’«anomalia», proposto da alcuni studiosi in alternativa, sempre per descrivere i caratteri che governano il sistema dello spettacolo nazionale almeno fino alla metà del Novecento (cfr. C. Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi, Firenze, Sansoni, 1984; M. Schino, ‘Sul “ritardo” del teatro italiano’, Teatro e Storia, n. 4, 1988, pp. 51-72).

23 Simili posizioni risultano ben evidenti a una ricognizione dei primi lavori dei maggiori esponenti delle ‘cantine romane’, in cui si prendono – anche esplicitamente, provocatoriamente – le distanze dalla platea e, più nello specifico, dalle tendenze partecipative che animavano (almeno in teoria) la sperimentazione performativa degli anni Sessanta e Settanta (su questo spettacolo di Carmelo Bene, cfr. D. Orecchia, ‘Il Beat 72 di Roma. Le prime stagioni’, in L. Cavaglieri, D. Orecchia, Memorie sotterranee. Storia e racconti della Borsa di Arlecchino e del Beat 72, Torino, Accademia, 2018, pp. 211 sgg.; S. Venditelli, Carmelo Bene fra teatro e spettacolo, a cura di A. Petrini, Accademia, Torino, 2015, pp. 83-95; per la vicenda di Giancarlo Nanni si rinvia inoltre all’analisi del lavoro in questione nel quadro di Grammatica No Stop Teatro; per la visione di Leo de Berardinis, fra i primi e maggiori teorizzatori con Perla Peragallo della possibilità di una postura dialettica nei confronti del rapporto con lo spettatore, cfr. ad esempio, O. Ponte di Pino (a cura di), ‘Per un teatro jazz (intervista con Leo De Berardinis)’, in J. Gelber, La connection con l’intervento di Leo De Berardinis, Milano, Ubulibri, 1983, pp. 102-103). Fa in varia misura eccezione il percorso coevo di Carlo Quartucci, le cui sperimentazioni su questi fronti conducono già a qualche forma di effettiva fuoriuscita dalla ‘cornice teatrale’, dal palcoscenico e dalle modalità di fruizione convenzionali, nella direzione di un coinvolgimento diverso e attivo del pubblico (cfr. D. Orecchia, Stravedere la scena).

24 Si rinvia alle reazioni delle persone coinvolte nell’evento di Amalfi documentate all’interno del catalogo. In particolare, il resoconto di Gilardi registra «il malumore degli artisti che presentavano degli oggetti» rispetto all’interazione con gli eventi performativi, nonché il boicottaggio da parte del «gruppo romano» che, «ideologicamente dissenzient[e]», aveva deciso di non partecipare alla manifestazione (‘L’esperienza di Amalfi’, pp. 77-78). Una polemica affine nella forma ma diversa nella sostanza traspare anche dalla lettera inviata dallo Zoo per la pubblicazione (p. 103). Mentre Vittorio Boarini e Pietro Bonfiglioli si soffermano più ampiamente sui rischi sia della spettacolarizzazione dell’arte, sia dell’estetizzazione della rivolta (cfr. ‘Il ritorno del rimosso’, p. 67). Tali posizioni ricalcano in varia misura la polarizzazione del dibattito internazionale (cfr. ad esempio: M. Fried, ‘Art and Objecthood’, Artforum, n. 5, giugno 1967; L. Lippard, Six Years: the Dematerialization of Art Object from 1966 to 1972, New York, Praeger, 1973).

25 Cfr. M. De Marinis, Il nuovo teatro 1947-1970, Milano, Bompiani, 1987.

26 Il termine, di derivazione francofona, è introdotto e sviluppato in Italia da Giuseppe Bartolucci; cfr. L. Mango, La scrittura scenica.

27 L. Mango, ‘Il teatro dei pittori. Renato Mambor e la nuova drammaturgia della scena’, in R. Perna (a cura di), Renato Mambor. Studi intorno alle opere, la performance, il teatro, Roma, Sapienza Università Editrice, 2018, pp. 119-131 (p. 122). Cfr. inoltre: S. Margiotta, Il nuovo teatro in Italia 1968-1975, (che dedica al tema una sezione specifica del volume); D. Orecchia, Stravedere la scena; C. Sylos Calò, Corpo a corpo. I termini utilizzati per descrivere la tendenza della ‘spazializzazione’ e ‘visualizzazione’ del teatro – indicativi anche se non del tutto soddisfacenti nel restituire il fenomeno – provengono da C. Sughi, ‘Teatro puro, teatro impuro’, p. 293. Inoltre, va tenuto conto che il fenomeno di ‘teatralizzazione delle arti’ dagli anni Sessanta in avanti non è unico nel suo genere: fa parte di un più ampio movimento verso la performativizzazione, emergente al cuore della ‘società dello spettacolo’ (il testo-manifesto di Guy Debord è pubblicato proprio nel ’67), che si riscontra in diversi ambiti della creazione e della cultura nei termini di una straordinaria diffusione di attenzione per l’idea e le prassi teatrali.

28 Cfr. L. Conte, ‘Comportamenti e azioni della critica negli anni Settanta: attraverso e oltre Roma’, in D. Lancioni (a cura di), Anni 70. Arte a Roma, catalogo della mostra (Palazzo delle Esposizioni, Roma, 17 dicembre 2013-2 marzo 2014), Roma, Jacobelli, 2013, pp. 84-93 (p. 77); C. Sylos Calò, Corpo a corpo.

29 Ciò nonostante, possiamo considerare in questo quadro l’attività svolta nel contesto di «Sipario» da diversi ‘nuovi critici’ italiani di teatro, fra cui i promotori del Convegno di Ivrea, almeno dal 1963, nel momento in cui Franco Quadri viene nominato caporedattore della rivista (basterà in questo senso rimandare alle diverse inchieste realizzate dalla redazione, una delle quali nella primavera del ’67 – nn. 251 e 252 – è dedicata proprio alla Situazione della critica).

30 Cfr. L. Mango, ‘La nuova critica e la recitazione’, Acting Archives, III, n. 3, maggio 2012, p. 156 (la definizione è utilizzata per il percorso di Bartolucci, ma – visto anche il contesto irradiante delle iniziative del critico, così come sono esaminate nel saggio – non pare forzato applicare la formula su di un piano più generale); L. Conte, ‘Comportamenti e azioni della critica negli anni Settanta: attraverso e oltre Roma’, p. 78 (anche in questo caso il concetto fa riferimento a una figura e un approccio specifico, quelli di Achille Bonito Oliva, sullo sfondo più ampio del dibattito critico coevo).

31 G. Celant, ‘La critica come opera di strategia e di metodologia’, p. 287.

32 G. Bartolucci, ‘Al di là di una critica tecnico-formale’ (1969), in Id., Teatro-corpo: Teatroimmagine, Padova, Marsilio, 1970, p. 92.

33 Cfr. P. Gilardi, ‘L’esperienza di Amalfi’.

34 Cfr. H. Martin, ‘Lettera a Marcello Rumma’, in Arte povera più azioni povere, pp. 83-84; T. Trini, ‘Appunti oltre l’arte’, in Arte povera più azioni povere, pp. 100-102.

35 Il già menzionato scritto di Celant (‘Arte povera – Azione povera’), com’è noto, è composto da due diversi brani: la prima parte, intitolata Arte povera, è datata novembre 1967-febbraio 1968 e corrisponde al contributo scritto per la mostra alla Galleria de’ Foscherari di Bologna, poi raccolto nei correlati ‘Quaderni’ da Pietro Bonfiglioli; la seconda, Azione povera, inedita, risale invece al settembre del ’68.

36 Non è questa la sede per scendere in dettaglio sulle variazioni individuate da Celant fra l’una e l’altra fase, al livello delle pratiche artistiche (cfr. ibidem); per quanto concerne tale cambiamento dal punto di vista della critica, basti ricordare che la seconda parte del testo in questione (Azione povera) sarà successivamente sviluppato nel saggio-manifesto Per una critica acritica, parzialmente edito prima su «Casabella» (n. 343, dicembre 1969) e poi, definitivamente, su «NAC» (n.s., n. 1, ottobre 1970, pp. 29-30).

37 Cfr. G. Celant, ‘Ad Amalfi ho intuito che’, in Arte povera più azioni povere; nel medesimo contesto Tommaso Trini ipotizza, in particolare, un ruolo spartiacque proprio per l’esperienza amalfitana (cfr. ‘Appunti oltre l’arte’).

38 Il processo di rinnovamento critico portato avanti da Bartolucci negli anni Sessanta, sia in generale, sia rispetto al suo percorso individuale, è stato analizzato a più riprese da Lorenzo Mango. Per quanto riguarda la prima fase di revisione della funzione critica, lo studioso la interpreta in relazione a un ripensamento, sul versante pratico-artistico, dell’evento teatrale a partire «dalla concreta materia del suo farsi»: la ‘critica tecnico-formale’ – concetto secondo Mango tratto dalle teorie di Roland Barthes, di cui Bartolucci è fra i primi traduttori in Italia – propone un nuovo modello d’indagine d’impronta strutturalista incentrato sui linguaggi e gli elementi scenici, che inizialmente risultava dirompente nei termini dell’analisi dello spettacolo, al tempo nel nostro Paese ancora ancorata alla logica neo-idealistica dell’interpretazione del testo (cfr. L. Mango, ‘Il contemporaneo è il moderno di domani’; la citazione proviene da p. 55). Lo studioso delinea poi un passaggio da questa prima spinta di rinnovamento a carattere «interpretativo», a un secondo, più radicale ripensamento di natura ‘partecipativa’ – appunto, ‘al di là’ del livello ‘tecnico-formale’ –, in cui la critica «non si limita a frequentare da estranea il contemporaneo ma partecipa alla sua edificazione» (p. 83). Altrove, Mango sostanzia un simile spostamento «dall’osservazione e dalla verifica a posteriori delle operatività artistiche e del loro risultato in termini di spettacolo all’accompagnamento di quelle stesse operatività in chiave di compromissione ideologica», individuando, rispetto all’attività bartolucciana, alcune tappe salienti, corrispondenti a diversi testi pubblicati dal critico nella seconda metà degli anni Sessanta. Cfr. G. Bartolucci, ‘La descrizione anestetizzante’, Il Verri, n. 21, aprile 1966; Id., ‘Per un diverso linguaggio critico’, Nuova corrente, nn. 39-40, dicembre 1966; Id., ‘Per un nuovo senso dello spettacolo’, (1968); Id., ‘Al di là della critica-tecnico formale’, (quest’ultimo scritto è frutto di una discussione in atto con altri ‘nuovi critici’ teatrali quali Ettore Capriolo e Edoardo Fadini, i cui passaggi si possono ritrovare, assieme al testo in questione, nel fascicolo monografico nn. 3-4, 1969, della rivista «Teatro», esplicitamente dedicato al tema). Cfr. inoltre L. Mango, ‘La nuova critica e la recitazione’; G. Bartolucci, Testi critici 1964-1987, a cura di V. Valentini, G. Mancini, Roma, Bulzoni, 2007 (si veda, in particolare, l’introduzione firmata dalla curatrice); Biblioteca Teatrale, n. 48, cit.; D. Visone, La nascita del nuovo teatro in Italia 1959-1967.

39 Il testo in cui Bartolucci condivide l’opportunità di muovere oltre la critica ‘tecnico-formale’ risale al 1969 e matura nel contesto di un fitto dibattito, apparentemente intra-teatrale, che – come accennato – viene condiviso sulle pagine di «Teatro». In particolare, tale opzione gemma da uno scambio con Edoardo Fadini, il quale rileva – in uno scritto significativamente intitolato Al di là della critica formale e altrettanto emblematicamente legato dall’autore allo stimolo di un artista come Leo de Berardinis – l’insufficienza del modello di analisi della messinscena fondato sulle sue forme, linguaggi ed elementi strutturali, in quanto si tratterebbe a suo avviso, più che di un oggetto o prodotto, di ‘esperienza agita’. Nonostante l’intuizione, va evidenziato come Fadini qui rimane comunque ancorato a un’idea di critica intesa in termini di interpretazione e decodifica della messinscena, legata dunque a una funzione tutto sommato tradizionale, seppur fortemente rinnovata; nonché che il primo contesto, a mia conoscenza, in cui Bartolucci avanza l’ipotesi di superare tale livello al fine di testare un’attività critica oltre la scrittura è proprio l’intervento pubblicato diversi mesi prima in Arte povera più azioni povere. Così scrive in quel contesto: «la frantumazione del dialogo appunto avvenuta al convegno […] in secondo luogo, specificamente, nei confronti di codesta arte povera ripropone la responsabilità della critica come operatività, al di là ossia della descrizione tecnico formale, sotto lo stimolo degli stessi artisti» (‘Azioni povere su un teatro povero’, p. 58).

40 I primi libri-summa di Bartolucci e Celant sulle tendenze artistiche degli anni Sessanta risalgono proprio a questo periodo, cfr. G. Bartolucci, La scrittura scenica, (dicembre 1968); G. Celant, Arte povera, Mazzotta, Milano 1969. In questo quadro, si può rimandare significativamente anche a F. Quadri, L’avanguardia teatrale in Italia (materiali 1960-1876), 2 voll., Einaudi, Torino 1977; e, soprattutto, alla lettura del fenomeno proposta a riguardo in G. Guccini, ‘Ivrea ’67. Oltre l’enigma, Quadri’, in D. Beronio, C. Tafuri (a cura di), Ivrea 50, pp. 65-78.

41 Cfr. D. Orecchia, Stravedere la scena, p. 82; G. Bartolucci (a cura di), ‘L’esempio del Living: teatro e vita’, Sipario, nn. 232-233, agosto-settembre 1965, pp. 58-60; F. Sargentini, ‘Tra arte e teatro’, (per fare un esempio emblematico degli incroci sia realizzati sia mancati, si può richiamare il fatto che Sargentini testimonia la frequentazione del Living da parte di Pino Pascali a metà degli anni Sessanta a Velletri, dove il gruppo era ospite della famiglia Carocci, e dove – apprendiamo da «Sipario» – si svolge anche la citata conversazione con la compagnia curata da Bartolucci).

42 La struttura dell’evento e le azioni in cui si è articolato sono reperibili a partire dalla ‘scaletta’ pubblicata su «Sipario» (n. 252, aprile 1967). Tuttavia, stando alle testimonianze, il programma non fu strettamente rispettato, per cui – anche al fine della ricostruzione dei fatti – è necessario compararlo con i contenuti del film girato da Alberto Grifi durante la manifestazione. Non è possibile qui analizzarlo in dettaglio, ma occorre comunque specificare almeno alcuni aspetti essenziali. L’artista ha prodotto due opere intorno all’happening: No Stop Grammatica, un film sperimentale – come egli stesso lo definisce – che non si poneva principalmente obiettivi di carattere documentario (tanto che le immagini non erano accompagnate dal loro sonoro, ma da un audio composto a partire da scarti di pellicola recuperati da vari studi di doppiaggio, messi a disposizione del pubblico e poi montati «casualmente» secondo quella selezione, seguendo un metodo – specifica l’autore – già utilizzato in Verifica incerta con Gianfranco Baruchello). Anni 60 No Stop, invece, del 1999, è un «riediting» – come lo chiama Grifi – del primo film, che ne interpola le immagini con ulteriori materiali mirati a una maggiore contestualizzazione della manifestazione: spiegazioni dello stesso regista, interviste e testimonianze raccolte in periodi diversi, fino a quelle recuperate nel quadro di un evento appositamente organizzato una trentina d’anni dopo nella casa romana di Mitzi Sotis, dove furono riuniti vari fra i protagonisti di Grammatica No Stop Teatro per una visione, un commento e una ‘rivisitazione’ – anche performativa – del film originario (si coglie qui l’occasione per ringraziare l’Associazione culturale ‘Alberto Grifi’ per aver messo a disposizione di chi scrive entrambe le opere). Dell’happening si occupano anche: S. Margiotta, Il nuovo teatro in Italia 1968-1975; A. Mastropietro, Nuovo teatro musicale fra Roma e Palermo, 1961-1973.

43 In questo contesto, oltre a marcare una connessione diretta coi Concerti del Marcatrè realizzati negli anni precedenti sempre alla Feltrinelli – alcuni compositori e opere sono gli stessi –, va evidenziata la partecipazione almeno di Giordano Falzoni, Alfredo Giuliani, Gastone Novelli, che risultano fra i principali animatori della giornata. Legati in diversa misura al Gruppo 63 e a ‘Grammatica’, occupano un posto particolare nel film di Grifi, che nello specifico dedica una sorta di video-ritratto sia a Falzoni, sia a Novelli (nel primo caso, affidandosi anche ad altre sue opere filmiche realizzate con l’autore; nel secondo, utilizzando come voice off narrante alcuni interventi dell’artista, registrati poco dopo l’evento e poco prima della scomparsa di Novelli, nel contesto di una prima visione privata del documentario).

44 Il film mostra diverse scene del lavoro di Mario Ricci in programma, Sacrificio edilizio (1966), che vengono commentate ex post sia da Perilli, sia da Novelli, e sono inoltre accompagnate da un’intervista – sempre successiva – all’autore sullo spettacolo. Su quest’opera cfr. la specifica pagina presente sul sito web dedicato all’artista, <http://marioricci.net/spettacoli/sacrificio-edilizio> [accessed 26 October 2021]); il programma di sala dello spettacolo, disponibile su <http://nuovoteatroitaliano.it/index.php> [accessed 26 October 2021]), (portale online di un programma di ricerca dell’Università di Napoli ‘L’Orientale’ sul Nuovo Teatro italiano, attualmente diretto da Lorenzo Mango e Salvatore Margiotta); e inoltre: F. Quadri, L’avanguardia teatrale in Italia; D. Visone, La nascita del nuovo teatro in Italia 1959-1967.

45 La performance, intitolata Esagono for the great taster – che appunto non compare nella teatrografia né de La Fede, che sarebbe stata fondata di lì a poco, né del precedente gruppo Spazio Re(v)action –, è ricostruibile a partire dal filmato che ne documenta ampie parti: sia tramite le immagini, sia attraverso il commento di Perilli e di Grifi (che ragiona in particolare sul già menzionato rapporto col pubblico). Si trova inoltre traccia del lavoro in un’intervista risalente a qualche anno dopo: cfr. S. Gaudio (a cura di), ‘Ritrattino di Manuela Kustermann’, Il Dramma, nn. 1-2, gennaio-febbraio 1973, pp. 30-31. Rimanendo sempre nell’alveo di Grammatica No Stop Teatro, per quanto riguarda le relazioni fra arti visive e performative, meriterebbe un approfondimento a parte il rapporto di Nanni (e di Grifi) con l’opera di Aldo Braibanti, evocato nel film in una lettura di Giuliana Calandra realizzata ex post (non sono riuscita per il momento a stabilire se questo reading facesse già parte dell’happening in origine, posto che l’attrice per l’occasione avrebbe dovuto leggere un testo di Arbasino – evento a detta di vari testimoni poi saltato – e in effetti compare in video in una performance – fra l’altro assieme a Giancarlo Nanni e Valentino Orfeo –, di cui però, appunto, non è identificabile il contenuto).

46 Da Grammatica No Stop Teatro affiora un’altra forma di relazione affine: quella che vede collaborare Mario Ricci con Mario Capanna e Giorgio Turi – parimenti presenti in programma con le loro opere filmicheper lo spettacolo Illuminazione, su testo di Nanni Balestrini, anch’esso condiviso col pubblico nel medesimo periodo (per questo lavoro cfr. in particolare C. Grazioli (a cura di), ‘Illuminazione. 1967’, Sciami, 30 maggio 2017 <https://nuovoteatromadeinitaly.sciami.com/mario-ricci-illuminazione-1967/> [accessed 26 October 2021]).

47 Abbiamo già rilevato come l’impostazione delle dinamiche fruitive, a quel che testimonia il film, si presentasse in buona parte convenzionale. Ad ogni modo – ricorda Balestrini nella sua intervista – ci furono in effetti dei casi in cui tale logica venne infranta, all’insegna dei principi dell’happening (vedi le performance di Eat Art o le incursioni urbane degli studenti guidati da Novelli). Tuttavia, la questione della commistione fra autori e fruitori si può valutare alla luce di un’altra riflessione di Perilli, che constata come gli spettatori facessero grossomodo parte della stessa comunità dei produttori (quando non erano addirittura essi stessi artisti), portando alla luce un ulteriore tema che marcherà le pratiche della ricerca nei decenni successivi.

48 Oltre alla diffusione delle teorie sull’happening in diverse riviste lungo gli anni Sessanta, nel 1968 De Donato – un editore barese che ha il merito di introdurre nel nostro Paese diversi testi contigui di rilievo internazionale – pubblica il reference book in materia: l’antologia Happening curata da Michael Kirby. Un altro testo di riferimento sempre di matrice nordamericana, diffusamente citato anche nel campo delle arti visive, che arriva in Italia in quel periodo è Contro l’interpretazione di Susan Sontag (1962), pubblicato nel ’67 da Mondadori con la traduzione di Ettore Capriolo.