Incontro con Pippo Delbono (Viagrande Studios, 7 settembre 2013)

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Una riflessione intorno alla vita e al teatro: potrebbe riassumersi così il bell’incontro con Pippo Delbono, moderato dalla giornalista Francesca Motta e tenutosi il 7 settembre presso i Viagrande Studios, centro di ricerca, formazione e produzione per le arti performative.

Delbono non è artista da poter rinchiudere o tentare di incasellare, tanta e tale è la sua poliedricità. Del resto, se il pericolo, concreto, in incontri di questa tipologia, è quello di scivolare, più o meno volontariamente, nel vaniloquio, nella conversazione tra l’autore ligure e il pubblico è stato scongiurato sin dalle prime battute.

Si diceva della difficoltà nell’“inquadrare” un regista e attore, teatrale e cinematografico (ma potremmo definirlo molto di più, in effetti) di questo calibro. È ormai noto come la formazione di Delbono abbia conosciuto un percorso che parte dal tradizionale e, se vogliamo, dall’esteriore, per giungere, attraverso numerose tappe, che lo hanno visto collaborare tanto con Iben Nagel Rasmussen, colonna storica dell’Odin Teatret, quanto con l’indimenticata Pina Bausch, per giungere, si diceva, a un infinito viaggio dentro le pieghe della carne. Non è da usare casualmente, questo sostantivo. Sembra, infatti, senza requie l’afflato di Delbono per la corporeità, forse verità tangibile più “vera” e alta (ché quella intangibile dobbiamo scavarla dentro di noi, con fatica). La dimostrazione sta nel percorso che va da Barboni (1997), almeno, fino ai più recenti La menzogna (2008) e Dopo la battaglia (2011), passando per spettacoli come Urlo (2004) e Questo buio feroce (2006).

Numerosi i temi, affrontati o anche solo sfiorati, nel corso dell’incontro, condotto sul piano dell’informalità, tanto quanto basta per poter parlare del rapporto fra il teatro e l’esistenza, opposti e solo in apparenza inconciliabili per statuto ontologico: si è parlato di corpo, appunto, ma anche di artisti scomodi e che smuovono le acque che altri vorrebbero immobili e stagnanti vita natural durante, di verità a teatro e di verità negli esseri umani che al teatro si accostano e lo praticano; di fascismo nel nostro Paese, si è detto, anche, o almeno del “fascismo culturale” figlio di un’omologazione intellettuale imperante nella congiuntura che attraversiamo (e che ben è stata messa in evidenza, per esempio, seppure con qualche scivolamento “macchiettistico”, in Reality di Matteo Garrone). Nello scambio, dialogico e dialettico, tra Delbono e il pubblico, a tratti anche accorato e sempre appassionato e curioso, si sono dette molte cose, come spesso accade. Eppure, in questo caso, le idee di fondo, che sono poi i concetti e le intuizioni di base di tutta l’opera di Delbono, sono poche, ma complesse a tal punto da investire lo stesso significato dell’umanità e del suo insistere su questo pianeta.

Non si è dimenticato (e sarebbe stato un peccato) neanche il cinema, nella carriera di Delbono: come attore, in numerose produzioni, tra cui Io sono l’amore di Luca Guadagnino, Cavalli di Michele Rho, Henri di Yolande Moreau, Cha cha cha di Marco Risi; come regista, da Guerra a Grido, a La paura, fino ad Amore carne e l’ultimo, il più recente, Sangue, docufilm che mette in parallelo due vicende di amore e di morte, quella dello stesso Delbono che vede spegnersi, nel giro di pochi mesi, la madre, e dall’altra parte della “barricata”, Giovanni Senzani, ex brigatista, il quale vive la fine dell’amata moglie Anna. Pellicola che, ma forse sarebbe stato superfluo annotarlo, dopo il passaggio all’ultimo Festival di Locarno ha scatenato gli strali polemici di chi non ha risparmiato, pur non avendo visto il film, giudizi stroncanti e valutazioni discutibili, collocabili tra la storiografia d’accatto e il perbenismo poco informato, come spesso, soprattutto negli ultimi tempi, accade in Italia.

Una sorta di colloquio su due massimi sistemi, dunque, con l’avvertenza, necessaria: nessuno dei due sistemi, il teatro e la vita, si esaurisce in se stesso, per quanto ampia possa essere la portata. È necessario, perciò, individuare, e ci sembra che l’incontro con Pippo Delbono abbia ben espletato questa difficile missione, i punti di curvatura in cui teatro e vita si congiungono e quelli in cui la distanza sembra irriducibile. In questo senso, il teatro, ma diremo di più, l’intera produzione di Delbono risulta (e risalta) come un grande saggio, ancora in progress, su, parafrasando Douglas Adams, «la vita, l’universo e tutto quanto».

L’esplorazione di questi “microcosmi” è impresa poco agevole, certo, tanto per l’autore quanto per lo spettatore (quest’ultimo, ennesimo argomento di discussione); e lo spettatore è chiamato a mettere in discussione il proprio statuto, comodo, di “osservatore non osservato”. Forse solo così, accogliendo in forma di sintesi, e con spirito sincretico, tanto la lezione di Brecht quanto quella di Artaud (cosa che Delbono sembra fare con sicurezza), si può cercare, e creare, più verità a teatro.