Una riflessione intorno alla vita e al teatro: potrebbe riassumersi così il bell’incontro con Pippo Delbono, moderato dalla giornalista Francesca Motta e tenutosi il 7 settembre presso i Viagrande Studios, centro di ricerca, formazione e produzione per le arti performative.
Delbono non è artista da poter rinchiudere o tentare di incasellare, tanta e tale è la sua poliedricità. Del resto, se il pericolo, concreto, in incontri di questa tipologia, è quello di scivolare, più o meno volontariamente, nel vaniloquio, nella conversazione tra l’autore ligure e il pubblico è stato scongiurato sin dalle prime battute.
Si diceva della difficoltà nell’“inquadrare” un regista e attore, teatrale e cinematografico (ma potremmo definirlo molto di più, in effetti) di questo calibro. È ormai noto come la formazione di Delbono abbia conosciuto un percorso che parte dal tradizionale e, se vogliamo, dall’esteriore, per giungere, attraverso numerose tappe, che lo hanno visto collaborare tanto con Iben Nagel Rasmussen, colonna storica dell’Odin Teatret, quanto con l’indimenticata Pina Bausch, per giungere, si diceva, a un infinito viaggio dentro le pieghe della carne. Non è da usare casualmente, questo sostantivo. Sembra, infatti, senza requie l’afflato di Delbono per la corporeità, forse verità tangibile più “vera” e alta (ché quella intangibile dobbiamo scavarla dentro di noi, con fatica). La dimostrazione sta nel percorso che va da Barboni (1997), almeno, fino ai più recenti La menzogna (2008) e Dopo la battaglia (2011), passando per spettacoli come Urlo (2004) e Questo buio feroce (2006).