Interferenza #04 - L'infinito dietro la cornice

di

     

"Interferenze. Poeti d'oggi e arti della visione" si propone come uno spazio di analisi dei rapporti tra visualità e verbalità nelle opere di poetesse e poeti italiani delle generazioni più recenti. Un esperimento condotto con l’immagine ‘a fronte’, attraverso un confronto diretto tra la pagina e l’opera visiva che l’ha ispirata. Costituendosi come ‘serie’ di contributi, "Interferenze" si prefigge un duplice obiettivo: sottolineare la centralità di questi temi in alcune esperienze della migliore poesia italiana contemporanea e, insieme, offrire ai lettori di «Arabeschi» un sia pur essenziale panorama delle voci che animano l’attuale scena della scrittura in versi, implicitamente evidenziandone la varietà e ricchezza di esiti e toni.

 

I.
Dersu Uzala
Avrei voluto conoscerlo, Dersu il gol'd, e forse
lo conobbi davvero, nel tempo
in cui una pagina era una mappa, geografia,
rilievo, in cui l'orma sussurrata di una tigre
era al tatto presente, sulle lenzuola,
e le colline, le foreste, i laghi emergevano
dal grigio-verde dei riflessi d'abat-jour.
Seguii Arsen’ev come uno zio, un capitano
di famiglia, amavo la sua indecisione, la delicatezza
del suo pensiero pietroburghese, strofinato
sulle cortecce di betulla e rimescolato
nel tè campestre, tra zanzare e scoiattoli.
 
Più penetravo nella tajga, più freddi
ionizzavano i fucili-scopa sotto il braccio
e dei miei zaini elementari facevo bisacce,
accampando nelle radure smeraldo
della mia stanza giochi, comprovando la zoologia
del Lago Chanka e la flora del Sichote-Alin’
sulle epifanie dell’Ovest Ticino, le caccole di mosca
e la sensualità dei lombrichi.
Dersu mi avrebbe amato, come amò Arsen'ev,
ed io amavo lui, l'intuìto odore di ginseng,
il naso pasciuto del cacciatore
e l'organizzazione toracica del viandante.
 
Erano gli anni dei libri ocra,
con foto di trasposizioni
hollywoodiane, Tom Jones, Michele Strogoff
e La figlia del capitano.
Ma nessuno amai più di Dersu Uzala,
quel perdersi a guisa di moscerino
sui caratteri dell'edizione Mursia
godendo la grafica omogeneizzata delle appendici,
le riproduzioni, allora inattuali,
della pellicola di Kurosawa,
e la foto di quarta, con un bosco di betulle e larici,
cavalli al pascolo sotto il plumbeo
e l'infinito dietro la cornice.
«Guarda, capitano, Amba... Dietro noi camminare. Molto male. Traccia freschissima. Essere qui minuto fa»
Federico Italiano, L'invasione dei granchi giganti[1]

II.

Ancora una volta penso che i nostri sentimenti di fronte alle cose non sono che la magra fioritura di pochi semi deposti dal caso nel nostro povero cervello umano, nell'infanzia prima.

Guido Gozzano, Goa: la “Dourada”

 

Se ci fate caso, sembra che non dimentichiamo mai i nostri primi libri: l'aspetto, la sensazione

tattile, l'odore di quelle pagine coperte di colori che tanto ci attraevano quando eravamo piccoli.

Ellen Handler Spitz, Libri con le figure

 

Non è inusuale, nell'articolato scenario dell'attuale poesia italiana, trovare autori che traggano ispirazione dai loro ricordi e dalle loro impressioni infantili; meno consueto è però il richiamo all'immaginario avventuroso alimentato dai classici per l'infanzia sette, otto e novecenteschi. Gli eroi di carta come Lemuel Gulliver, Sandokan, Michele Strogoff sono infatti solitamente appannaggio delle generazioni precedenti, che gelosamente ne custodiscono una memoria appassionata, laddove la fantasticazione dei nati negli anni Settanta e Ottanta si radica principalmente nell’etere televisivo. Un’interessante eccezione è rappresentata da Federico Italiano, voce tra le più notevoli della poesia contemporanea, e in particolare dalla poesia sopra riprodotta. In questo testo, tratto dalla raccolta L'invasione dei granchi giganti, dove domina un’ambientazione nordica, glaciale, anzi artico-siberiana, Italiano traccia quella che potremmo definire una vera e propria cartografia emotiva, frutto di una sapiente miscela verbo-visiva dove scenari reali e luoghi dell’immaginario si fondono per dar vita a un personalissimo paesaggio interiore.

Autentica dichiarazione d’amore nei confronti di un classico del genere avventuroso come Dersu Uzala, il componimento convoca davanti al lettore quattro distinte figure, variamente intrecciate e contaminate: quella dell’autore, il cui io lirico indossa una doppia veste (il sé bambino e il sé adulto); quella di Vladimir Arsen’ev (1872-1930), l’esploratore, etnologo, scrittore che negli anni del conflitto russo-nipponico, all’alba del Novecento, rese immortale il proprio nome dando alle stampe il romanzo dedicato al piccolo uomo delle grandi pianure; quella di Dersu stesso e infine quella di Akira Kurosawa, il grande regista giapponese che nel 1975 realizzò un’elegiaca e commovente trasposizione filmica del libro. Il gioco di specchi e rinvii è dunque intricato: un giovane poeta cosmopolita e poliglotta del Ventunesimo secolo (Italiano) celebra in versi il romanzo che un intellettuale russo colto e raffinato, prodotto della civilizzatissima Pietroburgo d’inizio secolo (il capitano Arsen’ev) ha scritto ispirandosi alla sua amicizia con il primitivo cacciatore Nanai che gli fece da guida negli inospitali territori della Siberia (Dersu), ricordando anche più o meno implicitamente il film che da quel romanzo fu tratto.

Se abbiamo ragione nel ritenere che i concetti-chiave del componimento siano due, il ‘rimescolarsi’ e il ‘godimento’, questi devono essere intesi in una doppia accezione. Sul piano morale-cognitivo, il fascino della storia narrata in Dersu Uzala risiede principalmente nel suo potere formativo: il romanzo impartisce infatti una vera e propria lezione di apertura nei confronti dell’altro da sé, di contro a ogni chiusura identitaria di tipo etnico, nazionale, culturale, e al contempo introduce il tema della scoperta dei limiti del reale, inteso come perimetro delle possibilità di azione dell'individuo. Sul piano della fruizione, il piacere composito che l’oggetto-libro è in grado di procurare deriva dal riuscito amalgama della componente letteraria con le risorse dell’immagine filmica. I fotogrammi che nell’edizione Mursia accompagnano il testo di Arsen’ev,[2] infatti, non fungono da mero commento alla parola tipografica ma dimostrano un loro valore autonomo, cosicché l'esperienza di lettura evocata nasce da una vera e propria sintesi dei due linguaggi, sovrapposti e commisti. L'inserto iconografico insomma qui non tanto accompagna la lettura, quanto interviene direttamente a modificare, arricchendola, l'esperienza stessa della fruizione dell'oggetto-libro. Se dunque le figure del cacciatore indigeno e dell’esploratore russo si stagliano così nettamente nell’immaginario del poeta non è solo per via del seducente racconto della loro straordinaria amicizia, ma perché l'edizione di Dersu Uzala letta da bambino e indelebilmente rimasta impressa nella memoria del poeta fa fiorire, tra esotici riferimenti geo-cartografici e vibranti suggestioni sensoriali, quei semi di cui parla Gozzano nel brano citato in esergo.

Il componimento si apre con l'evocazione di un tempo lontano «in cui una pagina era una mappa, geografia»: tale età rinvia sia a una mitica stagione biografica (il tempo ‘perfetto’ dell’infanzia), sia alla ormai tramontante civiltà tipografica, in cui la fantasticheria avventurosa, attraverso l’esperienza fisica, corporea della pagina, rappresentava un modello di formazione privilegiato. Grazie all'amato oggetto-libro Dersu Uzala, con le sue «appendici» piene di materiali cartografici, il poeta-bambino godeva e ancora gode della possibilità di tenere il passo del ‘piccolo uomo’ siberiano, marciando coraggiosamente al suo fianco verso l’ultima frontiera ad Est.

In tal senso, l’operazione di Italiano implica anche una presa di distanza dalla contemporaneità e un’evasione nelle forme del passato, come testimoniano anche alcune scelte formali, relative ad esempio all'ordine delle parole – «al tatto presente» invece del più comune «presente al tatto» – o all’uso di immagini preziose e ricercate (i «riflessi d’abat-jour»). Siamo dunque qui in presenza di una compiuta estetica dell’infanzia, segnata da un’istanza affettiva incondizionata e da un’esplicita ricerca del re-incantamento.

Nelle prime due strofe, il confronto con i protagonisti del libro si costruisce come un dialogo a tre e verte sulle vicende parallele dell’io lirico e dei suoi eroi di carta; a livello fonico, tale intreccio è costruito con un addensarsi di liquide nei primi due versi che introducono sin da subito la dimensione del sogno e della fantasticheria, cui fanno da contrappunto suoni duri e aspri, terrigni e materici, richiami alla dura fisicità delle esperienze narrate, senza tuttavia che venga mai meno una forte componente magico-sacrale: così le numerose fricative che echeggiano fra loro a partire dal v. 4 fanno pensare al misterioso, bisbigliante frusciare della foresta boreale. L'auspicato incontro dell'io-bambino con «Dersu il gol'd» pare al poeta realmente avvenuto («forse / lo conobbi davvero»), se riuscita fu l'infantile identificazione con il colto esploratore russo, questo ammirevole «zio» che accetta di mettere a repentaglio la «delicatezza / del suo pensiero pietroburghese» gettandosi nell'impresa di esplorare la sconfinata landa che si estende ai confini orientali della Siberia. Il senso di tale sfida risiede nella scelta non già di ‘mescolarsi’ alla popolazione locale, bensì, con azione riflessiva, di ‘rimescolarsi’, cioè di mutar se stesso in profondità. Aprendosi all'incontro con il diverso, affrontando senza cautele l’inospitale natura selvaggia, accettando e anzi cercando l’amicizia di un ‘primitivo’, il capitano dimette i panni dell’autoritario colonizzatore, stempera in sé ogni residuo di rigidità positivistica e si pone in ascolto della vita nella sua forma più essenziale e istintiva, misurando così per la prima volta la propria finitudine esistenziale.

Italiano si sofferma su questo aspetto pedagogicamente rilevante del libro in due versi di particolare suggestione: solo dopo essersi «strofinato / sulle cortecce di betulla e rimescolato / nel tè campestre, tra zanzare e scoiattoli», infatti, l’intellettuale russo ha potuto riconoscersi, direbbe Ungaretti, «una docile fibra / dell'universo», creatura tra le creature. Ci par lecito avanzare qui l’ipotesi che questi versi dedicati ai boscosi scenari del fiume Lefu nascano da una diretta reminiscenza del poeta-soldato che, aggrappato a un albero, si ‘rimescolava’ (la presenza di questo verbo non crediamo sia casuale) nel torbido delle acque per potersi comprendere.[3] Se la spietata ma limpida moralità della taiga, di questa terra che possiede connotazioni decifrabili solo dai suoi figli, come Dersu, è la vera protagonista del libro, Italiano ne fa la fonte di una laica saggezza per l’uomo moderno, che esce completamente rigenerato dall’incontro con le smisurate forze della natura.

Nella seconda strofa l’identificazione dell’io lirico con le vicende narrate si accentua ulteriormente, cosicché le avventure di carta e celluloide di Dersu e Arsen’ev si ripetono e sviluppano nella realtà dei giochi d’infanzia, mentre la taiga si reduplica nei luoghi del quotidiano, domestici (la stanza del sé bambino) e geograficamente vicini, familiari (il «Lago Chanka» riprodotto nell’Ovest Ticino). Qui in particolare ci è dato parlare di una cartografia emotiva che tratteggia i contorni di uno sterminato, favoloso paesaggio interiore: mentre il poeta-bambino si aggira tra «radure di smeraldo» – un giardino? Una sponda lacustre? – con la scopa che funge da fucile e lo zaino scolastico da borsa di viaggio, tutte le sensazioni visive, tattili, olfattive si riorganizzano sulla base di una realtà fantastica percepita come immanente, corporea, dalla sinestetica «orma sussurrata» della tigre alla «sensualità dei lombrichi» all’«intuìto odore di ginseng». Così la stessa complessione fisica di Dersu, il suo «naso pasciuto» e la robusta «organizzazione toracica», individuano un modello corporeo assolutamente invidiabile, non perché rispondente ai canoni estetici correnti ma perché particolarmente adatto alla sopravvivenza, capace di affrontare qualsiasi dolore fisico e cogliere ogni minimo segnale della natura. Il sinuoso succedersi dei versi, attraverso un’elegante serie di slogature e ben ritmati enjambements, ha la funzione di sottolineare una certa continuità espositiva, restituendo, grazie anche all'impiego dell’imperfetto narrativo, il ritmo avventuroso dei giochi d’infanzia, la dimensione romanzesca del meraviglioso interiore. Se il testo di Arsen’ev sembra costituire ancora il referente principale, in realtà il film di Kurosawa è qui già implicitamente evocato attraverso il ricorso a un montaggio dei versi dal sapore nettamente cinematografico, fluido ed epicizzante, sebbene sempre improntato a una certa dose di letterarietà, come testimoniano certe scelte lessicali preziose e arcaizzanti («ionizzavano», «comprovando»).

In apertura della terza e ultima strofa il poeta ribatte sul dato privato e insieme generazionale di un’infanzia particolarmente segnata dalla cultura tipografica, cosicché l’evocazione di quell’epoca «in cui una pagina era una mappa» si replica nel sintagma «Erano gli anni...». Soprattutto qui, sempre con tono lirico sostenuto ma con andamento più ragionativo, il riferimento al libro di Arsen’ev si complica e arricchisce attraverso rimandi alle immagini che corredano il volume, implicando dunque in modo diretto la questione dell'interferenza tra parola e stimolo visivo.[4] Tale interferenza è retta dal verbo chiave della strofa, il gerundio «godendo», che in un unico arco sintattico teso ad abbracciare almeno sei versi organizza e allinea i vari livelli dell’esperienza di fruizione del libro, appaiando la dimensione tipografica (quei «caratteri» su cui lo sguardo sorvola ed erra spensierato, fino a «perdersi a guisa di moscerino», e poi «la grafica omogeneizzata delle appendici») e quella iconografica («le riproduzioni»). Proprio la felice combinazione di riferimenti verbali e visivi è ciò che rende l’edizione Mursia di Dersu Uzala, al pari di altri libri «con foto di trasposizioni hollywoodiane», così godibile e tanto memorabile da meritare di diventare oggetto di un componimento poetico.

Nei versi finali il gioco di intersezioni tra vicenda romanzesca e testualità filmica diventa evidente attraverso il richiamo alle «inattuali» foto di scena che raffigurano Dersu impegnato a dar prova di destrezza nell'uso del fucile, o quando incontra un drappello di indigeni, o mentre si avvia zaino in spalla verso nuove avventure. Ma a contare per l’autore-bambino è soprattutto quella «foto di quarta» che raffigura «un bosco di betulle e larici» e «cavalli al pascolo sotto il plumbeo».

Ciò che sta dietro il paesaggio interiore del poeta, si potrebbe dire parafrasando Andrea Zanzotto, nell’interferenza tra pagina scritta e fotogramma filmico, è il mondo di illimitate possibilità della fantasticazione, in cui un intero universo verbo-visivo assurge a figura della coscienza. L'«infinito dietro la cornice», inquadrato e insieme celato dietro il perimetro grafico dell’impaginato, rinvia insomma non solo allo sconfinato paesaggio della taiga, a quelle mitiche lontananze tanto più evocative quanto più irraggiungibili, ma è anche davvero un infinito leopardiano, dal momento che parola e immagine si richiamano l’un l’altra moltiplicando a dismisura i propri effetti, che sono poi quelli di fingere nel pensiero un mondo immaginario in cui rimescolarsi e di cui godere senza limiti o confini.

III.

Federico Italiano (Galliate, 1976) vive a Monaco di Baviera dal 2001, dove insegna Letterature Comparate presso la Ludwig-Maximilians-Universität. Ha pubblicato quattro libri di poesia, Nella costanza (Atelier, 2003), I Mirmidoni (Il Faggio, 2006), L’invasione dei granchi giganti (Marietti, 2010) e L'impronta (Aragno 2014). È appena apparsa per i tipi di Feltrinelli la raccolta autoantologica Un esilio perfetto: poesie 2000-2015 (Feltrinelli 2015, formato e-book). Fra i suoi saggi da ricordare Tra miele e pietra. Aspetti di geopoetica in Montale e Celan (Mimesis, 2009).


1 F. Italiano, L’invasione dei granchi giganti. Poesie 2004-2009, Genova, Marietti 1820, 2010, pp. 16-17. Il testo si legge ora anche in Id., Un esilio perfetto: poesie scelte 2000-2015, Milano, Feltrinelli, 2015 (e-book).

2 L’edizione Mursia cui l’autore fa riferimento è quella del 1988, ancora in suo possesso: V. K. Arsen'ev, Dersu Uzala. Il piccolo uomo delle grandi pianure, in appendice corredo didattico a cura di E. Savino, traduzione dal russo di C. Di Paola e S. Leone. Ringrazio l’autore per queste informazioni e per avermi concesso le immagini della sua copia personale qui riprodotte.

3 Alludo naturalmente ad alcuni celebri versi de I fiumi: «Mi tengo a quest'albero mutilato» e poi «Questa è la Senna / e in quel suo torbido / mi sono rimescolato / e mi sono conosciuto» (G. Ungaretti, Vita d'un uomo. Tutte le poesie, a cura e con un saggio introduttivo di C. Ossola, Milano, Mondadori, 2009, pp. 81 e 83).

4 Ricordiamo che Italiano si è interessato anche da studioso ai rapporti tra la poesia e le altre arti; nel 2005 ad esempio ha curato, con Giuliano Ladolfi, il volume Sentieri poetici nelle arti contemporanee (Novara, Interlinea).