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II.

L'immagine non è questo

o quel significato espresso dal regista,

bensì un mondo intero che si riflette

in una goccia d'acqua,

in una goccia d'acqua soltanto!

Andrej Tarkovskij, Luce istantanea

Dettagli anatomici enigmatici, gesti sospesi, ambienti appena intravisti e subito svaniti: è a partire da questi elementi tanto evocativi quanto misteriosi che cercheremo di analizzare i versi sopra riportati di Franca Mancinelli, tratti dalla sua seconda raccolta poetica, Pasta madre. Lo faremo sottolineando lo stretto rapporto che intrattengono con un dipinto, la Madonna del parto di Piero della Francesca, e con un film, Nostalghia di Andrej Tarkovskij (1983), pellicola che si apre con la sequenza della visita di Eugenia, la protagonista femminile, alla cappella di Momentana a Monterchi.

Entrambi questi riferimenti ci riconducono all'universo rurale del centro Italia, alle sue credenze e tradizioni: ricordiamo che Tarkovskij scrisse Nostalghia a quattro mani con Tonino Guerra, «l'Omero della civiltà contadina» come lo definì Elsa Morante,[2] e che la Madonna del parto rappresenta, nell'interpretazione di Pier Paolo Pasolini, l'icona stessa della grazia agreste.[3] L'opera di Franca Mancinelli è in effetti profondamente legata alla cultura contadina della terra da cui proviene, le Marche, il cui paesaggio collinare torna costantemente nella sua scrittura, al pari dei porti e dei lidi che punteggiano la costa. Un certo tipo di devozione per la figura della Vergine rientra appunto in questo contesto di civiltà pre-moderna, solidamente ancorata a una concezione circolare e rituale del tempo, e tuttavia occorre osservare sin da subito come la Maria qui chiamata in causa – unico nome proprio a comparire in tutta la raccolta – non costituisca solo un riferimento religioso: si tratta in primo luogo di un'allusione autobiografica, se Maria è il secondo nome della poetessa, come scopriamo leggendo la prosa Maria, verso Cartoceto.[4] In realtà, il discorso è ancora più ampio: al richiamo «Maria» infatti risponde da secoli una moltitudine di donne nate e cresciute nel fondo delle campagne, donne che di generazione in generazione si sono passate questo nome tanto sacro da diventare una sorta di amuleto o contrassegno genetico, antichissimo e venerabile. «Maria è il nome che ogni donna porta», scrive Mancinelli, «e davvero nelle nostre campagne marchigiane non c'era madre che non desse a sua figlia questo nome, come invocazione, come ringraziamento».[5] Di conseguenza, il «mi» del verso «Maria come mi chiamo» identifica non un io singolo ma un tumulto di destini, una figura-plurale coincidente con una sorta di sterminata, atavica comunità muliebre caratterizzata da un viscerale intreccio di esistenze.

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"Interferenze. Poeti d'oggi e arti della visione" si propone come uno spazio di analisi dei rapporti tra visualità e verbalità nelle opere di poetesse e poeti italiani delle generazioni più recenti. Un esperimento condotto con l’immagine ‘a fronte’, attraverso un confronto diretto tra la pagina e l’opera visiva che l’ha ispirata. Costituendosi come ‘serie’ di contributi, "Interferenze" si prefigge un duplice obiettivo: sottolineare la centralità di questi temi in alcune esperienze della migliore poesia italiana contemporanea e, insieme, offrire ai lettori di «Arabeschi» un sia pur essenziale panorama delle voci che animano l’attuale scena della scrittura in versi, implicitamente evidenziandone la varietà e ricchezza di esiti e toni.

 

II.

Ancora una volta penso che i nostri sentimenti di fronte alle cose non sono che la magra fioritura di pochi semi deposti dal caso nel nostro povero cervello umano, nell'infanzia prima.

Guido Gozzano, Goa: la “Dourada”

 

Se ci fate caso, sembra che non dimentichiamo mai i nostri primi libri: l'aspetto, la sensazione

tattile, l'odore di quelle pagine coperte di colori che tanto ci attraevano quando eravamo piccoli.

Ellen Handler Spitz, Libri con le figure

 

Non è inusuale, nell'articolato scenario dell'attuale poesia italiana, trovare autori che traggano ispirazione dai loro ricordi e dalle loro impressioni infantili; meno consueto è però il richiamo all'immaginario avventuroso alimentato dai classici per l'infanzia sette, otto e novecenteschi. Gli eroi di carta come Lemuel Gulliver, Sandokan, Michele Strogoff sono infatti solitamente appannaggio delle generazioni precedenti, che gelosamente ne custodiscono una memoria appassionata, laddove la fantasticazione dei nati negli anni Settanta e Ottanta si radica principalmente nell’etere televisivo. Un’interessante eccezione è rappresentata da Federico Italiano, voce tra le più notevoli della poesia contemporanea, e in particolare dalla poesia sopra riprodotta. In questo testo, tratto dalla raccolta L'invasione dei granchi giganti, dove domina un’ambientazione nordica, glaciale, anzi artico-siberiana, Italiano traccia quella che potremmo definire una vera e propria cartografia emotiva, frutto di una sapiente miscela verbo-visiva dove scenari reali e luoghi dell’immaginario si fondono per dar vita a un personalissimo paesaggio interiore.

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"Interferenze. Poeti d'oggi e arti della visione" si propone come uno spazio di analisi dei rapporti tra visualità e verbalità nelle opere di poetesse e poeti italiani delle generazioni più recenti. Un esperimento condotto con l’immagine ‘a fronte’, attraverso un confronto diretto tra la pagina e l’opera visiva che l’ha ispirata. Costituendosi come ‘serie’ di contributi, "Interferenze" si prefigge un duplice obiettivo: sottolineare la centralità di questi temi in alcune esperienze della migliore poesia italiana contemporanea e, insieme, offrire ai lettori di «Arabeschi» un sia pur essenziale panorama delle voci che animano l’attuale scena della scrittura in versi, implicitamente evidenziandone la varietà e ricchezza di esiti e toni.

 

II.

Francesco Targhetta, una delle voci più originali tra le ultime apparse nel panorama della poesia italiana, è un autore che intrattiene con l’immagine visiva un rapporto stretto e fecondo, come testimonia sin dal titolo il suo fortunato romanzo in versi Perciò veniamo bene nelle fotografie, edito nel 2012 da Isbn. Il testo da cui prende spunto questa terza “Interferenza” è tratto da una plaquette, Le cose sono due, vincitrice nel 2014 del Premio Ciampi «Valigie rosse». La prima sezione della raccolta, intitolata Uno e composta da sedici testi, presenta una galleria di personaggi colti nella loro quotidiana ordinarietà da parte di un ‘io’ che interpella un ‘tu’ a sua volta spettatore, all’interno di una ragnatela di relazioni a distanza che non si struttura mai in dialogo ma somiglia piuttosto a un «gioco di specchi»,[2] di rifrazioni dello sguardo e del pensiero. Le relazioni umane, e sociali, che Targhetta indaga «con una fedeltà al reale e una salutare ingordigia di particolari che raramente [...] avviene nella nostra narrativa attuale»,[3] sono così interrogate alla luce del disagio psichico e comportamentale generato da una condizione esistenziale avvilente, segnata da precarietà lavorativa e affettiva, mancanza di empatia, raggelamento emotivo, ripetitivo cristallizzarsi del quotidiano in una ritualità di gesti non solo vacui ma disperatamente ansiogeni.

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II.

La raccolta Il rovescio del dolore di Luigi Socci presenta in copertina un riferimento iconografico spassoso quanto irriverente: la caffettiera per masochisti ideata dal grafico e illustratore marsigliese Jacques Carelman, pubblicata in quel Catalogue d'objets introuvables che è uno dei volumi più rappresentativi del Surrealismo postbellico. Perché questa scelta?

È probabile che Socci, con l'amara e risentita ironia che caratterizza il suo lavoro, abbia inteso servirsi di un'immagine che sintetizza in modo esemplare una forma tra le più comuni di ‘dolore alla rovescia’: quella del masochismo, in questo caso simboleggiato da una caffettiera ustionante.[2] Cos'è in fondo il masochismo, se non una delle manifestazioni archetipiche della nostra società odierna, allucinata e ansiosa di infliggere (e infliggersi) dolore e punizione? Di più, che cos'è il teatrale e sensuale misticismo barocco, irresistibilmente affascinante per molti poeti contemporanei – penso, in particolare, all'opera di autori come Vito Bonito e Rosaria Lo Russo – se non un fenomeno di plateale godimento masochistico, che molto ha a che spartire con la narcisistica egolatria dei tempi presenti? Letto in quest'ottica, quello di Socci – tratto da una sezione de Il rovescio del dolore intitolata Berniniane – è un testo che crea, grazie al referente figurativo, un fulminante corto-circuito tra due poetiche dell'estasi per molti versi sintoniche: quella espressa da Bernini attraverso la raffigurazione della Santa barocca per eccellenza e quella messa a nudo dal poeta-performer anconetano giocando, se non sulle spinte autodistruttive, sulle neo-barocche tendenze masochistiche della contemporaneità.

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II

Abbandonati interamente alle tue ossessioni. Tanto non hai certo nulla di meglio. Le ossessioni sono relitti dʼinfanzia. Ed è proprio dalla profondità dellʼinfanzia che hanno origine i tesori maggiori.

Jan Švankmajer, Decalogo

 

Alice inseguita, Alice minacciata, Alice ‘disambientata’, come la vedeva Gianni Celati: ma, soprattutto, Alice incantata, in bilico tra sogno e realtà, bambina-bambola che parla poco, impara molto dal silenzio e posa sul mondo uno sguardo ora partecipe, ora pietrificato. Il testo sopra riprodotto, che apre la sezione Down the rabbit hole della raccolta Nel sonno di Francesca Matteoni – titolo che richiama, forse involontariamente, una delle più belle, visionarie e inquietanti tele del primo Novecento italiano: Nel sonno di Alberto Martini – trae ispirazione dai capolavori di Lewis Carroll Aliceʼs Adventures in Wonderland e Through the Looking-Glass, ma con una decisiva mediazione proveniente dal mondo visuale. Mi riferisco allʼinterpretazione/riscrittura che, degli Alice Books, ha dato uno dei maggiori autori del cinema contemporaneo, il regista ceco Jan Švankmajer, con il suo capolavoro Alice (Nêco z Alenky), traducibile come Qualcosa di Alice (1987).

Sprofondata nel rebus del sogno, Alice ripetutamente si stropiccia gli occhi, mentre una folla di immagini enigmatiche assedia la sua coscienza fluttuante. Gli animali «fatti dʼosso» e «con qualche lancetta fuori posto» dei primi versi ci introducono senza indugi nel mondo bizzarro e per molti versi raccapricciante che caratterizza lʼarte – non solo filmica –[2] di Švankmajer, un universo abitato da presenze inquietanti, assemblate da un cattivo demiurgo che pare essersi divertito a fondere, con macabra inventiva e una buona dose di humour noir, parti meccaniche e frammenti di scheletri, incollando occhi posticci su crani animali e mettendo le briglie a volatili impagliati.

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