Interferenze #03 - Crepare dentro d’amore

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"Interferenze. Poeti d'oggi e arti della visione" si propone come uno spazio di analisi dei rapporti tra visualità e verbalità nelle opere di poetesse e poeti italiani delle generazioni più recenti. Un esperimento condotto con l’immagine ‘a fronte’, attraverso un confronto diretto tra la pagina e l’opera visiva che l’ha ispirata. Costituendosi come ‘serie’ di contributi, "Interferenze" si prefigge un duplice obiettivo: sottolineare la centralità di questi temi in alcune esperienze della migliore poesia italiana contemporanea e, insieme, offrire ai lettori di «Arabeschi» un sia pur essenziale panorama delle voci che animano l’attuale scena della scrittura in versi, implicitamente evidenziandone la varietà e ricchezza di esiti e toni.

 

I.
Il bugiardo che infine dà di matto
non perché stenti a gestire il garbuglio
ma per l’agra evidenza che nessuno
si è mai accorto di nulla,
neppure chi accese la miccia.
 
Tra tutti i quadri sui buoi scuoiati
il migliore è un Rembrandt, ’55,
sullo sfondo una ragazza che sbircia.
Francesco Targhetta, Le cose sono due[1]

II.

Francesco Targhetta, una delle voci più originali tra le ultime apparse nel panorama della poesia italiana, è un autore che intrattiene con l’immagine visiva un rapporto stretto e fecondo, come testimonia sin dal titolo il suo fortunato romanzo in versi Perciò veniamo bene nelle fotografie, edito nel 2012 da Isbn. Il testo da cui prende spunto questa terza “Interferenza” è tratto da una plaquette, Le cose sono due, vincitrice nel 2014 del Premio Ciampi «Valigie rosse». La prima sezione della raccolta, intitolata Uno e composta da sedici testi, presenta una galleria di personaggi colti nella loro quotidiana ordinarietà da parte di un ‘io’ che interpella un ‘tu’ a sua volta spettatore, all’interno di una ragnatela di relazioni a distanza che non si struttura mai in dialogo ma somiglia piuttosto a un «gioco di specchi»,[2] di rifrazioni dello sguardo e del pensiero. Le relazioni umane, e sociali, che Targhetta indaga «con una fedeltà al reale e una salutare ingordigia di particolari che raramente [...] avviene nella nostra narrativa attuale»,[3] sono così interrogate alla luce del disagio psichico e comportamentale generato da una condizione esistenziale avvilente, segnata da precarietà lavorativa e affettiva, mancanza di empatia, raggelamento emotivo, ripetitivo cristallizzarsi del quotidiano in una ritualità di gesti non solo vacui ma disperatamente ansiogeni.

Sul piano della tecnica compositiva, l’armamentario cui Targhetta ricorre per delineare i suoi affondi introspettivi presenta modalità già finemente rilevate da Paolo Maccari nella postfazione al volume e facilmente riscontrabili anche nel testo qui riprodotto, dalla raffinata sapienza metrica, con prevalenza di endecasillabi (compreso quello mosso, creativamente alfanumerico del v. 7), alla calcolata dislocazione delle parole (aggettivo seguito da sostantivo: «agra evidenza») e disseminazione dei gruppi sillabici, identici (bu) o contigui (gi/ge/ga/gli/gr; do/dà; ma/mi; ne/no; te/ti). L’obiettivo è quello di dinamizzare la consistenza fonica del testo, così da «rimarcare l’abbraccio mancato tra personaggi paesaggi oggetti e un loro qualche significato propulsivo».[4] Circa l’orchestrazione del componimento, al pari delle altre liriche della sezione, siamo in presenza di un doppio movimento: uno più descrittivo, l’altro più riflessivo, vicendevolmente intrecciati. Ciò che tuttavia differenzia il testo in questione dai precedenti quindici, è che qui per la prima e unica volta viene chiamata in causa un’opera d’arte: il che comporta, come cercheremo di dimostrare, un elemento di scarto essenziale.

Sin dal primo verso, Targhetta introduce il suo personaggio, l’ultimo della sezione Uno e quello che in qualche misura li riassume tutti: il bugiardo. Di chi si tratta? Non ne sappiamo molto, ma possiamo immaginare che sia un uomo del nostro tempo, né molto giovane né compiutamente maturo, qualcuno che forse custodisce un segreto, o ha celato la propria condizione, o ha mentito a se stesso e a chi lo circonda. Sicuramente è un individuo che ha taciuto qualcosa, sempre attendendo, ma invano, che gli altri lo avvicinassero per interrogarlo. Si tratta insomma di una figura che, dopo aver lungamente serbato dentro di sé una carica repressa di sofferenza e rancore, occultando la propria «solitudine / adulta» tra le pareti di una gabbia fatta di infingimenti e dissimulazioni,[5] un giorno è esploso, deflagrando all’esterno. Non, precisa il poeta, perché si sia sentito improvvisamente sopraffatto dalla condizione di isolamento da lui stesso alimentata («non perché stenti a gestire il garbuglio»), ma per l’acquisita, insopportabile consapevolezza («l’agra evidenza») che nessuno, tra le persone a lui vicine («neppure chi accese la miccia»), si è mai accorto del profondo disagio psichico ed emotivo che lo ha indotto a costruire quella gabbia fatta di silenzi o, che è lo stesso, di menzogne. Nessuno, insomma, è mai stato capace di vederlo ‘dentro’, ed è questo che nel tempo ha plasmato la sua identità di bugiardo.

La seconda strofa, che si apre con un immediato e diretto riferimento alle arti visive («Tra tutti i quadri...»), apparentemente non presenta alcuna connessione con la prima. Invece di chiamare in causa una tela che raffiguri un bugiardo, Targhetta evoca una celebre opera di uno dei grandi maestri della pittura di tutti i tempi: Rembrandt. Il titolo del quadro non è citato ma è facile comprendere che si tratta di Geslachte Os, ovvero ‘bue macellato’.

 Rembrandt, De geslachte os (Bue macellato, 1655)

Perché proprio questa tela, e, di conseguenza, qual è la relazione tra le due parti? Iniziamo col sottolineare che l’accostamento tra creazione verbale e stimolo visivo funziona qui non per via illustrativa (un dipinto che rappresenta un fatto), bensì attraverso un cortocircuito percettivo-emotivo: un dipinto che ‘incarna’ una condizione.

Prendiamo le mosse da una celebre dichiarazione di Francis Bacon: «noi siamo carne, siamo potenziali carcasse. Ogni volta che entro in una macelleria mi stupisco di non essere lì io, al posto dell’animale».[6] Ci troviamo qui alle prese con la distinzione essenziale operata da Gilles Deleuze tra due concetti, chair e viande, che in italiano hanno un solo vocabolo per essere espressi (carne, laddove Bacon nell’intervista originale impiega la parola meat). Nell’interpretazione di Deleuze, ciò che interessa il pittore dublinese, ciò che suscita la sua pietà, è la viande, la quale non è appunto chair, sostanza morta e inerte, bensì materia viva che custodisce tutte le sofferenze del soggetto, presenta e rappresenta tutto il suo dolore convulsivo, terribile e, insieme, esteticamente seducente (la varietà cromatica di un quarto di bue appeso costituisce, per un pittore, uno spettacolo assolutamente inebriante). Se, come dice Deleuze, «tout homme qui souffre est de la viande»,[7] se la viande è quella zona in cui l’uomo e la bestia si incontrano e si riconoscono, identificandosi, ecco che iniziamo a comprendere meglio quale ambito sia capace di evocare il Geslachte Os rembrandtiano, questo «bue morto e appeso, ancora sanguinante per la sua pelle scorticata […], crudele, inerte, magnifico, con i suoi monconi e il ventre svuotato delle trippe», come magistralmente lo descrive Henri Focillon.[8] La natura di questa identificazione spiega bene perché, alla radice di ogni immagine che rappresenti un mattatoio, si trovi una forte istanza religiosa che non può essere trascurata: in età barocca, e particolarmente nel contesto culturale olandese, l’esposizione pittorica della carne macellata rientra in quel genere di arte filosofico-edificante che in francese si definisce vanité, dove la figura rappresentata ha la funzione di ricordare allo spettatore la propria natura mortale, il fatto che dovrà comparire davanti a Dio per render conto dei propri peccati. Questa componente escatologica non è andata perduta nell’arte contemporanea, tanto che sempre Deleuze sosteneva, a ragione, che solo quando ha a che fare con le macellerie Bacon diventa un pittore religioso.[9] Lo stesso può dirsi di altre tele del Ventesimo secolo che presentano il medesimo soggetto, come il Boeuf écorché o Carcasse de boeuf dipinto nel 1925 da Chaim Soutine.

Chaim Soutine, Boeuf écorché o Carcasse de boeuf (Bue scorticato o carcassa di bue, 1925)

In questo caso, però, Targhetta non allude genericamente a uno dei tanti buoi scuoiati che figurano nei libri di storia dell’arte, ma a uno in particolare, ritenuto il migliore in assoluto, quello ritratto da Rembrandt – che pure ne aveva dipinti anche altri – nel 1655. In che cosa risiede l’eccezionalità di questo dipinto? Nella sua straordinaria qualità tecnica, certamente, ma anche nel fatto che in Geslachte Os la viande del bue mutilato e squartato – le sue viscere esposte, messe a nudo senza manto e senza pelle – cade sotto gli occhi di uno spettatore interno al quadro, la «ragazza che sbircia» sullo sfondo.

 Rembrandt, Bue macellato, dettaglio

Quella testolina che sbuca da dietro una porta osserva con sguardo pensoso lo spettatore e, insieme, la miseria di quella viande sanguinante con cui lo spettatore è indotto a identificarsi: ogni spettatore, incluso il solitario, incompreso bugiardo. Egli vede dunque finalmente riconosciuta, cioè compresa (letteralmente: presa assieme) la propria terribile, quanto comune – perché condivisa con ogni uomo, con ogni animale – natura di viande. Ciò che rende questo Rembrandt migliore degli altri quadri raffiguranti lo stesso soggetto, è allora il fatto di affiancare alla macabra figura allegorica del memento mori la viva testimonianza di una dimensione umana primordiale: il sentimento della pietà.

Come ha scritto Antonella Anedda con un rilievo particolarmente illuminante se riferito ai versi di Targhetta, «la compassione di Rembrandt è “il crepare dentro d’amore” di Céline […]; la compassione di entrambi non è fiducia nell’umanità, ma nel suo dolore».[10]

 Rembrandt, Autoritratto all'età di 63 anni (1669)

Se ha ragione Paolo Maccari nell’osservare che «non c’è in tutta la raccolta un solo gesto di vicinanza, di cordialità, di comprensione»,[11] occorre tuttavia rilevare come questo ultimo componimento della prima sezione introduca un elemento di sorprendente eccezionalità. Né è un caso che tale scarto sia affidato a un’immagine pittorica, segnatamente a un quadro di Rembrandt: un maestro, come Vincent Van Gogh scriveva al fratello Theo nell’ottobre 1885, «tanto colmo di mistero da dire cose che non possono esprimersi in alcuna lingua».[12] Quel che Targhetta rende evidente attraverso questo componimento, facendo vertiginosamente entrare in cortocircuito la realtà soggettiva, intima di un uomo del nostro tempo (il bugiardo) con un celebre quadro olandese (Geslachte Os), è la natura stessa di quel che chiamiamo un’emozione mediale: la possibilità di ritrovare in un’opera, in questo caso addirittura separata da noi da secoli di distanza, non già un’istanza salvifica, ma almeno un forza veritativa, l’incarnazione stessa della nostra condizione umana. Il bugiardo – figura per certi versi romanzesca, che fa pensare alla narrativa russa ottocentesca: a Gogol’, a Dostoevskij – non spera in una redenzione, non immagina neppure di poter in qualche modo trasumanare: ma sa, adesso, che il suo carnale crepare, il suo crever en dedans d’amour, non è più un segreto ignorato da tutti. C’è qualcuno, una ragazza dipinta centinaia di anni fa che, rifiutandosi di restare fuori dal quadro, ha fatto capolino con la testa per sbirciare, per intravedere il suo dolore, la ferita esposta delle sue viscere.

 

III.

Francesco Targhetta (Treviso, 1980) insegna come supplente materie letterarie, dopo aver concluso all’università di Padova un dottorato in Italianistica (durante il quale ha lavorato alla riedizione de Gli Aborti di Corrado Govoni) e dopo un assegno di ricerca incentrato sulla poesia simbolista di fine ’800. Ha pubblicato un libro di poesie (Fiaschi, ExCogita, 2009) e un romanzo in versi (Perciò veniamo bene nelle fotografie, Isbn, 2012). Nel 2014 ha pubblicato la plaquette Le cose sono due, che ha ottenuto il Premio Ciampi «Valigie rosse». Sue poesie sono apparse su riviste e blog letterari.


1 F. Targhetta, Le cose sono due, fotografie di Riccardo Bargellini, postfazione di Paolo Maccari, Livorno, Valigie Rosse, 2014, p. 28.

2 Ivi, p. 14.

3 P. Maccari, Postfazione a F. Targhetta, Le cose sono due, p. 44.

4 Ivi, p. 48.

5 F. Targhetta, Le cose sono due, p. 19.

6 D. Sylvester, Interviste a Francis Bacon, Milano, Skira, 2003, p. 42.

7 G. Deleuze, Francis Bacon. Logique de la sensation. I, Paris, Éditions de la Différence, 1981, p. 21.

8 H. Focillon, Rembrandt, a cura di F. Ferrari, Milano, Abscondita, 2002, p. 25.

9 Cfr. G. Deleuze, Francis Bacon, p. 21.

10 A. Anedda, La luce delle cose. Immagini e parole nella notte, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 106. Il riferimento è a un brano di Voyage au bout de la nuit: «L’avevo proprio sentito, molte volte, l’amore di riserva. Ce n’è moltissimo. Non si può dire il contrario. Solo è una disgrazia che resti così carogna con tanto amore di riserva, la gente. Non viene fuori, ecco tutto. È preso dentro, resta dentro, gli serve a niente. Ci crepano dentro, d’amore» (L.-F. Céline, Viaggio al termine della notte, traduzione e note di E. Ferrero, Milano, TEA, 2002, p. 434).

11 P. Maccari, Postfazione a F. Targhetta, Le cose sono due, p. 46.

12 V. Van Gogh, Lettere a Theo, introduzione di M. Giancaspro, Napoli, Pironti, 2003, p. 230.