Stefano Bessoni, romano classe 1965, è un regista, illustratore e animatore in stop motion. Negli anni, muovendosi tra il cinema – il mezzo espressivo che preferisce – e lo «scarabbocchio», ha inventato un universo su carta popolato da centinaia di personaggi. Le fiabe e il mondo dell’infanzia sono un elemento fondamentale della sua poetica, affascinato com’è dal loro potenziale iniziatico per cui il sogno può trasformarsi in incubo e tutto può accadere.

Lo abbiamo incontrato a Roma, dove ci ha aperto le porte del suo studio e dove tra Wunderkammer e progetti futuri ci ha raccontato di sé, dei suoi modelli ispiratori e dei suoi progetti futuri. Nel video che qui presentiamo Bessoni ci spiega che sin dagli esordi come film-maker è stato sempre spinto dalla necessità di creare e possedere immagini.

Il suo interesse per «la dimensione irreale delle fiabe» lo porta alla creazione dei libri di cui ci parla: dai primi lavori, Homunculus e Wunderkammer, alle riscritture in chiave macabra di Alice e di Pinocchio fino alle poesie macabre di Christian Morgenstern de I canti della forca, da cui è nato anche l’omonimo cortometraggio, senza dimenticare la figura tanto arcaica quanto misteriosa di Mr. Punch. La fiaba diviene così l’immagine speculare del mondo reale «dove i pericoli sono narrati per mettere in guardia il bambino ignaro che si prepara ad affrontare il mondo e, perché no, anche l’adulto».

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"Interferenze. Poeti d'oggi e arti della visione" si propone come uno spazio di analisi dei rapporti tra visualità e verbalità nelle opere di poetesse e poeti italiani delle generazioni più recenti. Un esperimento condotto con l’immagine ‘a fronte’, attraverso un confronto diretto tra la pagina e l’opera visiva che l’ha ispirata. Costituendosi come ‘serie’ di contributi, "Interferenze" si prefigge un duplice obiettivo: sottolineare la centralità di questi temi in alcune esperienze della migliore poesia italiana contemporanea e, insieme, offrire ai lettori di «Arabeschi» un sia pur essenziale panorama delle voci che animano l’attuale scena della scrittura in versi, implicitamente evidenziandone la varietà e ricchezza di esiti e toni.

 

 

 

 

II

Abbandonati interamente alle tue ossessioni. Tanto non hai certo nulla di meglio. Le ossessioni sono relitti dʼinfanzia. Ed è proprio dalla profondità dellʼinfanzia che hanno origine i tesori maggiori.

Jan Švankmajer, Decalogo

 

Alice inseguita, Alice minacciata, Alice ‘disambientata’, come la vedeva Gianni Celati: ma, soprattutto, Alice incantata, in bilico tra sogno e realtà, bambina-bambola che parla poco, impara molto dal silenzio e posa sul mondo uno sguardo ora partecipe, ora pietrificato. Il testo sopra riprodotto, che apre la sezione Down the rabbit hole della raccolta Nel sonno di Francesca Matteoni – titolo che richiama, forse involontariamente, una delle più belle, visionarie e inquietanti tele del primo Novecento italiano: Nel sonno di Alberto Martini – trae ispirazione dai capolavori di Lewis Carroll Aliceʼs Adventures in Wonderland e Through the Looking-Glass, ma con una decisiva mediazione proveniente dal mondo visuale. Mi riferisco allʼinterpretazione/riscrittura che, degli Alice Books, ha dato uno dei maggiori autori del cinema contemporaneo, il regista ceco Jan Švankmajer, con il suo capolavoro Alice (Nêco z Alenky), traducibile come Qualcosa di Alice (1987).

Sprofondata nel rebus del sogno, Alice ripetutamente si stropiccia gli occhi, mentre una folla di immagini enigmatiche assedia la sua coscienza fluttuante. Gli animali «fatti dʼosso» e «con qualche lancetta fuori posto» dei primi versi ci introducono senza indugi nel mondo bizzarro e per molti versi raccapricciante che caratterizza lʼarte – non solo filmica –[2] di Švankmajer, un universo abitato da presenze inquietanti, assemblate da un cattivo demiurgo che pare essersi divertito a fondere, con macabra inventiva e una buona dose di humour noir, parti meccaniche e frammenti di scheletri, incollando occhi posticci su crani animali e mettendo le briglie a volatili impagliati.

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Il sole splendeva sul mare

con empito ardito e radioso,

compiva ogni sforzo per fare

brillare ogni singol maroso.

La cosa era stramba perché

era notte e suonavan le tre…

Tratto dallo spettacolo Alice Undergronud

Un viaggio meraviglioso e sorprendente, in uno spazio magicamente «sovrapposto», quello che dal 7 al 31 dicembre ha divertito gli spettatori del Teatro Elfo Puccini di Milano, e adesso torna in scena in questo inizio d’anno grazie a una tournée (fino al 29 gennaio) che ha già raccolto ampi consensi. Un’ora e mezza di puro piacere visivo, di sorpresa continua in cui il mondo disegnato da Ferdinando Bruni si anima grazie alla regia di Francesco Frongia e vede muoversi al suo interno una Alice di oggi, e forse di sempre (la bravissima Elena Russo Arman), e un trio formidabile (composto dallo stesso Bruni e da Ida Marinelli e Matteo De Mojana), che si prodiga a impersonare con costumi elaborati ed estrosi travestimenti una folla di stralunate figure (24 in tutto).

Alice Underground – titolo che rispecchia quello della prima versione del capolavoro di Lewis Carroll e che indica anche il regno sotterraneo dell’inconscio, individuale e collettivo – allieta il pubblico per l’originalità della messa in scena, vicina al cartoon disneyano, e rivela uno spirito del tutto contemporaneo. Con questo spettacolo Bruni e Frongia, pensando ai cartoni animati e alle lanterne magiche, ovvero a tutto quello che può ricreare in teatro la magia del sogno, hanno raggiunto il culmine di un lungo percorso e di un interessante sodalizio (La tempesta di Shakespeare, L’ignorante e il folle, L’ultima recita di Salomè). Il primo ha fornito ben trecento raffinati acquerelli; il secondo li ha animati e proiettati, con l’uso della più moderna tecnologia, sulle tre pareti bianche che delimitano lo spazio scenico, munite di alcuni buchi e sportelli in modo che gli attori, sporgendosi, con la sola testa o con un arto, vengano catturati dalle immagini proiettate, divenendo giganteschi o piccolissimi. L’illusione è perfetta e lo spettacolo riesce a dar corpo alla ‘moltezza’ delle suggestioni del testo di Carroll, mettendo in scena la realtà insensata e sovvertita che Alice incontra nel suo sogno. L’idea dei due autori , pur dando un grande spazio al fantastico, è quella di sottolineare una certa contemporaneità, costruendo sopra i punti nodali della storia un’operetta rock. Se da una parte lo spettacolo (rinverdito con nonsense tutti italici) attinge a personaggi e situazioni da entrambi i racconti di Carroll (Alice nel paese delle meraviglie, 1865 e Attraverso lo specchio, 1872), tanto da vedere in scena la protagonista sprofondare nella tana del coniglio, passare attraverso lo specchio, prendere il tè con la lepre marzolina e incontrare il gatto sornione e perfino ‘giocare’ con Spazio e Tempo (i personaggi inediti che, sognati da Alice, danno l’avvio alla storia, variazione di Dimmelo e Dammelo, e che rappresentano il lato cattivo dell’infanzia), dall’altra questo mondo sotterraneo, underground appunto, è quello degli anni Sessanta, l’epoca dei movimenti culturali che portarono al rinnovamento letterario e musicale. «Chi semina suoni raccoglie senso», suggerisce la Duchessa rock (Marinelli) ed ecco allora le musiche dei Beatles, dei Roxy Music, dei Rolling Stones e dei Pink Floyd diventare tappeto sonoro degli indovinelli e delle filastrocche del testo (di De Mojana gli arrangiamenti delle canzoni eseguite dal vivo al piano o con la chitarra). A ben pensarci, canzoni come Yellow Submarine e Sgt. Pepper Lonely Hearts Club Band sono anch’esse caratterizzate da un mondo surreale, popolato di personaggi che hanno a che fare con l’Alice di Bruni e Frongia.

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Alice cominciava a non poterne più di stare sulla panca

accanto alla sorella, senza far niente;

una volta o due aveva provato

a sbirciare il libro che la sorella leggeva,

ma non c'erano né figure né dialoghi,

«e a che serve un libro», aveva pensato Alice,

«senza figure e senza dialoghi?»

L. Carroll, Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie[1]

Quante Alici ci sono in giro? L’ultima in ordine di apparizione è quella reinventata da Yayoi Kusama (Orecchio Acerbo 2013), stravagante, psichedelica, coloratissima.

La Kusama, moderna Alice di ottantaquattro anni, è artista di riferimento in Giappone e vive un ‘equilibrio’ creativo che oscilla sempre tra ordine e disordine grafico, tra astrazione e figurazione. «Il mio lavoro artistico è espressione della mia vita, in particolare della mia malattia mentale», ha ripetuto spesso l’artista, e il suo mondo folle, in quest’ultimo lavoro, sembra procedere adattando il racconto di Carroll alle ragioni della sua arte. Le pagine così si caricano di palle e palline colorate, texture, figure che ci trascinano dentro deliri cromatici. Invano si ricercherebbe nelle pagine di questa Alice una logica: le tavole si muovono libere, galleggiano in un mare di parole, alludono senza mai precisare, definire, chiarire. Appaiono e scompaiono, concrete e trasparenti come il sorriso del gatto del Cheshire. Per la Kusama conta più il viaggio di chi lo fa. L’immagine di Alice compare giusto un paio di volte: quando, dopo essersi rimpicciolita, diventa altissima (Kusama la rappresenta soltanto in dettaglio, mostrandoci la testa con il lungo collo) e nell’ultima illustrazione, in un abitino rosso a pois bianchi, affacciata alla finestra di quella grande zucca gialla a pallini neri diventata un simbolo della sua produzione artistica, ispirata all’infanzia trascorsa in campagna. Le illustrazioni rifuggono le immagini più scontate, come se l’artista volesse lasciare al lettore un ulteriore margine di fantasia all’interno del quale scegliere, per i personaggi, le sembianze più adatte. Il Coniglio Bianco sfugge alla visione reticolata e puntinata dell’artista; del gatto del Cheshire rimane un sorriso ‘umano’; del Cappellaio Matto sopravvive soltanto il cappello, mentre non ci sono tracce dei suoi commensali. Abbondano invece fiori, farfalle, fette di anguria, grappoli d’uva, e funghi (allucinogeni?); la natura morta prende vita, i fiori sembrano pericolosi carnivori con petali e foglie circondate di spine, le figure umane si ritirano tra le pagine, confinate fra le righe di Carroll.

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