Interferenze #01 - Alice cʼest moi. Dream images as concrete realities

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"Interferenze. Poeti d'oggi e arti della visione" si propone come uno spazio di analisi dei rapporti tra visualità e verbalità nelle opere di poetesse e poeti italiani delle generazioni più recenti. Un esperimento condotto con l’immagine ‘a fronte’, attraverso un confronto diretto tra la pagina e l’opera visiva che l’ha ispirata. Costituendosi come ‘serie’ di contributi, "Interferenze" si prefigge un duplice obiettivo: sottolineare la centralità di questi temi in alcune esperienze della migliore poesia italiana contemporanea e, insieme, offrire ai lettori di «Arabeschi» un sia pur essenziale panorama delle voci che animano l’attuale scena della scrittura in versi, implicitamente evidenziandone la varietà e ricchezza di esiti e toni.

 

 

I
Sono fatti dʼosso gli animali
con qualche lancetta fuori posto
suonano le code nel cortile
di trucioli e di campanelli.
 
Le ore saltano rotonde
nel retro degli occhi.
 
Stracci di pelo e panno rosso
da tutte le giunture
corrono via dai secchi
con corpi-frammento, pali rotti
criniere di stoppia.
 
*
 
La gatta senza reni ha unʼacqua
gonfia di sogni senza le figure
ed i riflessi sono piante
nate dagli avanzi, dal cibo
non sputato o digerito.
 
Si piegano nella pentola-pancia
molli di latte e colla –
sʼimpastano sotto le gole.
(Questa è la nostra casa
tutta lʼerba profonda
tenuta da fermagli, zampe
ingoiate nelle spaccature).

 

Francesca Matteoni, Nel sonno. Una caduta un processo un viaggio per mare[1]

 

II

Abbandonati interamente alle tue ossessioni. Tanto non hai certo nulla di meglio. Le ossessioni sono relitti dʼinfanzia. Ed è proprio dalla profondità dellʼinfanzia che hanno origine i tesori maggiori.

Jan Švankmajer, Decalogo

 

Alice inseguita, Alice minacciata, Alice ‘disambientata’, come la vedeva Gianni Celati: ma, soprattutto, Alice incantata, in bilico tra sogno e realtà, bambina-bambola che parla poco, impara molto dal silenzio e posa sul mondo uno sguardo ora partecipe, ora pietrificato. Il testo sopra riprodotto, che apre la sezione Down the rabbit hole della raccolta Nel sonno di Francesca Matteoni – titolo che richiama, forse involontariamente, una delle più belle, visionarie e inquietanti tele del primo Novecento italiano: Nel sonno di Alberto Martini – trae ispirazione dai capolavori di Lewis Carroll Aliceʼs Adventures in Wonderland e Through the Looking-Glass, ma con una decisiva mediazione proveniente dal mondo visuale. Mi riferisco allʼinterpretazione/riscrittura che, degli Alice Books, ha dato uno dei maggiori autori del cinema contemporaneo, il regista ceco Jan Švankmajer, con il suo capolavoro Alice (Nêco z Alenky), traducibile come Qualcosa di Alice (1987).

Sprofondata nel rebus del sogno, Alice ripetutamente si stropiccia gli occhi, mentre una folla di immagini enigmatiche assedia la sua coscienza fluttuante. Gli animali «fatti dʼosso» e «con qualche lancetta fuori posto» dei primi versi ci introducono senza indugi nel mondo bizzarro e per molti versi raccapricciante che caratterizza lʼarte – non solo filmica –[2] di Švankmajer, un universo abitato da presenze inquietanti, assemblate da un cattivo demiurgo che pare essersi divertito a fondere, con macabra inventiva e una buona dose di humour noir, parti meccaniche e frammenti di scheletri, incollando occhi posticci su crani animali e mettendo le briglie a volatili impagliati.

Orrori degni della spaventosa, eppur sbalorditiva, fantasia di un Bosch, trasportati nel laboratorio di un alchimista – figlio di quella Praga che Ripellino diceva magica –[3] intento a esercitare una stregonesca arte combinatoria dove naturalia e artificialia, scarti del processo biologico e detriti della civiltà, parti di cadaveri e oggetti domestici, si uniscono generando creature bizzarre e agghiaccianti. Tali creature non sono esanimi ma magicamente vivono o, perlomeno, si animano, in sinistro transito dalla morte alla vita. Materia principale del cinema dʼanimazione – gran parte del lavoro del regista ceco si basa sulla tecnica dello stop motion – è, precisamente, lʼanimazione cinematica della materia, il movimento attraverso cui il metteur en scène restituisce o attribuisce vita a quanto giace disanimato.

Se il cinema, arte della compresenza, dona vita alle immagini infondendo loro una terza dimensione, quella temporale, attraverso il suono e il movimento, Matteoni ottiene lo stesso effetto sfruttando lʼarte dellʼalternanza che è propria della parola tipografica, e in particolare della poesia. Srotolandosi lungo la linea dʼombra della pagina, le parole-immagini si animano e prendono vita, restituendo con grande efficacia ciò che Švankmajer ha prodotto sullo schermo. È per questo che, nei versi di Matteoni, le code «suonano», il cappello con sonaglio indossato da una delle creature tintinna: nel loro deambulare disarticolato e implacabile questi corpi-carcasse, questi «corpi-frammento», riempiono lʼaria di rumori sinistri. Tutta la prima parte del componimento riproduce le ambientazioni di Alice (Nêco z Alenky) tramite una musicalità e un ritmo allucinati, con una ben dosata alternanza di suoni duri e liquidi che creano unʼatmosfera a un tempo angosciosa e seducente. Questa atmosfera risulta rafforzata da unʼarchitettura testuale che, nei primi quattro versi, presenta una dislocazione straniante di verbi e soggetti rispetto ai complementi. Mentre i versi dispari fanno balenare forme e presenze organiche, i pari specificano le qualità inorganiche delle creature evocate; il paradosso consiste nel fatto che le seconde risultano molto più rassicuranti e accettabili delle prime.

Troviamo qui un ulteriore, decisivo elemento del lavoro di Švankmajer che il testo di Matteoni coglie e perfettamente metabolizza: la qualità tattile della sua arte, la capacità cioè di portare sullo schermo – nel testo – la dimensione fisica, tangibile, di un sonno/sogno/incubo tanto più terribile quanto più concreto. Con le immagini degli «stracci di pelo e panno rosso», delle «criniere di stoppia», la centralità delle sensazioni tattili in età infantile viene tradotta in segni verbali[4], sempre giocando sullʼinquietante commistione di inorganico (il panno) e organico (il pelo, le giunture), oltre che sulla fisicità sgradevole e incombente dei corpi, come esemplarmente nel caso del minaccioso Bianconiglio fatto di paglia e ossa, portatore di una ticchettante angoscia.

Osservando questi esseri strisciare, camminare o addirittura correre sullo schermo (sulla pagina), in una sorta di spettrale e scampanellante cortège infernal, lo spettatore/lettore non può che porsi le stesse domande che lʼincredulo Unicorno sollevava alla vista di Alice: «What – is – this? […] Is it alive?».[5]

Sarebbe tuttavia errato concludere che il lavoro di Matteoni si esaurisca in una sorta di esercizio ecfrastico. Rispetto allʼopera filmica di Švankmajer, la poetessa introduce infatti un significativo elemento di scarto: ogni dato narrativo – gesti, sensazioni, pensieri – viene introiettato, il personaggio di Alice non compare in scena e la poesia si presenta, per così dire, tutta in soggettiva. La ragione è semplice, e si giustifica con le dinamiche di un processo identificativo totalizzante: Alice, letteralmente, cʼest moi. Una verità che nella seconda parte del testo, separata dalla prima da un asterisco, si fa del tutto evidente. Qui Matteoni modifica in modo sottile ma decisivo la prospettiva del suo componimento: non più il mondo švankmajeriano traslato sulla pagina, bensì la propria esperienza biografica calata in un contesto švankmajeriano, a creare una totale interferenza tra reale immaginato e immaginario reale.[6] Nei versi 12-23 la fantasia immaginifica di Matteoni si cala verticalmente nel proprio passato psichico ed emotivo per rievocare pensieri e impressioni latenti, sedimentati nel grembo dellʼesperienza onirica. Il testo si fa ora più emotivo e privato, il linguaggio più marcatamente mimetico-corporeo (paradigmatica l’immagine della «pentola-pancia»), lasciando aggallare frammenti di vissuto e sensazioni direttamente esperiti dallʼio poetico. Questo non comporta affatto un affievolirsi dellʼelemento tattile, che resta invece costantemente in primo piano: ogni sensazione fisica, sia gradevole o sgradevole, risulta sempre molto intensa, dallʼimmagine del cibo «non sputato o digerito» a quella del «latte» e della «colla» che macerano e impastano la materia; gli stessi enjambements, collocati in posizione strategica, contribuiscono a rafforzare un effetto di concretezza nella raffigurazione degli oggetti mentali rappresentati. Parimenti è da rilevare come lo sguardo dell’io-Alice, indagatore e implacabile, risulti empaticamente legato a ogni manifestazione fenomenica, percepita come duplice e mutevole, rassicurante e insieme spaventosa. Esemplari in tal senso le figure riferibili a una dimensione di domestico perturbante come la gatta (inquietantemente «gonfia» di acqua: incinta, annegata?) e soprattutto la casa-buca in cui si corre il rischio di scivolare da un momento allʼaltro, precipitando in the underground. La componente autobiografica dei versi «questa è la nostra casa / tutta lʼerba profonda / tenuta da fermagli, zampe / ingoiate nelle spaccature» è confermata dal contributo scritto per «Nuovi Argomenti», dove lʼautrice racconta dei «[...] lunghi pomeriggi infantili, sorpresa della mia stessa casa o dellʼerba altissima in primavera o della vecchia fornace, oltre il campo, spenta e in rovina, sorta su un terreno dove allʼinizio del secolo ancora si poteva scivolare (giù, giù, giù) nel pantano, sparire senza nemmeno mostrare le ossa. Come il contadino con lʼasino ed il carretto».[7] Anche in questo caso potrebbe esserci unʼinterferenza con una suggestione proveniente dallʼimmaginario visivo: mi riferisco alla casa in rovina protagonista del film Tideland di Terry Gilliam (2005), regista che peraltro è stato fortemente influenzato dal lavoro di Švankmajer.[8]

Ciò che della lezione di Carroll e Švankmajer maggiormente affascina Matteoni, si direbbe, è la volontà di restituire allʼinfanzia il punto di vista dellʼinfanzia, condensando molte delle ossessioni e delle ansie che caratterizzano ogni viaggio iniziatico verso lʼetà adulta. Con distacco totale rispetto allʼedulcorato mondo disneyano, francamente detestato dal regista ceco,[9] si afferma qui lʼidea che la prima fanciullezza non rappresenti una piacevole e spensierata esperienza di evasione dalla realtà, bensì, al contrario, sia scoperta del mondo attraverso meccanismi elementari di piacere e repulsione, confronto diretto, fisicamente vissuto, con i pericoli psichici e fisici di Wonderland, e quindi anche trauma, se il bambino è lʼultimo arrivato sulla scena di un mondo in cui entra da intruso, da irregolare. «Non ho mai considerato la mia infanzia come qualcosa che mi sono lasciato alle spalle», afferma Švankmajer:[10] lo stesso può dirsi dellʼopera poetica di Francesca Matteoni, intrisa di suggestioni provenienti dalle dimensioni del mito e della fiaba e saturata con fantasie che restituiscono un mondo sensuale, materiale e insieme fantastico, perché onirico e fortemente teatralizzato, non senza una venatura di puerile crudeltà. «Forse», scrive la poetessa nel testo in prosa Due sguardi su Alice, «tutto il vivere adulto è questo dormire ed il sogno che sta al centro, terribile e popolato di mostri buffi, non è che lʼaver conosciuto lʼinfanzia, un giorno».[11] Lʼinfanzia: il teatro degli orrori, certo, e degli stupori di una bambina qualsiasi. Alice cʼest moi.

III

Francesca Matteoni (1975) ha al suo attivo vari libri di poesia, tra cui Artico (Crocetti, 2005), la silloge Higgiugiuk la lappone, apparsa nel decimo Quaderno Italiano di Poesia (Marcos y Marcos, 2010), Tam Lin e altre poesie (Transeuropa, 2010), Appunti dal parco (Vydia, 2012). Gestisce il blog “Fiabe”, da cui è nato il libro Di là dal bosco (Le voci della luna, 2012). La sua raccolta più recente è Acquabuia (Aragno, 2014). Collabora regolarmente con riviste online e cartacee.


1 F. Matteoni, Nel sonno. Una caduta un processo un viaggio per mare, Arezzo, Zona, 2014, p. 11.

2 Il regista e la moglie Eva, scomparsa nel 2005, sono anche accreditati artisti visivi.

3 «La poesia», afferma il regista, «è in parallelo con lʼalchimia, e lʼalchimia è in parallelo con la poesia» (citato in P. Hames, ‘The Core of Reality: Puppets in the Feature Films of Jan Švankmajer’, in Id. (ed.), The cinema of Jan Švankmajer. Dark Alchemy, London, Wallflower Press, 2008 (2nd ed.), p. 101.

4 «Forse proprio perché il tatto come senso è stato più a lungo degli altri prigioniero di funzioni utilitaristiche e, per ragioni pratiche, non si è semplicemente potuto “estetizzare”, esso ha conservato un certo legame originario, “primitivo”, col mondo […]. Tale “primitivismo” non ancora appiattito da canoni estetici, e lʼistintività nella percezione delle sensazioni tattili, ci rimanderanno sempre – nellʼevocazione delle diverse associazioni mentali – agli strati più profondi del nostro inconscio» (J. Švankmajer, ‘Tattilismo’ in Jan Švankmajer-Eva Švankmajerová. Memoria dellʼanimazione, animazione della memoria, a cura di G. Dierna, Milano, Mazzotta, 2003, p. 77).

5 L. Carroll, ‘Through the Looking-Glass’, in Id., Alice in Wonderland and trough the Looking-Glass, Ware, Wordsworth Editions, 1993, p. 219.

6 La continua spola tra le due dimensioni, quella dellʼimmaginario letterario-filmico e quella legata alla realtà biografica, caratterizza tutto il contributo Due sguardi su Alice, apparso nel 2013 sulla rivista Nuovi Argomenti (n. 64, ottobre-dicembre 2013, pp. 169-185).

7 F. Matteoni, Due sguardi su Alice, p. 170.

8 Il film di Gilliam è citato ivi, p. 181.

9 Cfr. P. Hames, ‘Interview with Jan Švankmajer’, in Id. (ed.), The cinema of Jan Švankmajer. Dark Alchemy, p. 134.

10 Citato in M. O’ Pray, ‘Jan Švankmajer: A Mannerist Surrealist’, in P. Hames (ed.), The cinema of Jan Švankmajer. Dark Alchemy, p. 64.

11 F. Matteoni, Due sguardi su Alice, p. 176.