Interferenza #05 - Maria come mi chiamo

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anche queste mani che apro
colmandole d’ombra a lavarmi
gli occhi nel mattino
sanno dove sorgeva
un viso, una profonda
e chiara insenatura.
 
*
 
Maria come mi chiamo
nel profondo e più nascosto
viso, in sotterranei
cinti e altri
luoghi di ricovero
dove rasoterra odoro
bruna come la viola e il mosto.
 
*
 
quanto tempo contieni
ora che sei d'ambra
e lo vorresti, forse
insetto fisso, caduto
in te, immerso
nel corpo attraversato:
«presto tutto si verserà,
non avrò specchi».
 
*
 
disegnando sul ventre un cerchio aperto
un uovo levigato: «grandi cose
ho fatto in me», ripeterò un sorriso
che brucia e ci attraversa.
 
Franca Mancinelli, Pasta madre[1]

II.

L'immagine non è questo

o quel significato espresso dal regista,

bensì un mondo intero che si riflette

in una goccia d'acqua,

in una goccia d'acqua soltanto!

Andrej Tarkovskij, Luce istantanea

Dettagli anatomici enigmatici, gesti sospesi, ambienti appena intravisti e subito svaniti: è a partire da questi elementi tanto evocativi quanto misteriosi che cercheremo di analizzare i versi sopra riportati di Franca Mancinelli, tratti dalla sua seconda raccolta poetica, Pasta madre. Lo faremo sottolineando lo stretto rapporto che intrattengono con un dipinto, la Madonna del parto di Piero della Francesca, e con un film, Nostalghia di Andrej Tarkovskij (1983), pellicola che si apre con la sequenza della visita di Eugenia, la protagonista femminile, alla cappella di Momentana a Monterchi.

Entrambi questi riferimenti ci riconducono all'universo rurale del centro Italia, alle sue credenze e tradizioni: ricordiamo che Tarkovskij scrisse Nostalghia a quattro mani con Tonino Guerra, «l'Omero della civiltà contadina» come lo definì Elsa Morante,[2] e che la Madonna del parto rappresenta, nell'interpretazione di Pier Paolo Pasolini, l'icona stessa della grazia agreste.[3] L'opera di Franca Mancinelli è in effetti profondamente legata alla cultura contadina della terra da cui proviene, le Marche, il cui paesaggio collinare torna costantemente nella sua scrittura, al pari dei porti e dei lidi che punteggiano la costa. Un certo tipo di devozione per la figura della Vergine rientra appunto in questo contesto di civiltà pre-moderna, solidamente ancorata a una concezione circolare e rituale del tempo, e tuttavia occorre osservare sin da subito come la Maria qui chiamata in causa – unico nome proprio a comparire in tutta la raccolta – non costituisca solo un riferimento religioso: si tratta in primo luogo di un'allusione autobiografica, se Maria è il secondo nome della poetessa, come scopriamo leggendo la prosa Maria, verso Cartoceto.[4] In realtà, il discorso è ancora più ampio: al richiamo «Maria» infatti risponde da secoli una moltitudine di donne nate e cresciute nel fondo delle campagne, donne che di generazione in generazione si sono passate questo nome tanto sacro da diventare una sorta di amuleto o contrassegno genetico, antichissimo e venerabile. «Maria è il nome che ogni donna porta», scrive Mancinelli, «e davvero nelle nostre campagne marchigiane non c'era madre che non desse a sua figlia questo nome, come invocazione, come ringraziamento».[5] Di conseguenza, il «mi» del verso «Maria come mi chiamo» identifica non un io singolo ma un tumulto di destini, una figura-plurale coincidente con una sorta di sterminata, atavica comunità muliebre caratterizzata da un viscerale intreccio di esistenze.

In effetti, il tema della maternità costituisce il motivo centrale dell'intera raccolta, oltre che il nucleo germinativo dei testi qui presentati, intrecciandosi con il duplice modello visivo e audiovisivo della Madonna del parto e di Nostalghia. Scrive la poetessa:

Alla memoria di mia madre è dedicato Nostalghia [...]. Tutto il film è attraversato da una luce che proviene dalla riflessione sulla maternità, intesa anche come atto di dedizione, come sacrificio necessario alla continuazione del mondo. La nascita [...] è un miracolo che ci guida dalle prime sequenze del film, con l'icona della Madonna del Parto a cui si recano le donne per diventare madri, portando in processione candele accese.[6]

Se l’affresco terrestre e celeste di Piero è il motore dichiarato di Alla Madonna del Parto, suite che Franca Mancinelli ha licenziato nel 2010 e che rappresenta un vero e proprio laboratorio di alcuni dei versi poi confluiti, con significative varianti, in Pasta madre,[7] la lezione di Tarkovskij apre a un'ulteriore dimensione di senso, riallacciando l'esperienza della maternità a quel principio vitale cosmico che si manifesta nel mondo, per dirla con Marina Cvetaeva, non in forme sovrumane bensì attraverso concretissimi «indizi terrestri». Ecco allora che in questi versi la luce, l'acqua, gli oggetti convivono sullo stesso piano del corpo umano, e al pari di esso rappresentano segni fisicamente determinati ma metafisicamente significati, ossia sottratti alla schiavitù dell'ora; né è un caso che l'opera di Mancinelli abbia guadagnato l’attenzione di un autore come Milo De Angelis, il quale parla per Pasta madre di «un panismo quieto e meditativo».[8]

Sul piano formale, ritmico e lessicale, la breve sequenza di componimenti qui presentata si offre come una riflessione estremamente rasciugata e concentrata intorno a un grumo di immagini scarne ed essenziali: spicca l’uso di parole ordinarie, consuete e insieme precise, frutto della volontà, per dirla con Antonella Anedda, di «[…] usare il linguaggio per bisogno, come si usa un oggetto quotidiano».[9] Questa «lingua materna intrisa di terra»,[10] tuttavia, non dà affatto esiti pacifici o pacificanti: al contrario, come osserva Giovanna Rosadini, Mancinelli procede a uno scardinamento della sintassi logica anche attraverso il ricorso a una metrica «scucita», segnata da una «continua variazione sul tema delle misure regolari della strofa e del verso».[11] Le virgole, gli enjambements, slogano ripetutamente il verso, senza tuttavia imprimere alle forme un dinamismo liberato: prevalgono anzi le costruzioni ben sorvegliate, frutto di un'attenta meditazione compositiva che mira ad affermare l'ideale espressivo, esemplarmente tarkovskijano – via Ozu e Bresson, beninteso – di una «spoglia fissità».[12] Determinante in tal senso anche l'uso di tempi verbali che indicano non tanto una successione di eventi quanto un'astratta indeterminatezza, un «eterno accadere», nelle parole di Stefano Guglielmin, oppure, per dirla con Milo De Angelis, «un tempo assoluto», «un tempo che raccoglie tutti i tempi».[13] Proprio in ragione di tale aspirazione a una dislocazione anticaotica della materia verbale, controllata e allucinata insieme, ma comunque strenuamente tesa alla compiutezza e all'assolutezza del dettato, si potrebbe osservare come Mancinelli, al pari di Tarkovskij nella lettura di Anedda, proceda «per quadri interiori»,[14] elaborando immagini che si sforzano di contenere con la massima esattezza possibile il massimo dei significati possibili.

Vediamo allora come la parola di Mancinelli riesca a dare consistenza figurativa a questi ‘quadri’, così conferendo, sulla scorta della duplice lezione di Piero e Tarkovskij, valore universale a quella miriade di esperienze minime, domestiche e monotone, che la figura-plurale di Maria tutte sussume. Sin dai primi versi l'attenzione del lettore è focalizzata su tre elementi decisivi: il gesto corporeo, semplice e quotidiano, ma indispensabile per la cura del sé e del sentirsi-plurale,[15] la dialettica luce/ombra che il gesto stesso innesca, l'elemento acquatico implicitamente ma inequivocabilmente evocato. Partiamo proprio da quest'ultimo dato, ricordando come l'acqua occupi un ruolo di primo piano nel cinema di Tarkovskij, e in particolare in Nostalghia: pensiamo non tanto alla vasca nel centro di Bagno Vignoni quanto alla desolata casa di Domenico, cosparsa di pentole colme d'acqua piovana, immagine che ritorna esemplarmente in uno dei componimenti di Pasta madre, un testo intitolato secchi sparsi nella stanza, in qualche modo riconducibile alle liriche qui prese in esame.[16]

«Nel silenzio delle stanze una goccia penetrata è l'unica vicenda», scrive Mancinelli nella prosa Abitare nella città ideale,[17] e proprio questa «vicenda» fluida degli elementi, così decisiva per far durare la vita e comprenderla – se una goccia è capace di riflettere, dice Tarkovskij, «un mondo intero» – ritorna qui evocata sia pure in forma allusiva attraverso i verbi «lavarmi», «immerso», «verserà».

A contare, però, non è solo l'elemento equoreo in sé, cui pure viene attribuito un valore decisivo e per certi versi blanchotiano – «non ho altra fede che nell'acqua», afferma la poetessa in Lungo il canale Albani[18] ma il suo entrare in relazione con il corpo, attraverso un contatto che è sia interno – ovvio il riferimento al liquido amniotico, che il «cerchio aperto» del «ventre» custodisce, proteggendo l'«uovo levigato» della vita intra-uterina – che esterno, tramite i gesti/riti legati al valore sacrale dell'acqua. Le abluzioni, il rito battesimale, la pratica del nuoto, carissima alla poetessa,[19] sono tutte esperienze caratterizzate da una ripetizione esatta dei movimenti corporei, «gesti che si stagliano in tutta la loro irradiante forza poetica», scrive Mancinelli,[20] se è proprio il «farsi rito» di ogni nostra azione ciò che ai suoi occhi consente di custodire la vita e portarla in salvo, cioè trasmetterla.[21] Pensiamo allora a quei calibrati ed essenziali movimenti del volto e delle mani che caratterizzano Domenico e Gorčakòv immersi nella vasca di Bagno Vignoni, ma anche al lavoro di un artista visivo contemporaneo come Bill Viola, che da Reflecting pool (1979) a Visitation (2008) non ha mai smesso di lavorare sul valore simbolico fondamentale che unisce gestualità ed elemento equoreo.

La stessa Madonna di Piero può essere ricollegata a questo tema, se le sue «mani» solcano e delimitano una veste azzurra simile a un mare in attesa di vita, uno spazio germinativo che lambisce la «profonda / e chiara insenatura» del viso.

Quanto alla dialettica luce/ombra, vale la pena ricordare come la Diana Lucina degli antichi, che era lucifera notturna, dunque figura lunare, presiedesse anche ai riti del parto, per questo considerati come sospesi tra la dimensione luminosa del primo incontro con la luce e quella oscura, tenebrosa della minaccia di una morte prematura.

Ma qui a contare è soprattutto l'immagine della candela, altro elemento centrale di Nostalghia – si ricorderà che Domenico intende salvare il mondo compiendo un percorso lustrale con una candela accesa in mano –[22] non esplicitamente presente nella sequenza di testi da noi prescelta ma chiaramente evocata attraverso l'immagine del salvifico «sorriso» «che brucia e ci attraversa». La fiamma protetta dalla mano aperta a «colmarla d'ombra», insomma, appare come corrispettivo d'una vita che si muove lentamente nel grembo,[23] che cerca la salvezza attraverso il gesto che la conduca nel mondo. Per Mancinelli, dunque, il gesto, e solo il gesto, salva. Ma in che modo? Consentendo il salto, vorremmo dire, dalla finitudine del singolo alla nascita della figura-plurale che quel singolo sovrasta e sussume, integrandone la limitata vicenda personale in un contesto di senso più ampio. Ai suoi occhi, la sacralità della vita dipende insomma da questo partecipare di ciascuno alla sacralità del tutto. Se prendiamo in considerazione i versi di Maria come mi chiamo e di quanto tempo contieni, vediamo come nel primo caso ad emergere sia soprattutto il ricordo del tempo vissuto: la memoria della nonna è evocata attraverso immagini molto fisiche e concrete, con inequivocabili riferimenti alla campagna (il «mosto», la «viola»,[24] gli ambienti «sotterranei», i «luoghi di ricovero»), asciugati dalla schiuma del contingente fino ad assumere un valore assoluto, transtemporale (peraltro con probabili echi di immagini bibliche). Con la lirica quanto tempo contieni si assiste però a un salto che proietta la figura di Maria, una e plurima, da una dimensione retroattiva e giocoforza nostalgica a una proiettiva e vitale, se quanto sembra fisso, concluso, confinato in una forma (l'«ambra» che figge e imprigiona, cioè blocca nel passato) deve sempre misurarsi con l'inesorabile corrente dell'esistenza che tutto trascina, producendo un costante mutamento – qui rappresentato dai gesti dell'immersione, dell'attraversamento, dell'atto del versare – che è poi il segno della naturale interconnessione di ogni fenomeno e di ogni singolarità.

Traendo ispirazione dal cinema di Tarkovskij, e in particolare da quel film così nutrito di esperienza italiana (di campagne, di devozione popolare, di piena luce meridiana: la luce di Piero) che è Nostalghia, la poesia di Mancinelli celebra dunque quella forza vitale, basica ma universale, che si perpetua e va avanti misteriosamente quanto inesorabilmente, un illimitato potenziale di generazione sempre pronto a gocciare – come l'inchiostro sulla pagina, come stille d'acqua che riflettono un mondo intero – da una generazione all'altra, da un'epoca all'altra, trasmettendosi di Maria in Maria.

III.

Franca Mancinelli è nata a Fano nel 1981. Ha pubblicato due libri di poesie, Mala kruna (Manni, 2007) e Pasta madre (Nino Aragno editore, 2013). Un’anticipazione del suo secondo libro di versi è apparsa in Nuovi poeti italiani 6, a cura di Giovanna Rosadini (2012) e nel n. 273 di Poesia (luglio/agosto 2012). Collabora come critica con Poesia, Nuovi Argomenti e con numerose altre riviste e periodici letterari.


1 F. Mancinelli, Pasta madre, con una nota di M. De Angelis, Torino, Aragno, 2013, pp. 59-62.

2 Cfr. T. Guerra, La valle del Kamasutra. Segni, sogni e altro scelti dal poeta, a cura di S. Giannella, Milano, Bompiani, 2010, p. 211.

3 Alludo alla Maria gestante del Vangelo secondo Matteo: «È una giovanetta ebrea, bruna, naturalmente, proprio “del popolo”, come si dice; come se ne vedono a migliaia, con le loro vesti scolorite, i loro “colori della salute”, il loro destino a non essere altro che umiltà vivente. Tuttavia c'è in essa qualcosa di regale: e, per queto, penso alla Madonna incinta di Piero della Francesca a Sansepolcro: la madre-bambina. Il ventre leggermente gonfio, appuntito, per la miracolosa gravidanza, dà a quella giovinetta che tace, col suo dolore, una grandezza sacrale» (P. P. Pasolini, Il vangelo secondo Matteo, in Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Milano, Mondadori, 2001, I, p. 487).

4 «È scritto all'anagrafe e in ogni documento che mi appartiene: Maria, il nome che ho cancellato da questa Franca che rimane» (F. Mancinelli, Dentro un orizzonte di colline e altre prose in Femminile plurale. Le donne scrivono le Marche, a cura di C. Babino, Montecassiano, Vydia, 2014, p. 35. Il testo si legge anche online alla pagina http://www.poesia2punto0.com/2015/12/06/maria-verso-cartoceto-di-franca-mancinelli/ ).

5 Ivi, p. 36. E ancora: «Maria è il nome della madre di mia madre. Mi piace sentire l'eco di questa parola, la profondità che apre indietro, nelle generazioni, come un filo che ci si passa nel buio. In questa ripetizione mi sembra di riportarla in vita, di donarle ciò che le appartiene, che le è dovuto; ha a che fare con qualcosa che non ha fine, che sprofonda alle mie spalle, fino a ciò che non mi è visibile né conosciuto. Da me, oltre me, non so come e se continuerà» (ibidem).

6 F. Mancinelli, ‘La ricerca del miele e il ritorno alla madre. Appunti tra Il miele e Nostalghia’, Il Parlar Franco, Tonino Guerra. Poesia e letteratura, vol. II, xiii/xiv, 13/14, 2013/2014, pp. 33-34 (il testo è reperibile anche online, ma in versione ridotta, sul sito di Nuovi Argomenti alla pagina http://www.nuoviargomenti.net/poesie/tra-il-miele-e-nostalghia-su-tonino-guerra-e-tarkovskij/ ).

7 La suite, vincitrice del “Premio Letterario Castelfiorentino”, si legge in M. Marchi (a cura di), Alla Madonna del Parto e altri testi. “Premio Letterario Castelfiorentino – Poesia e Narrativa”, Atti della xii edizione, Certaldo, Italgraf, 2010, pp. 20-23. Si noti come il riferimento all'opera di Piero, esplicito in questi versi dei primi anni Duemila, agisca poi solo sottotraccia, ma sempre in modo decisivo, in quelli più maturi di Pasta madre.

8 M. De Angelis, Appunti su Pasta madre, in F. Mancinelli, Pasta madre, p. 77.

9 A. Anedda, Cosa sono gli anni: saggi e racconti, Roma, Fazi, 1997, pp. 52-53.

10 F. Mancinelli, La ricerca del miele e il ritorno alla madre, p. 26.

11 G. Rosadini, Nota introduttiva all'antologia da lei curata Nuovi poeti italiani 6, Torino, Einaudi, 2012, p. xiv.

12 F. Mancinelli, La ricerca del miele e il ritorno alla madre, p. 28.

13 Cfr. S. Guglielmin, ‘Mala kruna ovvero come recintare l'abisso’, Tratti. Da una provincia dell'impero, xxvii, 86, febbraio 2011, p. 101; riflessioni simili in M. De Angelis, Appunti su Pasta madre p. 79 e G. De Santi, ‘Franca Mancinelli. La poesia siccome grumo di ferite’, in M. Fantuzzi (a cura di), La generazione entrante. Poeti nati negli anni Ottanta, Borgomanero, Giuliano Ladolfi editore, 2011, pp. 85-87.

14 Il riferimento è ad Andrej Rublev; cfr. A. Anedda, Cosa sono gli anni, p. 115.

15 Sul tema del gesto, codice di movimenti e rito di obbedienza a una regola salvifica, si veda il brano dedicato alla benedizione con cui i membri della famiglia si proteggono a vicenda in F. Mancinelli, Dentro un orizzonte di colline e altre prose, pp. 36-38.

16 F. Mancinelli, Pasta madre, p. 15.

17 F. Mancinelli, Abitare nella città ideale. Frammenti in forma di visione in S'agli occhi credi. Le Marche dell'arte nello sguardo dei poeti, a cura di C. Babino, con una nota di D. Simoni, Montecassiano, Vydia, 2015, p. 55.

18 «Non ho altra fede che nell'acqua. Non importa se salata, salmastra, dolce o di cloro. Non c'è altro luogo in cui possiamo essere amati; non altro luogo che ci accolga interamente, che ci sollevi da noi stessi, senza lasciarci di un millimetro» (F. Mancinelli, Dentro un orizzonte di colline e altre prose, p. 44).

19 Per il rapporto di Mancinelli con il nuoto, inteso anche come metafora della scrittura, si cfr. la prosa ‘Un verso è una vasca e altri appunti sulla poesia’, clanDestino. Trimestrale di letteratura e poesia, xxi, 4, 2008, pp. 29-32; il testo si legge anche online alla pagina http://wordsocialforum.com/2012/07/15/un-verso-e-una-vasca-di-franca-mancinelli/.

20 F. Mancinelli, La ricerca del miele e il ritorno alla madre, p. 31.

21 Ibidem.

22 Nella sua analisi del film, Mancinelli ricorda come «anche Domenico e Gorčakòv compiono un rituale materno, entrambi dedicano la propria vita per “accendersi postumi come una parola”, facendosi messaggio-testamento d'amore per il mondo», aggiungendo poi che nel primo «l'invocazione finale, prima di avvicinarsi l'accendino e ardere come la fiamma di una candela, è alla madre, al principio di vita che è stato violato dalle azioni dell'uomo e che con questo gesto sacrificale Domenico vorrebbe riconsacrare, illuminandolo nella sua aura di santità [...]» (ivi, p. 34). Tale immagine torna in un brano della poetessa dedicato al Santuario marchigiano della Madonna delle Grazie, dove si legge: «Un soffio di voce all'orecchio ripete io, come la fiamma di una candela subito spenta dal vento. Bisogna proteggerla con il palmo di una mano e camminare fino all'immagine santa, alla madre dipinta» (F. Mancinelli, Dentro un orizzonte di colline e altre prose cit., p. 39).

23 Cfr. per questa immagine ivi, p. 40.

24 Che questi versi si riferiscano alla nonna della poetessa, Maria Mazzanti, è confermato dal fatto che l'immagine della viola e dei capelli scuri («bruna») ricorrono in un testo a lei esplicitamente dedicato, nascondendosi accarezza, scritto per lo spettacolo teatrale Nel grembo di ogni voce. Ritratti di donne tra fantasia e realtà (ideazione e progetto di Alessandro Bottelli, Auditorium di Piazza della Libertà di Bergamo, portato in scena il 2 marzo 2013. Ringrazio l'autrice per avermelo segnalato).