Jeux De Cartes è il titolo del nuovo spettacolo del regista canadese Robert Lepage[1] che ha debuttato in Francia, a Chalons en Champagne a La Cométe, nel dicembre 2012 con Pique a cui si è aggiunto di recente Cœrs, andato in scena a Essen in ottobre all’interno del Festival curato da Goebbels.[2] Come le carte da gioco hanno quattro semi (picche, cuori, quadri e fiori; nella variante spagnola o nei tarocchi: spade, coppe, danari e bastoni) anche lo spettacolo vedrà, entro il 2015, quattro versioni che si genereranno a partire dalle simbologie ad essi collegati. Il plot prevede quattro storie che si intrecciano in una sfavillante Las Vegas, regno dello show business e del gioco d’azzardo, della finzione e del kitsch, dove ciascun protagonista si misura con un mazziere e si trova a giocare la propria partita con la vita. Anche i personaggi, infatti, ‘incarnano’ uno dei quattro semi:
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le spade (picche) sono collegate alla storia di alcuni militari omosessuali che all’epoca dell’invasione dell’Iraq da parte degli States, durante il governo Bush, decidono di disertare;
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le coppe (cuori) si riferiscono alla coppia che si sposa a Las Vegas con un rito celebrato da un sosia di Elvis Presley, rovinandosi poi tra giocate al casinò e atti di sessualità spinta;
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i denari (quadri) sono legati all’imprenditore che soffre di gioco compulsivo e di alcolismo, dalle cui spirali riesce a uscire grazie al salvifico intervento di uno sciamano del deserto;
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i bastoni (fiori) si riferiscono agli impiegati del casinò e agli inservienti latinos senza permesso di soggiorno, il cui lavoro viene sottopagato. Si inserisce in questo contesto la storia della donna delle pulizie messicana, che si indebiterà per andare come clandestina a farsi visitare dal medico per un presunto male incurabile.
Las Vegas, e l’hotel che ospita una delle tante case da gioco, è l’ambientazione che unifica tutte le storie: qui da un momento all’altro si può entrare nel regno della povertà o in quello della ricchezza. La partita a carte che ciascun personaggio gioca è: sconfitta o riscatto? È lo stesso Lepage nel corso di un’intervista a Chalons a raccontarci il significato dello spettacolo e la sua genesi:
«Picche», ovvero «spade», è legato al mondo militare; il cuore/coppe è legato all’idea dell’amore ma è anche il sacro Graal, quindi è una carta legata alla religione, alla magia, alla superstizione; l’altro è denari, che in inglese è «diamonds», cioè legato a qualcosa che ha valore, alla moneta, quindi al mondo del commercio; l’ultimo è fiori/bastoni che rappresenta l’agricoltore, l’operaio, ma rappresenta, allo stesso modo, la rivolta. Adesso con «Pique» abbiamo toccato il tema militare, nel prossimo ci sarà il tema della magia poi il mondo degli affari e così via. È la prima volta che cerchiamo di seguire quattro storie contemporaneamente, normalmente negli spettacoli seguiamo le storie una dopo l’altra, qui cerchiamo di farlo contemporaneamente. Per noi è importante che le quattro carte siano rappresentate in una sorta di microcosmo che dà il via all’intreccio. Sappiamo che ci saranno dei temi che si intrecciano e che si faranno eco lungo tutto il progetto.
La drammaturgia è stata scritta collettivamente, la qual cosa ci riporta a una modalità che Lepage aveva sperimentato nel suo primo periodo teatrale, con Théatre Repére in Québec all’epoca della prima edizione de La trilogie des dragons: gli attori stessi sono coinvolti nella fase di scrittura in una modalità di condivisione che prevede uno scambio di materiali, riflessioni e dialoghi anche a distanza, attraverso la rete. Le tecnologie supportano l’impossibilità di poter lavorare oggi in maniera continuata a un unico progetto teatrale per un lungo periodo di tempo, e con uno staff internazionale: ecco come Lepage racconta il faticoso processo creativo relativo sia alla scrittura drammaturgica che alla scrittura scenica di Jeux de Cartes:
Non c’è una visione di partenza di un grande autore che dice «si scrive così, si fa così»; al contrario, la scrittura fa parte della dinamica del gruppo. Io non ho tutte le soluzioni in tasca, le regole o le chiavi di ingresso: ci si imbarca in un’avventura in cui ogni tanto si trovano delle soluzioni che funzionano. C’è anche il pubblico che dice quello che funziona, quello che ha capito o meno, e anche questo fa parte del processo creativo. Ci siamo riuniti attorno a un tavolo, attori e non attori. Nei miei spettacoli ci sono sempre artisti che provengono da differenti ambienti (cantanti lirici, imitatori, non attori etc.), che arrivano con un bagaglio di esperienza diversa.
Ancor prima che lo spettacolo venga scritto o messo in scena, ci diciamo cosa vogliamo dire e fare e mettiamo in piedi il progetto scenico che ci offre un terreno di gioco. Da qui partiamo per raccontare le storie e in questo terreno di gioco le cose nascono e crescono. Non sappiamo sempre dove siamo rispetto al percorso evolutivo dello spettacolo. Per esempio, quando abbiamo fatto Lipsynch a Londra c’era un ottimo impianto scenografico a supporto di idee che avevamo in testa ma che ancora non avevano trovato una forma. E la storia non reggeva ancora. Dopo tante repliche, lo spettacolo ha preso una forma precisa, esatta. È il mio modo di lavorare, non posso fare diversamente. Non ci sono certezze. È così che ho sempre sviluppato i miei spettacoli.
Lepage definisce il lavoro del regista come quello di un «vigile urbano» intento a dirigere il traffico creativo che si concentra sul palcoscenico o quello del capitano della nave che non conosce la rotta ma ha esperienza di navigazione e sa che approderà, prima o poi, da qualche parte:
Gli attori sono molto coraggiosi: nel momento in cui mi chiedono cosa devono fare nello spettacolo io rispondo che non lo so. Ed è vero, so solo che parla del gioco delle carte. Non ho subito la storia, io scavo e scolpisco il materiale che ho a disposizione. Le persone portano le loro esperienze, le loro idee e io divento un vigile urbano e ad un certo punto, quando le cose circolano bene, sono in grado di vedere davanti a me le storie e di scolpire il personaggio, ma all’inizio non ci sono che idee e bisogna avere pazienza. Non sono quel tipo di artista che arriva con la visione di quello che vuole fare. Di sicuro sono come il capitano della nave che dice che non sa dove si va e quando si arriverà ma solo che c’è un continente, e che quindi si toccherà sicuramente terra. Si continua a lavorare sino a quel momento.
Punto di partenza per le storie sono le carte da gioco distribuite agli attori:
In questo caso ho dato loro le carte da gioco, che non sono esattamente un tema ma una risorsa, e insieme abbiamo giocato e parlato, abbiamo fatto delle improvvisazioni e anche delle ricerche. Lo spettacolo è un po’ l’immagine di qualcosa che funziona bene ma prima di prendere la sua forma finale passa attraverso molti stadi e prove. Concentrando le prove in brevi blocchi di tempo c’è sempre molto poco tempo per sviluppare il lavoro. Tra questi blocchi ci sono 4, 5, 6 mesi. Ciò significa che non si fanno molte prove, tutto succede durante la tournée. Arriviamo in una città dove ci prendiamo qualche giorno per discutere cosa cambiare, valutando ogni volta quello che ha funzionato o meno e si cambiano delle cose.
Le storie potranno differenziarsi per trama e specifico allestimento, e cambiare nel corso degli spettacoli, ma avranno comunque, sempre, un comune denominatore: lo spazio circolare in cui verranno rappresentate in tutti i luoghi delle tournée. Il progetto Jeux de Cartes nasce, infatti, con l’intento di utilizzare sempre uno speciale ‘dispositivo accerchiante’, con gli spettatori intorno e una pedana mobile con botole e scenografia che agirà in spazi rigorosamente a impianto centrale, ma non strettamente teatrali, come circhi (Cirque Price di Madrid, Cirque Julius Verne di Amiens), ex gasometri o edifici industriali (come la Roundhouse nel quartiere Camden di Londra), persino torri rotonde (l’Ostre Gasvaerl a Copenhagen). In effetti avere gli spettatori intorno a 360° è una prerogativa degli spettacoli per il grande pubblico: il circo e i concerti. Il circo (e in particolare il nouveau cirque) elabora soluzioni sceniche che talvolta necessitano di un vero e proprio complesso impianto architettonico con ausilio di opere di ingegneria meccanica (il riferimento è alle scenografie del Cirque du soleil firmate da Franco Dragone come Saltimbanco, Alegrìa, O, La nouba). La tecnologia in alcuni casi si spinge fino all’estremo, come in Ka (ancora del Cirque du soleil ma con la firma di Lepage) in cui sono presenti proiezioni multimedia da telecamere a infrarossi e proiezioni che utilizzano sensori e sistemi interattivi.
Lepage parla dello spazio scenico circolare in Jeux de cartes come una scelta voluta per rompere in maniera netta con lo schema frontale del teatro tradizionale; scelta che rimanda, evidentemente, alle avanguardie degli anni Sessanta e Settanta:
L’idea di lavorare in uno spazio circolare mi interessava. La cosa che mi ha subito affascinato è che in uno spazio del genere il pubblico vede la performance ma allo stesso tempo vede anche gli altri spettatori. Questo fa sì che il pubblico sia consapevole che si racconta una storia ma allo stesso tempo si crea anche una distanza. Ho ripensato al teatro degli anni Sessanta, Settanta sino agli anni Ottanta. In quel periodo il teatro provava a rompere la quarta parete e la scena tradizionale, lavorando anche in spazi circolari oppure faccia a faccia col pubblico. Si recitava spesso in luoghi industriali, insomma il teatro voleva liberarsi. Si era consolidato un vocabolario legato al vecchio teatro tradizionale all’italiana dal quale ci si voleva liberare: stile di recitazione, messa in scena, tutto era messo in discussione. Era in atto una rivoluzione che avrebbe cambiato le cose.
Una drammaturgia dello spazio circolare per Jeux de cartes? Lo spazio che normalmente serve per le acrobazie, per i giocolieri diventa un’opportunità inedita di racconto scenico per gli autori e per gli attori, dando unità visiva alle storie immaginate. Un dispositivo costruito ad arte, definito da Lepage con una bella similitudine «il nostro campo da gioco», offre una felice soluzione metamorfica che abbraccia tutte le trame:
Ho iniziato Jeux des cartes consapevole che sarebbe stato molto problematico lavorare in uno spazio circolare: trovare il livello di recitazione, decidere di recitare di fronte a solo una parte del pubblico ma necessariamente di spalle a qualcun altro, fare attenzione che il dettaglio sia visibile, che arrivi un’immagine molto precisa, che tutti la vedano e capiscano. Ma allo stesso tempo è questa la bellezza delle cose. È necessario mettersi in pericolo soprattutto a teatro, bisogna rischiare. Mi piaceva molto l’idea del cerchio, il fatto che lo spettatore veda lo spettacolo e allo stesso tempo veda se stesso. Il pubblico guarda lo spettacolo, cerca di capire quello che succede ma allo stesso tempo vede l’eco della sua stessa reazione, cioè si è consapevoli di far parte di una sorta di comunità. Mi sembrava che tutto ciò avesse una teatralità che io avevo perso nei miei spettacoli: avevo voglia di tornare a questo. Tutto ciò mi aveva fatto ripensare all’idea di liberarmi del ‘quadrato’. Ho capito che il solo modo di superare il problema di lavorare in un’area circolare è quello di reinventarne completamente il vocabolario.
Una piattaforma circolare in movimento, alta un metro da terra, ha una buca sotto cui si nascondono – seduti in tecnologici sedili motorizzati – tecnici che si spostano da una parte all’altra al buio. Il palcoscenico è tutto un trionfo di buche, varchi, porte o cornici vuote che si sollevano per poi ridiscendere, una volta che il personaggio li attraversa.
Così anche la fossa centrale è alternativamente piscina, camera da letto, casinò o bar, con minima aggiunta di oggetti di arredamento. Una soluzione particolarmente efficace è quella che vede gli avventori del bar seduti ai banconi, letteralmente incastrati a metà tra sotto e sopra, dentro e fuori, visibili solo con il busto che fuoriesce dal palco, in una staticità che ricorda l’atmosfera di un quadro di Hopper, mentre la pedana tutto intorno a loro continua a roteare.
La tecnologia a cui Lepage ci ha abituato è limitata questa volta ai monitor che riproducono i semi di carte e al volto televisivo di George W. Bush nel discorso ai media del 19 marzo 2003, quando annuncia l’invasione dell’Iraq di Saddam Hussein da parte di una coalizione guidata dagli Stati Uniti. I monitor definiscono luminosamente i quattro invisibili angoli (della terra? di un ring?) su cui inscrivere il cerchio del palcoscenico.
Alla circolarità è associata la verticalità: lo spettacolo circense è uno spettacolo sia circolare che verticale, quindi anche per Jeux de cartes il palcoscenico a terra, a pianta centrale, viene raddoppiato da uno eguale che lo sovrasta. Lepage ha fatto esperienza di spazio circolare circense firmando due regie per il Cirque du Soleil; per il megashow KA – per il quale è stato costruito appositamente un teatro tutto intorno all’architettura scenica creata dall’architetto Mark Fisher al MGM Theatre di Las Vegas – una piattaforma può ruotare a 360° e disporsi in verticale rispetto alla scena, accogliendo la battaglia con l’acrobatica scalata della montagna da parte dei ballerini-atleti. Così Lepage ne ricorda l’esperienza, sottolineandone gli aspetti strutturali di cui dovette tener conto per creare la sua drammaturgia visiva:
Quando il direttore del Cirque du Soleil mi chiese di collaborare con loro, mi disse che potevo fare ciò che volevo ma dovevo necessariamente sviluppare l’azione coprendo tutti i livelli dal suolo al soffitto. Mi disse che questa linea immaginaria verticale doveva essere il mio riferimento costante. Mi ha fatto capire una cosa importante e cioè che il circo è verticale, che quando si lavora su uno spazio circolare c’è necessariamente l’esigenza anche della verticalità.
Le scene di Lepage impongono sempre un certo impegno acrobatico agli attori (ma anche ai cantanti, rock e lirici): la struttura metallica circolare ideata da Lepage per il Growing Up Tour di Peter Gabriel (2003),[3] che si staccava da terra per salire verso l’alto in Downside up, obbligava il performer e la vocalist a cantare a testa in giù; in Ka gli artisti del Cirque du soleil precipitano dall’alto di una pericolosa piattaforma, si lanciano nel vuoto, volano su macchine fantascientifiche tra i giochi di luce del lighting designer Luc Lafortune.
Una insolita spazialità era stata sviluppata anche nel cabaret musicale e tecnologico Zulu Time (2000), in cui, oltre ad una azione verticale e radiocentrica del palco, furono inserite proiezioni e macchine di luce (robot che irradiavano fasci luminosi), incastonate dentro una futuribile scenografia a più piani a forma di arco di trionfo. Nella piattaforma ideata per la tetralogia di Wagner (2011-2013) è il movimento stesso dell’imponente macchina scenica dalla forma di un gigantesco scheletro, insieme con le luci e le proiezioni video digitali, a creare una drammaturgia e un interessante dialogo con l’attore: alzandosi verticalmente, disponendosi perpendicolarmente, accogliendo videoproiezioni, essa evoca i molteplici ‘luoghi’ dell’Anello dei Nibelunghi: montagne altissime, profondità marine, assolati campi di battaglia, viscere della terra infuocate.[4]
Spazio circolare e verticale insieme: la spiegazione per questa insolita soluzione scenica ci porta, su suggestione dello stesso Lepage, assai lontano nel tempo, al Medioevo e a un tipo di spettacolo (il dramma liturgico e i misteri) in cui i luoghi deputati, le mansions, sia allineati sia in una collocazione circolare[5] rappresentavano il Paradiso o l’Inferno. Questi piccoli palchi delimitati da tende rispecchiavano la visione morale, edificante ed escatologica che si voleva dare allo spettatore cristiano (ed era una visione verticale, che tendeva verso l’alto). Venivano visualizzati i luoghi a cui l’uomo doveva aspirare per la sua salvezza o dai quali doveva fuggire, ed è a questa schematizzazione figurale che accostiamo il tema della verticalità a cui Lepage sembra assegnare il valore più importante per lo spettacolo, una vera «forma del contenuto»:
Volevo tornare a questo modo di raccontare le storie dove la verticalità ci forzava a ricongiungerci un po’ di più alla poesia, alla mitologia. Il cerchio, insomma, ci ha messo di fronte a cose che non avevamo mai fatto, che non conoscevamo.
E ancora:
Nel Ventesimo secolo e oggi, ancora, siamo ossessionati dal cinema, in cui l’immagine è orizzontale ed è la telecamera che si muove e ritrae l’uomo e il suo ambiente. Il teatro, al contrario, lavora da sempre sulla verticalità. L’uomo è sulla terra, verso l’alto sono le sue aspirazioni, il suo Dio, la sua morale. Anche le storie da sempre erano scritte in quel senso: l’uomo sulla terra, in alto la sua volontà di crescere, le sue aspirazioni e la sua morale, più in basso il diavolo, l’inferno.
In questo lavoro teatrale Dio viene sostituito da una spiritualità interiore a cui l’uomo deve rivolgersi per trovare un proprio equilibrio, e i protagonisti sono gli impulsi dell’uomo, il cui animo «talvolta volge verso il bene, talvolta verso il male», come recita il coro nel primo stasimo dell’Antigone di Sofocle. Nello spettacolo di Lepage non c’è Dio, né il Paradiso come premio o l’Inferno come dannazione eterna, ma solo persone in balìa dei propri istinti, in una condizione autodistruttiva, che sperimentano l’inferno in terra, pur non perdendo la speranza di un riscatto (il personaggio affetto da gioco compulsivo che lo ha portato alla rovina, dopo un lungo girovagare, incontrerà uno sciamano che lo libererà dai suoi incubi). Il filo che unisce queste due forme di teatro, distanti secoli, è il tentativo di rappresentare, attraverso lo spazio circolare e verticale, l’umana esistenza nella sua sintesi estrema: la condotta morale che può indirizzare l’individuo verso la felicità o verso il dramma.
Come afferma Nicoll:
Nelle rappresentazioni medievali è di solito assente e spesso veramente impossibile individuare una demarcazione netta tra quelli che recitano il dramma e quelli che lo guardano. All’estrema destra c’è l’Inferno, formato da due parti: sopra c’è una piattaforma sulla quale stanno in piedi due diavoli, e sotto c’è una grande testa di mostro con la bocca spalancata da cui emerge un diavolo mascherato. È possibile che la rappresentazione che il Fouquet disegnò (Il martirio di Sant’Apollonia) fosse realmente allestita in «circolo» e che di questo circolo l’artista non si sia sentito in grado di rappresentarne che la metà. Si sa che in Francia si faceva uso qualche volta degli edifici teatrali romani ancora esistenti, anche se non è del tutto chiaro in che modo venissero disposte le mansions nelle rovine di quegli edifici. È possibile però che l'antica tradizione romana dell'anfiteatro sia alla base di quei «circoli» in cui si rappresentavano i misteri della Cornovaglia. I più importanti di questi sono i «circoli» che si possono trovare tuttora a St Just e a Perranzabuloe. Il primo, in pietra, ha un diametro di 38 metri circa; il secondo, di terra, raggiunge quasi i 40 metri di diametro.[6]
Nicoll così descrive il disegno del Castello della Perseveranza, altra testimonianza visiva di rappresentazione medievale a pianta centrale:
Il disegno offre preziose note interpretative. C’è di nuovo un ampio cerchio circondato da «acqua intorno allo spiazzo se può essere scavato un fossato laddove si farà la rappresentazione; o altrimenti che ci sia un robusto steccato tutt’intorno; e che ci siano dei maestri di cerimonia all’interno dello spiazzo». Proprio nel centro era eretto un edificio che rappresentava il castello, e le diverse mansions erano sistemate intorno ad esso secondo i quattro punti cardinali: la tribuna di Dio a Est, quella di Belial a Nord, la Carne al Sud e il Mondo a Ovest; la Cupidigia occupava un posto a Nord Est. Il pubblico e gli attori qui erano evidentemente in stretto contatto ed è presumibile sia che gli spettatori si spostassero, di volta in volta verso le singole mansions che venivano man mano usate, sia che gli attori portassero l’azione scenica, in processione o in altri modi, tra gli spettatori ammassati. Pertanto l’insieme delle azioni degli attori, così come la possibilità per il pubblico di vedere, era progettata nell’ambito della circonferenza.[7]
Nello spettacolo di Lepage le figure umane affrontano il loro inferno in vita ma si apre inaspettatamente una possibilità di redenzione. A loro giocare la carta giusta.
1 Per un approfondimento sulla biografia, teatrografia e filmografia oltre al sito ufficiale www.lacaserne.net cfr.: A.M. Monteverdi, Il teatro di Robert Lepage, Pisa, Bfs, 2005 e inoltre gli articoli usciti su www.ateatro.it.
2 Sul secondo episodio cfr. A.M. Monteverdi, Robert Lepage alla ricerca della lanterna magica. In Algeria. Jeux de Cartes # Cœrs, «Rumor(s)cena», http://www.rumorscena.com/2013/10/11/robert-lepage-alla-ricerca-della-lanterna-magica-in-algeria-jeux-de-cartes-coeurs/ .
3 Lepage aveva diretto precedentemente anche il Secret World Tour di Peter Gabriel (1993). Sui concerti di Lepage cfr.: A. Lanini, Peter & Robert, rock e teatro in tour, in www.ateatro.it, n. 78.8, 2005.
4 Sulla macchina ideata per Wagner vedi anche: A.M. Monteverdi, La Walhalla machine, in www.digitalperformance.it .
5 La disposizione delle mansions su una linea curva è testimoniata dalla miniatura del Martirio di Santa Apollonia di Jean Fouquet tratta dal Libro d’Ore di Etienne Chevalier (1452-1460). Si può notare lo spazio scenico con al centro il martirio della Santa e intorno sia il pubblico, sia i musici dentro loggette con tende e i luoghi deputati (Inferno e Paradiso). Vedi: E. Konigson, Lo spazio del teatro nel Medioevo, Firenze, La casa Usher, 1990; F. Perrelli, Storia della scenografia. Dall’antichità al Novecento, Roma, Carocci, 2004.
6 A. Nicoll, Lo spazio scenico. Storia dell’arte teatrale, Roma, Bulzoni, 1971, p. 65.
7 Ivi, p. 66.