La notizia arriva d’improvviso lunedì mattina: è morto David Bowie. Si sprecano i necrologi e le testimonianze. Da ogni parte del mondo pare che tutti lo piangano e rimpiangano. Già iniziano le analisi e i bilanci su una figura che, si ami o meno la sua musica, negli anni Settanta ha cambiato la storia del pop. Non sono poi mancati i passi falsi, con dischi mediocri o progetti sbagliati, ma non è venuta mai meno in Bowie la sfida con lo spirito del tempo: la volontà di precorrerlo e di decidere in quale direzione volgerlo. Di essere colui che sempre muta e, mutando, si pone alla guida del proprio tempo. Almeno sino all’attacco cardiaco del 2004, cui è seguito un decennio di ritiro dalle scene prima degli exploit finali di The Next Day e Blackstar.
È morto David Bowie, apprendiamo con stupore. Si legge che è morto per un tumore contro cui lottava da un anno e mezzo. E che è riuscito in questo anno e mezzo a incidere il disco-testamento. Dopo la vitalità ritrovata di The Next Day, la messa in scena della propria morte con Blackstar.
David Bowie e l’arte. David Bowie e il teatro. David Bowie e il cinema. David Bowie e la moda. David Bowie e la fotografia. David Bowie e la fantascienza. David Bowie e il pop. David Bowie e il glam. David Bowie e l’underground. David Bowie e il jazz. David Bowie e Brian Eno. David Bowie e Iggy Pop. David Bowie e Nile Rodgers. David Bowie e Trent Reznor. David Bowie e Major Tom. David Bowie e Ziggy Sturdust. David Bowie e Thin White Duke. David Bowie e Berlino. David Bowie e la droga. David Bowie e la sessualità. David Bowie e il queer. David Bowie e la pupilla dilatata… L’eredità di David Bowie, popstar totale, si distribuisce su molteplici percorsi artistici e culturali, come i suoi necrologi. Ci sarà molto da celebrare, ci sarà molto da studiare.
Una volta le popstar morivano giovani per overdose o incidente, di auto o di aereo, spesso a 27 anni. Qualcuna ancora muore prima di diventare adulta, come Amy Whinehouse, ma la maggior parte, ormai, deve fare i conti con il serio rischio di morire per cause naturali. Da quando è iniziato il nuovo millennio, poi, ci troviamo per la prima volta a che fare con popstar invecchiate, quelle che nella giovinezza si chiamavano le rockstar dallo stile di vita eccentrico e trasgressivo.
Come si comporta quindi una popstar invecchiata? Generalmente ha denaro, famiglia e ironia, ogni tanto incide un disco, a volte fa ancora tour o va in tv. Poi può decidere se con vari escamotage mantenere un aspetto giovanile oppure se felicemente abbandonarsi agli agi del post-successo. Né mancano le varianti dell’ultimo definitivo matrimonio o della depressione da perdita di gloria, virilità, sensualità, ecc., con rehab annessa.
Poi c’è David Bowie. C’era David Bowie. Che invecchiando non è invecchiato. E poi è morto. Perché tutti moriamo, anzi moriremo. Di qualcosa bisogna pur morire. E poiché oltre che cantante e musicista era un attore, è morto in scena. Non sul palcoscenico, suonando, ma sulla scena intermediale di un videoclip, recitando la propria morte. È morto in scena perché ha messo in scena la propria morte. E la propria resurrezione mitopoietica.
Ma che cos’è un disco-testamento? Sarà qualcosa come un’opera in cui, dopo aver fatto l’inventario del proprio patrimonio, si vuole distribuire una eredità? Andiamo quindi ad ascoltare Blackstar. Dura poco più di quaranta minuti, ci sono solo sette tracce, ma la prima è lunga quasi dieci minuti, come al tempo del progressive. Non è necessario essere critici musicali per cogliere il fatto che ci troviamo di fronte a un’opera in cui disperazione e dolore appaiono distillati in una mirabile intelligenza musicale, al contempo sperimentale e melodica, jazzata e pop, rockeggiante ed elegante, di cui si sono già riconosciute influenze e similarità.
Nella recensione di Federico Romagnoli su Ondarock si legge che con questo album Bowie si è «ripreso, perché no con qualche interesse, ciò che gli appartiene». Quindi, se l’eredità musicale di Bowie è stata già distribuita in passato, basta scorrere i titoli dei suoi album e dei suoi film, le immagini dei suoi concerti e delle sue performance per definirla? Oppure, rispetto a questo patrimonio già distribuito, Blackstar elargisce un’ulteriore eredità nella rappresentazione della morte che inscena?
Si potrebbe guardare il video di Lazarus in loop, ipnotizzati dal volto di Bowie malato, senza soluzione di continuità. Se lo si guarda invece una volta sola, si intravede all’inizio una mano che apre un armadio, al cui interno alla fine lo vediamo risucchiato, in un movimento all’indietro, finché appare solo di nuovo una mano che richiude le ante. La mano di Bowie, mostrata in un’impietosa inquadratura ravvicinata che smaschera le vene sporgenti e le macchie sulla pelle.
Il motivo della soglia fiabesca è rovesciato a esprimere l’oscurità di quell’altrove che è la non-vita. Si apre l’armadio e, oplà, usciamo. Si richiude risucchiandoci e, oplà, non ci saremo più. Addio, in un batter di ciglia. Non diciamo ciao, per favore. Non diciamo «Ciao Duca». Perché il ciao non è per sempre mentre il distacco della morte è irreversibile, e dire ciao ai morti è un insulto alla loro memoria.
Nonostante i nuovi album di pregio negli anni Novanta, i critici e i fan hanno soprattutto apprezzato il ritrovato vigore artistico di David Bowie negli anni Dieci. The Next Day tre anni fa e ora Blackstar, che «ce lo regalava in forma smagliante», come ha scritto Michele Monina sul Fatto quotidiano. E invece è morto.
Mentre le sue coetanee popstar invecchiavano optando per la giovinezza o la giovialità, perlopiù incidendo omaggi a se stesse, l’ultimo Bowie è risorto dalle proprie ceneri tornando a sperimentare, simile in questo più agli outsider invecchiati, ai cantanti e musicisti rimasti ai margini del mainstream, che non alle star: «Take your passport and shoes (I’m not a popstar) / And your sedatives, boo (I’m a blackstar)» ascoltiamo nella lunga traccia di apertura dell’ultimo album. È risorto morendo.
Del 1972, Five Years è la traccia di apertura di Ziggy Sturdust e, in piena verve fantascientifica, racconta le reazioni delle persone di fronte alla notizia che la Terra ha solo cinque anni di vita. Mentre la gente si abbandona a rabbiose reazioni di disperazione, scandite dal ritmo sincopato della batteria, lo starman Ziggy appare concentrato a memorizzare un patrimonio di esperienze senza futuro terrestre: «My brain hurt like a warehouse / It had no room to spare / I had to cram so many things / To store everything in there». Per portarle su un altro pianeta o semplicemente sulla scena: «And it was cold and it rained so I felt like an actor».
L’uomo anziano giace sdraiato, sofferente, su uno scarno letto in una camera spoglia. È bendato, è cieco con due bottoni al posto degli occhi, assomiglia al Carlo Cecchi-Edipo morente nella Serata a Colono di Elsa Morante: «Look up here, I’m in heaven / I’ve got scars that can’t be seen / I’ve got drama, can’t be stolen / Everybody knows me now». Il tempo è scaduto sulla terra, ma anche in cielo: «I’m so high it makes my brain whirl».
Ma ecco che l’uomo anziano e sofferente, prossimo alla morte e che sa di dover morire, è di nuovo in piedi e abbozza con grazia un passo di danza. L’uomo anziano si è rialzato, è risorto.
Thursday’s Child fa parte di Hours..., album del 1999, non particolarmente riuscito. I figli del giovedì sono, secondo una filastrocca inglese, sempre fuori luogo, disorientati, sconnessi. «Something about me stood apart / A whisper of hope that seemed to fail / Maybe I'm born right out of my time / Breaking my life in two» canta David guardandosi allo specchio mentre la moglie, amaramente bellissima, si lava i denti e si toglie le lenti a contatto. Poi, d’un tratto, tra gli arredi minimal del motel, nello specchio appaiono due corpi giovani e le coordinate spaziotemporali si sovrappongono, in un fluido gioco esistenziale in cui la maturità si rispecchia nella giovinezza.
Nel frattempo la memoria corre al video di Ashes to Ashes (1980), uno degli ultimi fuochi, in realtà, del decennio precedente, in cui, in un’ambientazione resa aliena dagli psichedelici effetti cromatici, il trentenne David-Pierrot stringe in mano uno specchietto che lo conduce – e noi con lui – in un’altra dimensione di se stesso. Di continuo in questo vecchio video, la cui genialità è enfatizzata dai sorpassati effetti speciali, si giustappongono le identità di un artista poliedrico e camaleontico alla ricerca di un nuovo inizio terrestre dopo aver ancora spezzato in due la sua vita: «We know Major Tom’s a junkie / Strung out in heaven’s high / Hitting an all-time low».
Nel frattempo scorre anche il video del 1999, in cui David cinquantenne sorride al se stesso giovane e alla ragazza, pacificato ma non meno vigile, non meno curioso di osservarsi: «Lucky old sun is in my sky».
Oltre che a probabilmente contenere allusioni al musical omonimo, in scena a New York, da David Bowie scritto insieme a Enda Walsh, il video di Lazarus è forse un prequel del cortometraggio di Blackstar. Forse dietro l’armadio c’è l’universo oscuro ed esoterico, così è stato definito, del lungo lavoro precedente, che pare mettere in scena in un mondo parallelo, «in the villa of Ormen», i riti invasati dei seguaci di un culto ispirato dal teschio di un astronauta, il cui scheletro decapitato vediamo poi fluttuare nel cosmo oscurato da un’eclisse di sole. Vari sono gli elementi che in Lazarus si legano all’altra opera, a cominciare dal volto bendato con i bottoni al posto degli occhi, dalla giovane donna che più volte appare di soppiatto, dal teschio ingioiellato, che pare quasi una citazione di Damien Hirst. Il libretto su cui David Bowie scrive sembra quello che tiene in mano, a mo’ di bibbia nera, in Blackstar. Ci sarà molto da celebrare, molto da studiare.
Le notizie ancora si diffondono. David Bowie è morto di un tumore al fegato, colpito dalla malattia nello stesso organo dei vecchi sodali Lou Reed e Mick Ronson. È stato cremato senza alcun rito. La persona ha esaurito con pudore e riservatezza il suo ciclo vitale. Il suo amico e produttore Tony Visconti ha dichiarato che David con Blackstar ha voluto farci un regalo. In questo album, in effetti, la consapevolezza di morire si traduce in una geometria composta e straziante nella quale, grazie anche alla collaborazione dei virtuosi di cui si è circondato, tutte le identità di David Bowie sembrano essersi infine incontrate e riconosciute per regalarci il suo stile tardo come una sfida romantica al tempo della morte.
L’uomo anziano non ce la fa a continuare a ballare. È troppo malato e disperato, o forse solo stanco. Forse era solo un sogno, non si è mai alzato dal letto di morte. E forse sono solo un sogno anche le tante cose che sta scrivendo, ispirato. Deve essere il testamento, deve essere l’atto finale della rappresentazione. Il tempo sta esaurendosi, tutto rimane qua mentre lui si distacca. Ed ecco che l’armadio si riapre e comincia il ritorno nella non-vita. Tutto ciò a cui l’uomo era ancora aggrappato, fosse anche solo il desiderio di un attimo in più per comunicare ancora qualcosa, per esercitare il proprio diritto a una comunque insufficiente parola, tutto rimane qua mentre lui è risucchiato, all’indietro, nell’armadio. Infine, nell’ultimo primo piano, vediamo, prima che sparisca, il volto dell’uomo guardare avanti, concentrato, e sappiamo che questa è l’immagine del congedo della popstar: David Bowie che nel pieno della sua creatività mette in scena la sua scomparsa. Dopodiché, parte in loop la resurrezione e l’essere umano è ormai icona.