Le
presidentesse di Werner Schwab è una farsa feroce che denuncia i
conformismi, le ipocrisie religiose e la violenza verbale e fisica
che si celano sotto l’apparente quiete dei rapporti umani. Lo
spettacolo – andato in scena in prima assoluta al Castello Pasquini
di Castiglioncello, per il festival Inequilibrio –
costituisce la seconda tappa del Progetto Schwab, percorso
triennale che il Nerval Teatro dedica al mondo e al linguaggio
dell’autore austriaco, scomparso precocemente nel 1994. La
scrittura di Schwab, caratterizzata da un linguaggio che sprofonda
nel corpo dell’attore attraversandone le viscere, incontra dunque
una realtà teatrale che – fondata nel 2007 da Maurizio Lupinelli e
da Elisa Pol – intreccia l’attenzione alla drammaturgia
contemporanea ad un percorso dedicato ai diversi aspetti del disagio.
Il risultato è un dialogo a tre personaggi femminili, interpretati
dagli stessi Lupinelli e Pol e dell’attrice diversamente abile
Federica Rinaldi, che si raccontano alternando sferzante ironia e
grottesca comicità, con repentine discese nel tragico.
Ma non ci sono eroine in questa tragedia, solo fragilità umane che misurano, nella stessa squallida cucina, i propri limiti e le proprie grettezze – mascherate da sogni romantici e bigotta devozione – mentre la piccola Maria, come una Cassandra contemporanea, si rende balbuziente portavoce della verità. Una creatura pulita e sincera, che, nonostante l’umiltà delle sue mansioni (pulisce i bagni pubblici), sa leggere nella ‘merda’ e negli scarti che vede ogni giorno il presente e il futuro di un’umanità defecatrice. Perché nei rifiuti, nelle feci, nel vomito, in tutto ciò che l’uomo costantemente nasconde e rimuove nei cessi, negli angoli bui, nell’immondizia si annida la verità, che nessun detergente può lavare via.
Lo spettacolo si divide strutturalmente in due parti: la prima vede i tre personaggi femminili riuniti in cucina, davanti alla tv – oggetto simbolo del focolare moderno – intente a commentare le notizie, in un dialogo che si rivela ben presto essere fortemente non comunicativo, perché ciascuna delle tre prende a pretesto la notizia per portare avanti un soliloquio di beckettiana memoria. Ma c’è di più: l’invettiva e la violenza verbale con cui, a tratti, due delle tre (perché la piccola Maria cinguetta, servendo il caffè, come innocente sacerdotessa di un rito domestico) si vomitano addosso il reciproco disprezzo. Una donna appariscente pluridivorziata e un’anziana bigotta con un figlio che non le parla incollate alla televisione, vicine, ma distanti, presenti l’una all’altra solo per sbranarsi.
Nella
seconda parte le donne siedono al centro del palco, fronte al
pubblico, due in piedi, Maria seduta davanti, dando loro le spalle,
con prossemica rivelatrice di ciò che accadrà di lì a breve a
questa vittima designata di un sacrificio contemporaneo, in nome di
nessun Dio. C’è un oggetto di scena che fa da trait d’union
fra le due sezioni dello spettacolo, un oggetto metonimico, la
tazza del wc. Se prima però era passato quasi inosservato confuso
con un innocuo sedile dell’ambiente domestico, adesso si rivela
chiaramente per quello che è, troneggiando al centro della scena
come scranno sacrificale su cui siede il capro espiatorio, la piccola
veggente delle miserie umane.
Ogni donna pronuncia a turno sul ritmo serrato e martellante di un crescendo musicale un monologo: la propria storia, i propri sogni, il proprio futuro. Sono vagheggiamenti d’amore, di liberazione, rosee prospettive di evasione da un presente senza via d’uscita. Solo la piccola Maria fa fatica a prendere la parola, non la lasciano parlare perché balbetta, dicendo cose apparentemente sconnesse fra loro, apparentemente senza senso. Solo apparentemente, però, visto che ben presto capiamo la sua preveggenza del futuro (o semplice lettura del presente): nessuna rosea prospettiva, solo miseria, degradazione, un’esistenza senza amore.
Così
il dramma tocca la climax: le due donne, di comune tacito
accordo, compiono il sacrificio in nome della rimozione e del quieto
vivere in un’immondizia di sogni putrefatti e sgozzano la ‘scomoda’
Maria. Dal punto di vista cristologico, è una crocifissione dal
basso, più simile al pagano scannamento di un agnello; la presenza
del corpo santo dell’attore diventa qui più che mai
necessaria, per lo sprofondamento della lingua nel corpo stesso, per
un teatro che restituisce rumore alla vita.
Lo spettatore rimane attonito di fronte a questo omicidio in nome del nulla: «perché ciascuno ha uno scheletro nell’armadio» – si dicono le due donne, alzando le spalle – nulla di più attuale, se pensiamo ai corpi abbandonati nelle discariche, fatti a pezzi in garage, nascosti negli scantinati e nei surgelatori di tutte le vittime domestiche che la nostra società uccide, smaltisce e piange, lavando pavimenti e coscienze in cambio del silenzio consolatore.
Le presidentesse di Werner Schwab
adattamento drammaturgico di Rita Frongia
interpreti: Elisa Pol, Federica Rinaldi, Maurizio Lupinelli
regia di Maurizio Lupinelli
assistente alla regia Michele Bandini
costumi di Maria Chiara Grotto
disegno luci di Giacomo Gorini
Produzione Nerval Teatro, Armunia/Festival Inequilibrio; con la collaborazione di Claudio Morganti