L’ecfrasi ai tempi del medium fotografico, tra iperrealismo e mimesi paradossale

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Il concetto di ecfrasi dev’essere necessariamente ripensato a seguito di alcune modificazioni tecnologiche, in particolare determinate dal medium fotografico, che ha alterato le modalità dello sguardo e, di conseguenza, la restituzione letteraria dell’oggetto artistico. La descrizione poetica diventa estremamente dettagliata, assumendo uno stile che può essere paragonato a quello dell’iperrealismo americano. Questi temi verranno indagati attraverso una campionatura di testi scelti nella produzione senile di Sanguineti, dove l’aspetto mimetico dell’ecfrasi viene portato alle estreme conseguenze, in quella che il poeta stesso ha definito un’«iperbolica fedeltà» alla fonte artistica.

Some technical innovations, mostly related to the medium of photography, have changed the way we observe reality and therefore the literary description of artworks, that is, the practice of ekphrasis. In this paper I will argue that the very definition of ekphrasis should be reassessed, acknowledging the impact of these technical innovations. In particular, poetic descriptions of artworks became more and more detailed, getting closer to what is called ‘American hyperrealism’. Selected poems by Sanguineti will be the main focus of our analysis. These poems allow to appraise Sanguineti’s claim that ekphrasis fully unfold sits mimetic power when it follows from a ‘hyperbolic accuracy’ to the artistic object of the poetic description. 

 

 

1. Premessa

Al di là di qualunque astrazione teorica e retorico-stilistica, l’evoluzione e la rimodulazione del concetto di ecfrasi in epoca contemporanea deve necessariamente intercettare alcune modificazioni materiali dei mezzi di produzione e riproduzione delle immagini.[1]

Nel momento in cui, attraverso l’istantanea fotografica, un’icona si offre all’osservatore secondo modalità di fruizione illimitata, con un incremento progressivo della nitidezza e della resa dei particolari grafici, lo sguardo dispone propriamente di un nuovo oggetto di visione (e, conseguentemente, di rappresentazione). Non si registra più la necessità di recarsi in pellegrinaggio estetico di fronte all’opera né di consultare riproduzioni sgranate e in bianco e nero; l’immagine è accessibile in ogni momento e con un grado di leggibilità e precisione addirittura superiore rispetto alla normale osservazione soggettiva, viziata da accidenti empirici o da allestimenti poco lungimiranti che non consentono un avvicinamento materiale dell’osservatore. La possibilità di disporre di un museo domestico senza barriere o vincoli spazio-temporali (per la durata potenzialmente infinita dell’atto di osservazione e per l’annullamento delle distanze e delle barriere dimensionali tra spettatore e opera d’arte) comporta, in alcune modalità contemporanee di scritture ecfrastiche, una resa iperrealistica e spregiudicatamente mimetica della fonte.

La prima conseguenza statisticamente rilevante riguarda la preponderanza dilagante dei casi di actual ekphrasis (ossia, secondo la definizione di John Hollander, componimenti ecfrastici costruiti a partire da quadri o sculture ‘reali’).[2] Rispetto alla reinvenzione del referente a opera della fantasia dell’autore (fino alla costruzione, a posteriori, di un quadro squisitamente letterario, come avviene spesso nella Galeria mariniana),[3] l’ecfrasi mediata dalla fotografia tende a risolversi in un gioco interlineare con la fonte, considerata alla stregua di un testo visivo con cui avviare una forma eccentrica e medialmente aggiornata di intertestualità. Lo sguardo fotografico, tuttavia, non rappresenta mai una traslitterazione neutra del contenuto iconico, giacché la visualizzazione di un quadro in fotografia (soprattutto se in bianco e nero) comporta alcuni fraintendimenti, errori di prospettiva, e in generale la focalizzazione su elementi diversi rispetto alla visione diretta della fonte – soprattutto per quanto riguarda le sculture, che la fotografia restituisce in una sola dimensione e attraverso la scelta autoritaria di un lato isolato dell’osservazione. Come asserisce Barthes in un saggio capitale dedicato al messaggio fotografico, la presunta oggettività dell’immagine fotografica come analogon del reale, privato del dualismo tra connotazione e interpretazione, è semplicemente un «mito» o un «paradosso estetico».[4]

La letteratura, appropriandosi del realismo paradossale dell’immagine fotografica, introietta una sorta di iper-mimesi che, per i suoi caratteri di riproduzione ‘in scala reale’ del mondo, azzera il principio di verosimiglianza, in un attaccamento morboso e voyeuristico all’oggetto. Il surplus di realismo si deforma in surrealismo allucinato, il passaggio dalla visione consuetudinaria di un elemento alla sua inevitabile deformazione sul vetrino del microscopio comporta un necessario riallineamento di asse interno allo sguardo del poeta.

Un ulteriore elemento di eccentricità rispetto al panorama ‘classico’ dell’ecfrasi è dato dalla crescente facilità nella pubblicazione dei testi impaginati assieme alle immagini di riferimento; perdendo la sua funzione di sostituto simbolico di un quadro-fantasma (di cui la scrittura letteraria doveva ricreare, in qualità di prestanome ideale, la fattura materiale della tela o lo stile plastico), la ‘forma-catalogo’ che accoglie questi nuovi testi implica una correlazione necessaria con un referente ‘materializzato’ a cui la scrittura ecfrastica risulta vincolata dalla stessa impaginazione tipografica. Come asserisce Claus Clüver, in un articolo programmatico sulla ridefinizione del concetto di ecfrasi applicato all’arte non figurativa:

 

The poem itself is a verbal representation of the painting. It is not intended to replace it: in fact, a black-and-white reproduction of the painting has been included on the facing page, and the reader is thus invited to explore the relation of the two texts. […] In judging the poem to be “faithful” to the visual representation that is its source we will in part apply criteria quite similar to those employed in evaluating the inter-linguistic translation.[5]

 

Nei casi dei cataloghi d’arte, pertanto, l’ecfrasi assume lo statuto di didascalia in versi (o, meglio, di traduzione interlineare) di una fonte visiva che non dev’essere recuperata nel database memoriale del lettore-osservatore, ma viene impaginata contestualmente al testo; l’operazione del poeta è passibile di verifica simultanea da parte del pubblico, che può controllare il tasso di rispondenza o libertà ricreativa del testo rispetto al dipinto – come nel caso di una traduzione stampata accanto al testo in lingua originale. Questo allenamento alla fruizione sincronica del binomio parola/immagine comporta un progressivo adeguamento delle scritture ecfrastiche al gioco con l’orizzonte di attesa di un nuovo lettore/osservatore; lo scrittore ha il potere di soddisfare o frustrare la suspence del pubblico, che si aspetta a ogni pagina una forma di dialogo (esplicito o enigmistico, lineare o paradossale) tra poesia e fonte figurativa.[6]

Nell’ambito di una società a dominante marcatamente visiva (l’«iconosfera», secondo la formula ormai classica di Gilbert Cohen-Séat),[7] i poeti a caccia di immagini chiedono agli artisti (o ricevono su commissione amichevole) istantanee di opere su cui allestire commenti ecfrastici; il simulacro fotografico ‘equivale’ alla fonte figurativa, dal momento che l’oggetto artistico viene assunto come portatore di un contenuto puro, di una ‘storia’ tematica che la scrittura ha il compito di dinamizzare.[8] Supportati dalla crescente accessibilità dei repertori fotografici, i poeti sembrano ormai interessati all’«image» (il contenuto iconico) e non alla «picture» (l’opera complessivamente intesa, dotata di una certa superficie e di una materialità concreta).[9]

Quando il contenuto dell’ecfrasi non è propriamente uno scatto fotografico, anche le altre forme di espressione creativa vengono sempre più percepite ‘sub specie fotografia’, in un effetto di mimesi paradossale e inquietante del reale che ricorda da vicino gli esiti «troppo falsi per non essere veri»[10] dell’iperrealismo americano.[11]

Le sperimentazioni ecfrastiche inventariabili all’interno della produzione di Edoardo Sanguineti, assecondando le forme e gli stilemi più disparati, consentono di disporre di un campionario corposo per analizzare questa tendenza al parossismo del dettaglio (il poeta parla di un’«iperbolica fedeltà»)[12] nella restituzione degli oggetti raffigurati. A questo proposito, non risulta accessorio rilevare l’incidenza del filtro fotografico come medium (spesso univoco) di visione anche per quanto riguarda l’accesso ai referenti più tradizionalmente pittorici – dal momento che Sanguineti richiedeva spesso agli amici artisti un’istantanea fotografica dell’opera la cui visione, pertanto, non avveniva in galleria o in atelier, ma secondo le regole e le inevitabili alterazioni impresse dalla cornice fotografica.

In una lettera ad Antonio Fomez del 28 gennaio 1984, ad esempio, leggiamo:

Caro Fomez,
ti ringrazio del nuovo invio; quello che preferisco (almeno in fotografia) è il primo quadro (quello con il cestino di frutta); se mi fai avere la foto scattata da te (negativo con qualche esemplare già pronto), a colori, quale me l’avevi mandata, sarò contentissimo; naturalmente, ti terrò informato di ogni impiego futuro; spero di fare il pezzo (una poesia) assai presto (ma non è facile, mi pare, il tema ritrattistico…); appena pronto, te lo mando; intanto, auguri per la mostra.[13]

Da questa richiesta epistolare si può desumere il processo genetico alla base della stesura di un componimento ecfrastico: l’artista, in previsione dell’allestimento di una mostra, invia al poeta alcuni fotogrammi dei quadri che intende esporre e il letterato, quasi su ‘committenza’ volontaria, esegue un testo d’occasione. A Sanguineti interessa anche il contesto di visione dell’immagine, ossia l’ambiente della mostra come contenitore di repertori iconici in dialogo necessario con lo sguardo dell’osservatore, come si intuisce, ad esempio, da una lettera inviata ad Antonio Bueno il 23 novembre 1967:

Carissimo,
grazie delle foto! d’accordo per anticipare la data del mio pezzo; però la cosa dipende un po’ da te, e cioè ancora da foto: come sai, io riesco a lavorare soltanto sulle immagini: dovresti mandarmi quelle che riguardano la mostra di New York (un certo numero), con le date relative dei quadri; così che il discorso sia pertinente alle cose che gli americani vedono […]. Morale: aspetto le foto: sei contento?[14]

 

Questa attenzione per il contesto si riverbera non soltanto sul luogo espositivo, ma anche sulla strutturazione del catalogo, con la richiesta da parte del poeta di conoscere l’‘intorno’ situazionale in cui la poesia andrà a inserirsi. Da questi esempi emerge un’attenzione progressivamente orientata più verso le sovrastrutture ai margini dell’immagine che verso l’oggetto artistico in quanto tale – di cui viene importata la trama generale senza particolare deferenza nei confronti del suo statuto materiale.

Attraverso una campionatura ragionata di esempi isolati dalla produzione tarda di Sanguineti,[15] si tenterà di esplorare in che modo il dispositivo ecfrastico faccia i conti con opere di artisti contemporanei mediate dalla fotografia, con uno stile che, per restituire – spesso con sfumature parodiche – l’alta densità informativa dell’oggetto registrato, tende a riprodurne meticolosamente la superficie formale, con la volontà di esibire, nel modo più trasparente e integrale, tutti i dettagli tecnici della tela o del disegno. Nell’ultimo caso preso in esame (Decafoto), questo meccanismo di appropriazione totale del referente iconico è applicato a documenti fotografici, in forme del tutto analoghe, però, a quelle sperimentate per i quadri fotografati, costruendo un percorso poetico funzionale a realizzare un catalogo d’artista.

 

2. Oppio (Luca Mengoni)

1.
sette papaveri sono le note
sfrangiate rosse, e soffiate: una coppia
di montagnette, a due vertici, vuote
 
(tipo, mettiamo, una catena doppia:
remidorè, miredò): mezze ruote
quadrifogliate, che ognuna si scoppia,
 
stimmate un poco, impronte molte (ignote,
che si piegano e stringono): (ma stroppia
il troppo, poi?): (si può?: cioè, si puote?):

 

Luca Mengoni, Oppio, 2006

 

2.
un labirinto è metafora (oscura,
sta scritto): e i fiori, anche, possono, credo,
crescerci in terna, nuotare (oh natura!),
 
sottoporsi, affiancarsi: ecco, li vedo
fasciati ma fascianti: (però è dura
vorticarli così, mi arrendo, cedo,
 
alzo le mani): questa è una fattura
che mi frattura il corpo mio: corredo
il tutto, ormai: (ci vuole, la misura):

 

Luca Mengoni, Oppio, 2006

 

3.
tre qua (ma aride tutte, secche), un due
più un uno, e quattro là, ma un doppio bivio
(si biforca, si ribiforca): (è un bue
che fa le corna): (in mezzo): (in un convivio):
e fa rosolacciare, per le tue
orecchiette gentili (ha preso abbrivio,
 
va di slancio), doremidò: (e poi rue,
precipitoso, a valle): in altro trivio
c’è scala (nera) con le stecche sue:

 

Luca Mengoni, Oppio, 2006

 

4.
sei corpuscoli a coda, bruni bruni,
serpentiformi abnormi (ma spermatici):
(spermatozoi, direi (tra i quali, alcuni
 
fecondi, non lo so, ma (è certo) asmatici)
incespicano, tristi, più importuni
che amabili): (ma in blocco, gli iperstatici,
 
e, alla fine, ipersterili): raduni,
dentro un erbario uteresco, gli ematici
narcotici (i più fragili e digiuni):

 

Luca Mengoni, Oppio, 2006

 

5.
undici (ora con a, con bi, con ci:
poi scendi giù: con di, con e, con effe,
con gi: via, ancora, un passo, ecco, così,
 
con acca e un’i, con elle e un’emme (beffe,
sberleffi che apprestasti, cauto, un dì),
riproduttivi apparati (a bizzeffe,
 
a raffiche), ci fu chi li fornì):
tecnoriproducibili, di ceffe
bruttine munì i ceffi, lì per lì:

 

Luca Mengoni, Oppio, 2006

 

Prima di confluire nell’ultima e postuma raccolta sanguinetiana, i cinque componimenti di Oppio[16] erano comparsi nel catalogo di una mostra di Luca Mengoni (La circolazione della linfa), allestita nel 2006 presso il Museo Cantonale di Lugano. Se vengono comparate biunivocamente con i disegni selezionati sulle pagine dell’antologia illustrata, le poesie sanguinetiane non risultano compatibili linearmente con nessuna tavola, ma sembrano piuttosto riprendere alcuni archetipi ricorrenti nella pittura di Mengoni (i papaveri, il labirinto, la scala). L’interpretazione che vedrebbe la scrittura sanguinetiana junghianamente a caccia di simboli e archetipi piuttosto che puntuali contenuti iconici sembrerebbe confermata dalla natura altamente metaforica dei disegni-emblemi mengoniani, dal momento che – come spiega Fabio Pusterla nel presentare il catalogo – «le immagini costantemente inseguite[…] evocano un orizzonte mitico, un senso sempre sfuggente ma perennemente interrogato».[17] Questa percezione di un significato misterioso che soggiace all’apparenza formale degli oggetti descritti si riverbera sullo stile sanguinetiano, in cui alla radiografia puntuale di alcuni dettagli («sette papaveri», I, 1; «sei corpuscoli a coda», IV, 1; «undici (ora con a, con bi, con ci)», V, 1) si accompagna il presentimento di un enigma, di un senso ‘altro’ che si annida nelle strutture disegnative (segnalato tanto dall’aggettivazione scelta – «impronte ignote», I, 7; «un labirinto è metafora oscura», II, 1 – quanto dall’uso di espressioni dubitative – «si può?» I, 9, «credo», II, 2, «non lo so», IV, 5, etc.). Il lettore, pertanto, rimane spiazzato da un’inquietante ‘verosimiglianza ecfrastica’ regolarmente frustrata dal confronto con referenti ‘quasi’ perfetti, ma in realtà sempre discordanti, anche solo per un singolo capriccioso dettaglio, rispetto alle descrizioni liriche.

Il riferimento puntuale alle fonti figurative non emerge dal confronto diretto con le riproduzioni dei disegni raccolti all’interno della Circolazione della linfa, dal momento che le cinque incisioni calcografiche oggetto di ecfrasi sono state volontariamente escluse dai due autori nella strutturazione del catalogo, per suscitare un deliberato effetto di spaesamento nel lettore, incapace di ritrovare un collegamento referenziale tra apparato figurativo e illustrazioni poetiche.[18] Mentre nel contenitore allestitivo della Mostra di Lugano gli originali disegnati da Mengoni erano accompagnati dai versi sanguinetiani, nel catalogo questa simmetria impaginativa viene sottratta al pubblico, costretto ad avvertire soltanto una generica ispirazione di Sanguineti ai contenuti archetipici dell’artista, senza cogliere l’aderenza fedele all’originale.

Un tentativo di realizzare un libro d’artista che attestasse materialmente questa collaborazione naufragò alcuni mesi dopo che le lastre – consegnate a un editore milanese affinché ne traesse un’edizione limitata (circa cinquanta copie) – furono smarrite durante il trasloco del tipografo. Oggi resta soltanto il fantasma di questo dialogo verbo-visivo, depositato nella dedica sibillina «a Luca Mengoni», senza che sia mai stata indagata la genesi dell’elaborazione intertestuale – il che testimonia un disinteresse globale per la ricognizione puntuale dei componimenti ecfrastici, che ha causato e continua a causare fraintendimenti nell’esegesi dei versi sanguinetiani estrapolati dal contesto specifico delle collaborazioni d’artista e interpretati come dati testuali chiusi e autoreferenziali.

Dalla comparazione con i referenti occulti della collaborazione, emerge sorprendentemente una tipologia di ecfrasi acribica rispetto alla fonte figurativa, a dispetto dell’apparente rimando non denotativo e generalizzante disponibile nel ‘falso’ catalogo. L’enumerazione quantitativa degli oggetti rappresentati («sette papaveri», I, 1; «sei corpuscoli», IV, 1, etc.) contribuisce all’impressione di iper-disambiguazione, che agisce come ludus depistante proprio nel momento in cui il lettore si trova di fronte alla coesistenza artificiosa delle poesie impaginate assieme a immagini simili ma non riconducibili propriamente al computo delle parti suggerito dall’autore – ad esempio, all’interno del catalogo si trova un disegno che raffigura cinque papaveri e non sette, come suggerisce, invece, l’incipit del primo componimento.

Il quinto testo ecfrastico si presenta apparentemente come un gioco alfabetico-matematico, in cui viene suggerita una correlazione biunivoca tra oggetti che ricorda il lessico dell’insiemistica («undici (ora con a, con bi, con ci: / poi scendi giù: con di, con e, con effe, / con gi: via, ancora, un passo, ecco, così: / con acca e un’i, con elle e un’emme», V, 1-4). In realtà, Sanguineti traduce verbalmente l’immagine disegnata da Mengoni, che cita le sagomature di fiori e frutti riprodotte dai manuali di botanica o dagli erbari, in cui ogni specie vegetale viene accompagnata da una lettera di catalogazione; come l’inventario visivo dell’artista terminava alla lettera «M», analogamente il poeta fa terminare la cantilena alfabetica alla stessa lettera, suggerendo poi un parallelismo ottico tra le piante scomposte in sezione e i «riproduttivi apparati» anatomici (v. 6). A partire da una descrizione che si offre al lettore come pedantescamente meticolosa, il poeta affianca una ricreazione allusiva e metaforica del dato figurativo; nel quarto componimento, ad esempio, sei steli di papaveri disposti orizzontalmente vengono decrittati dall’osservatore come sei spermatozoi («sei corpuscoli a coda, bruni bruni, / serpentiformi abnormi (ma spermatici): / (spermatozoi, direi)», vv. 1-3), oppure nella terza poesia una biforcazione dei medesimi steli floreali numericamente catalogati da Sanguineti a seconda della dislocazione spaziale sulla tela («tre qua (ma aride, secche), / un due più uno, e quattro là», vv. 1-2) viene paragonata a «un bue / che fa le corna» (vv. 3-4), secondo un meccanismo proiettivo da somministrazione dei test di Rorschach tipico della prassi poetica sanguinetiana.

In questa silloge ecfrastica, l’interpretazione onirica e soggettiva dell’inconscio prende avvio da disegni elementari, che, attraverso i meccanismi di ri-funzionalizzazione e traslato analogico, sono forzati a esprimere allusioni o sovrasensi già impliciti nella storia simbolica degli oggetti stessi. Se lo stile artistico raffigura in modo neutro forme intrinsecamente ambigue (ad esempio, certe configurazioni dei pistilli o delle corolle che ricordano le tavole anatomiche sugli organi riproduttivi), Sanguineti scioglie nel linguaggio questi sottintesi latenti, enfatizzando in modo trasparente le simmetrie ammiccanti a cui i disegni tacitamente rimandano, come se l’explication de texte passasse attraverso il lettino psicanalitico della scrittura poetica. Oltre al pedinamento mimetico del referente, l’ecfrasi assume qui una funzione di esplicitazione dei nessi analogici sottesi alla pittura, in un’operazione di vera e propria traduzione e verifica linguistica di contenuti iconici implicitamente denotativi. A partire da un’adesione ‘cieca’ e mimetica ai disegni-fantasma, Sanguineti innesta un secondo tempo propriamente interpretativo e critico, ponendosi come didascalia ‘terapeutica’ del rimosso figurativo.

 

2. Sonetto combinatorio (Stefano Spagnoli)

oggi è il 13 luglio, credo bene:
il numero d’archivio (però, c’è
l’1 che è dubbio: c’è un buco) conviene
che sia 1833: -
 
S. (è un x) tira (fossero catene,
capirei tanto sforzo): (ma perché?)
un filo (e lancia un sasso?): intanto, tiene
un grappolo (è THE BIANCO): pure, se
 
osservi (senti SATISFACTION? pene
dolci!), ci sta la vite (vita, me
poveretto!): ma vedo che le vene
 
stanno rigonfie (un orologio): (un re
sotto minaccia?) e un oggetto (le amene
note!) è un poco grigio (new taste): (ah! uh! eh!)
 
Stefano Spagnoli, Satisfaction, 2009

 

Il Sonetto combinatorio[19] appare all’interno del catalogo Nelle Felici Stanze. Piccola antologia personale,[20] pubblicato in occasione della mostra antologica organizzata a Palazzo Pigorini (Parma). Nell’ambito dell’evento «Parmapoesia Festival. Per altri versi», si può immaginare che i due artisti avessero avuto modo di conoscersi personalmente, dal momento che, all’apertura del festival (24 giugno 2007) era prevista, alle ore 17.00, l’inaugurazione della mostra di Spagnoli e, alle 18.00, presso la Casa della Musica, una lettura delle traduzioni sanguinetiane delle Baccanti e della Fedra di Seneca, recitate dal poeta stesso e da Lino Guanciale.

La poesia di Sanguineti è dedicata all’opera Satisfaction (1989) – titolo che compare anche, in grassetto, al v. 9 –; sul margine inferiore del collage, si scorge significativamente una dedica «A Edoardo Sanguineti, con ammirazione». L’opera presenta una carta velina sottile sotto la quale si intravede un insieme eterogeneo di oggetti: una pagina manoscritta, un disegno stilizzato e una serie di sintagmi ritagliati da giornali o pubblicità, che vengono scrupolosamente importati nel componimento sanguinetiano.

La prima quartina ospita una decifrazione minuziosa di alcune coordinate temporali leggibili nella missiva in secondo piano: la data in basso a destra («13 luglio», v. 1) e il riferimento, in alto a sinistra al «n° d’archivio 1833», che, per la consunzione e l’usura, presenta il primo numero poco nitido – fattore accidentale registrato pedissequamente da Sanguineti, che commenta «però, c’è / l’1 che è dubbio: c’è un buco, conviene / che sia 1833» (vv. 2-4). Il linguaggio ecfrastico diventa una pellicola così trasparente e porosa da inglobare addirittura i difetti tecnici nella manifattura dell’oggetto artistico, in una provocatoria adesione indiscriminata alla fonte.

Nella seconda quartina, il disegno di un giovane in posa eroica, con una gamba appoggiata a un masso e una mano spalancata, viene messo in relazione con una linea curva tracciata a matita sulla velina soprastante, creando la suggestione che il ragazzo stia tirando un filo («S. (è un X) tira (fossero catene, / capirei tanto sforzo): (ma perché?) / un filo», vv. 5-7) – con «X» che vale tanto come incognita matematica (coerentemente con la formalizzazione algebrica del lessico contestuale) quanto come segno grafico e disegnativo, in una doppia e aperta ipotesi interpretativa, volontariamente suggerita dall’ambiguità semantica del verso. Analogamente, un disegno circolare in sovrimpressione viene interpretato come una pietra («e lancia un sasso», v. 7), in un continuo cortocircuito di trappole visive che i diversi piani dell’opera possono innescare nella lettura simultanea dell’osservatore. La descrizione della velina continua con l’allusione a un «grappolo» e alla «vite» (elementi decorativi scarabocchiati in primo piano), a cui vengono inframmezzati oggetti che emergono in trasparenza («un orologio» e la scritta «new taste», che compare impressa sull’etichetta del the bianco Cinzano, vv. 8-10). Il carattere illustrativo della scrittura sanguinetiana viene evidenziato dai consueti segnali deittici – la ripetizione di «c’è» e «ci sta», il riferimento al gesto scopico («pure, se osservi», v. 8; «ma vedo che», v. 11) –, in ossequio al più tradizionale galateo ecfrastico.

La decodificazione degli elementi stratificati nell’ipertesto visivo di Spagnoli viene presentata al lettore in termini dubitativi, con una serie di interrogative («ma perché?», v. 6; «e lancia un sasso?», v. 7; «senti SATISFACTION?», v. 9; «un re / sotto minaccia?», vv. 12-13), come se il poeta volesse avvertire il lettore della pericolosità (e dell’arbitrarietà) di una simile lettura sincronica. Con l’attivazione di queste spie retoriche, Sanguineti suggerisce un carattere sostanzialmente dubitativo insito nell’operazione di decrittare e nel restituire letterariamente i contenuti iconici giustapposti nello spazio, come se le interrogative appartenessero a un manuale di avvertenze per l’uso dell’ecfrasi applicata a immagini dal difficile statuto oggettuale.[21]

Gli oggetti del collage vengono giustapposti, al pari dell’opera di Spagnoli, ma il loro accostamento produce una ‘trama’ narrativa unitaria, quantomeno a livello di sovrapposizioni locali estemporanee – ad esempio, nella scena del giovane che srotola il filo (azione che viene innescata dalla sovrimpressione sul ritaglio disegnativo della linea curva ricalcata a mano sulla velina). La didascalia dello scrittore-osservatore unisce e ‘narrativizza’[22] segmenti separati nel progetto artistico, puntando a rivestire di senso e porre lungo un asse logico-causale elementi a prima vista inconciliabili, per un’automatica necessità di ricostruire una storia plausibile, una parentela verosimile tra singolarità apparentemente non comunicanti. Un ulteriore collante che vincola gli elementi citati in enumerazione caotica è la rigida griglia metrica del sonetto a rima alternata (ABAB), in una dialettica tra aleatorietà dei contenuti e ‘ritorno all’ordine’ stilistico-retorico[23] che caratterizza la stagione senile della produzione sanguinetiana, con esiti rilevanti nella produzione specificatamente ecfrastica per quanto riguarda la dialettica tra contenuti iconografici spesso criptici e difficilmente ordinabili entro un regime di sguardo univoco e un’armonia retorica inappuntabile.[24]

 

3. Fermo in posta (Concetto Pozzati)

1.
cavallo nudo è acefalo vestito:
rinoceronti, cifre, foglie, guanti:
adesso l’intestino mi è infinito:
bersaglio è il mondo e ci blobbeggia incanti:
angeli musicanti, fanti, santi:
 
cavallo nudo è acefalo vestito:
rinoceronti, cifre, foglie, guanti:
 
 Concetto Pozzati, Dal dizionario delle idee ricevute(Ristoria Prioritaria. 163 cartoline non spedite), 2004
adesso l’intestino mi è infinito:
bersaglio è il mondo e ci blobbeggia incanti:
 
 Concetto Pozzati, Dal dizionario delle idee ricevute(Ristoria Prioritaria. 163 cartoline non spedite), 2004
angeli musicanti, fanti, santi:
 
 Concetto Pozzati, Dal dizionario delle idee ricevute(Ristoria Prioritaria. 163 cartoline non spedite), 2004
2
duplice faccia è quasi un francobollo
natura morta con bicchiere in mezzo:
qui la parrucca sostituisce il collo:
la torre con fantasmi fa intermezzo:
lametta taglia ventre, a pezzo a pezzo:
 
duplice faccia è quasi un francobollo:
natura morta con bicchiere in mezzo:
qui la parrucca sostituisce il collo:
 
 Concetto Pozzati, Dal dizionario delle idee ricevute(Ristoria Prioritaria. 163 cartoline non spedite), 2004
la torre con fantasmi fa intermezzo:
lametta taglia ventre, a pezzo a pezzo:
 
 Concetto Pozzati, Dal dizionario delle idee ricevute (Ristoria Prioritaria. 163 cartoline non spedite), 2004

L’artista a cui le didascalie in versi[25] sono dedicate, dopo un primo periodo di formazione a Bologna, si trasferisce a Parigi, coniugando gusto pop e studi di illustrazione pubblicitaria.

I sei componimenti sono stati pubblicati all’interno di Ristoria Prioritaria. 163 cartoline non spedite,[26] intervallati alle opere di Concetto Pozzati. A livello di impaginazione e rapporto parola-immagine nell’architettura editoriale, è assente, tuttavia, qualsiasi criterio di ordinamento e corrispondenza puntuale con i versi del poeta – il quale, invece, per ogni unità versale, regala una minuscola e impertinente ecfrasi riferita a singoli dettagli delle opere qui catalogate. All’interno di ciascuna delle sei sezioni (Dal dizionario delle idee ricevute, Restaurazione, Naturalizzazione, Avevo sei anni, L’impiego del tempo e Il pittore è il burattinaio) è possibile ritrovare il bacino di prelievi visivi relativi alle sei suddivisioni del componimento sanguinetiano.[27] I testi di Fermo in posta, pertanto, si presentano come casi di ecfrasi microscopiche, relative a singole icone replicate e incollate serialmente in numerose cartoline di Pozzati (le cifre matematiche, i francobolli, gli animali), ma rese denotative e ‘su misura’ rispetto a un solo referente attraverso ammiccamenti cromatici, aggettivali o contestuali che rendono l’identificazione univoca e trasparente. Il poeta sembra fare lo slalom tra una serie di collages apparentemente ripetitivi (costruiti sul modulo musicale del ‘tema e variazioni’), salvandosi dal caos dell’indeterminatezza enumerativa attraverso la precisione dello strumento ecfrastico, estremizzato al punto da contenere ad ogni verso l’ecfrasi di una tavola, in una sorta di ipertesto ecfrastico.

Sanguineti sembra importare la tecnica a papier collé applicata da Pozzati al suo procedimento di descrizione ecfrastica, combinando insieme materiali provenienti da fonti figurative differenti e ri-assemblandoli nella struttura organica della poesia – dal momento che ogni componimento viene a contenere cinque ‘mini-ecfrasi’ indipendenti, montate insieme attraverso il calcestruzzo della rima. Come le figurine di carta, replicate in contesti eterogenei e apparentemente casuali, vengono a suggerire narrazioni o corrispondenze a-logiche tra oggetti forzati a coesistere nella stessa cartolina-habitat, allo stesso modo Sanguineti fa convivere in sei unità poetiche elementi tenuti insieme soltanto dall’intelaiatura metrica.

In un’intervista a Renato Barilli del 1964, Pozzati sintetizzava in questi termini il proprio abbandono dell’informale per un ritorno (molto sanguinetiano) a poetiche dell’oggetto:

Vorrei inserirmi dentro a molte di queste [situazioni], dalla nuova riproposta figurale o nuova figurazione […] alla pittura d’oggetto. Nuovo racconto? Relazione, una nuova volontà di oggettivazione? Una pittura che tiene conto di tanti fattori, un inventario, questo più quello, in relazione diretta o indiretta con le cose.[28]

È indubitabile che in questo progetto artistico la coesistenza di icone pop e fotografie vintage costituisca la marca stilistica più evidente, in uno smaccato abuso del citazionismo e dell’ibridazione tra registri stilistici che verrà importata e imitata dalla scrittura sanguinetiana. Il poeta, infatti, accentuerà la coesistenza di elementi eterogenei («natura fa le pere e gli asterischi» III, 1; «rinoceronti, cifre, foglie, guanti» I, 2), in un cortocircuito tra l’impossibilità di far dialogare gli elementi secondo una consecutio logica tradizionale e il ricorso a immagini ‘terroristicamente’ puntuali, assicurando al contempo il massimo di surrealismo e di realismo mimetico. A differenza del precedente esempio, qui l’inventiva del poeta sembra limitarsi alla felice ripresa di referenti pozzatiani che, come nelle cartoline del pittore, non innescano alcuna possibile trama narrativa ma vengono semplicemente giustapposti nello spazio della pagina. La scelta di accorpare una sequenza di microecfrasi versali corrisponde, probabilmente, alla volontà di imitare attraverso la scrittura letteraria l’operazione collagistica dell’artista, in un ritorno a una tipologia di ecfrasi che si propone non soltanto come replica contenutistica ma come emulazione ‘tecnica’ dello stile pittorico.

 

4. Sortilegi (Carol Rama)

Mi faccio bene il mio calcolo, io da me stesso, rosso rosso, seduto sotto gli sforzi agenti. Quelli mi scendono giù a picco, in testa. Sono un dramma di diagramma, dico io, debitamente modificato, appena. Cancello la mezza espansione, anche così immobile come mi resto, ostinato, con un fascio di molle molli, lì tra le mani, che me le succhio, che me le coccolo cullandomele, che sono un amazzone di geomoni rarissimi, con diatomee e protococchi, che sono un niente del tutto. Esco, stanco alquanto, da un giudizio piuttosto universale, congestionato rachitico, ringiovanito ma delinquenziale, probabilmente omicida, specialmente fratricida, ma contestato, e con la mia faccia scoperta, e con i miei due occhi, e con la mia cosa tra i miei testicoli, con un’E che mi fa un’M, come in una corte del cielo. I miei piedi rigoletteschi, penduli, sfiorano il rosone di madreperla contaminata, dilatato, che mi mangia qualunque mio mare verticale. Il paesaggio ha un suo azzurro, che è gonfio di aspirazione. Se te lo guardi da O, è quello il mio fondale, con il vulcano fortemente inattivo, di elevazione media o medio-alta, e con più di un’imbarcazione rocciosa, sedimentata, e di un molo, e di un’escrescenza d’inchiostro o macchia. È tanto tangenziale, però, e nel suo caso, per questa volta, l’espansione è intiera, illibata. È nera. Posso dunque concludere che l’organo rotante costituito da una ruota di una notevole massa, con lo scopo di attenuare le variazioni di velocità che si manifestano nelle macchine alternative, o di accumulare energia nelle macchine operatrici a funzionamento intermittente sia interpretabile come una palla leggerissima, costituita da una mezza sfera di sughero recante infisse alcune penne. Fatto bene il mio calcolo, al quale, del resto, alludevo sul principio, qui ogni parola è sdrucciola. E allora le piene sono quelle dell’uccello vero, che in effetti ha le sue ali aperte spiaccicate, mentre la grande gigantessa equatoriale avrà, lasciando da parte la sua cosa scarlattoide, lebbrosa e lebbrosa, almeno un paio di tubi di scappamento inquinante. È in modo, dunque. Osservata ancora da O, giace distesa sopra una spiaggia pettinata. Se cammina, lo fa soltanto nell’ottica di N. Se no, pilotata dal volatile, mi precipita distesa, lunghissima, con il paletto conoide ligneo da palizzata infilato in bocca, come una tromba muscolare, regolamentata dalla mano sinistra. Così, è a posto. Ma la sua destra non è la sua destra. Mi spiego. Per me, che contemplo il tutto di spalle, gobbetto curvetto, qui a S, il coraciforme ingrandito un numero tot di volte, se non è un ciuffo posticcio, sta dentro il becco. È normale. La donna, comunque, fa fumo, fa smog. Mi sposto a E, molto idealmente, naturalmente, e la protuberanza tenebrosa, potenzialmente stalattitica, finisce che me la disseta a fondo, la mia proiezione creaturale. Certo, codesta ragazzona è piuttosto composita, con quella specie di mammellatura riciclabile, che si porta stretta addosso, ricucita, con affetto, per duplicazione e sovrapposizione. Il ciclo è cielo, comunque, anche se si esibisce come assolutamente pratico. Ma adesso che la caligine mi cresce in me, io, in idea, vedo male. E penso male, poi. Cioè, calcolo male, sempre. In ogni caso, per farla corta, le hanno amputato entrambi gli arti umani, alla negra concupita. Sono stato io, che me la sono mezza ritagliata, stanotte, in questo modo o maniera, un po’. La colorata, propriamente discorrendo, ci sarà forse tricorpore. Perché, concludendo di nuovo, per deduzione, ci sta una femmina (a) la maggiore, la massima, che mi va compatta dalle costole in giù. Nel caso, oso presumere che mi va in su, sempre dalle costole, dalle clavicole, ma è soltanto che il mio mondo, ormai, mi sta capovolto, da adesso. (Voce fuori campo, dall’etere etereo: «Quand tu le replaceras dans sa position ordinaire, tu reparaîtras tel quel la nature t’a formé, ô jeune magicien. Cela, parce que je t’aime et que j’aspire à faire ton bonheur»). – Un silenzio, o due. – Chiamo (c) un insieme che piò comprendere, all’ingrosso, (1) un braccio sinistro, supposto anchilosato, con pronunciata formazione di ansa, (2) una zampa antropologica, disperatamente avvinghiatile alle remiganti terziarie di uno dei 9000 (circa) esemplari tipici collezionatili di vertebrati amniotici omeotermi carenati, privi di denti, come me, (3) una protesi di bacino laterale, con apparato di ghiandole, che qui, momentaneamente, censuro (…). Con (b), potendo, volendo (volando), designo un informe cumulo carneo plasticato, supplementare, non funzionale, vagamente esornativo, in senso mostruoso, fricconesco e fricchettonesco, stile mutanti, Quando rientro in me medesimo, deduco (x) essere le unghie superiori sinistre (da S, normalmente) ritoccate con bianchetti e calci, e (y) due fili di ferro, colore di ruggine antica, ripiegati a U, tendenti a V e W, assunti come connettori chirurgici. Assumo (x) e (y) come incognite notorie. Timbro la carta intelata, cm 110 x 73, e numero l’insieme come 14 (quattordici). (Voce della tropicale: «Allez-y voir vous-même, si vous ne voulez pas me croire. FIN DU CHANT»).


 

Carol Rama, Sortilegi, 1987

 

Un caso ancor più interessante si trova nel racconto sanguinetiano intitolato Sortilegi e confezionato per il catalogo Carol Rama (1989).[29] In questa prosa d’occasione, alla tradizionale presentazione in catalogo, Sanguineti sostituisce una narrazione breve che si costruisce a partire da un disegno omonimo del 1987, perseguendo una relazionalità quasi ‘calcografica’ rispetto al referente iconografico. Senza alcun rimando paratestuale o segnale virgolettato che renda palese la natura intertestuale del testo, nel racconto vengono inserite di peso le scritte che compaiono sul brogliaccio di riuso adottato come sfondo da Carol Rama. Ad esempio, l’intestazione del foglio («calcolo del volano sforzi agenti») viene rielaborata, in prosa, nell’incipit «mi faccio bene il mio calcolo, io, da me, rosso rosso, seduto sotto gli sforzi agenti».[30] Trattandosi di un regesto di calcolo relativo a formule di dinamica applicata, Sanguineti imita un periodare di tipo matematico-deduttivo applicandolo al corpo della donna che occupa la sezione verticale del foglio. Dal momento che il colore è distribuito in misura disomogenea tra le diverse sezioni anatomiche, il poeta immagina che la ragazza sia il risultato di un montaggio «tricorpore», e allestisce un’enumerazione da dimostrazione scientifica: «quando rientro in me medesimo, deduco (x) essere le unghie superiori sinistre (da S, normalmente) ritoccate con bianchetti e calci, e (y) due fili di ferro, colore di ruggine antica, ripiegati a U, tendenti a V e W, assunti come connettori chirurgici. Assumo (x) e (y) come incognite notorie».[31] Il prelievo di materiali lessicali dalla fonte si qualifica come il risultato di un’operazione di iper-filologia visiva mascherata, per cui, ad esempio, la frase «e con la mia cosa tra i miei testicoli, con un’E che mi fa un’M» allude all’affiorare di una lettera E capovolta (e quindi trasformata in M) proprio tra le gambe del protagonista accovacciato – dal momento che il disegno di Carol si era sovrapposto stratigraficamente al foglio di calcolo in parte occultando i termini delle permutazioni. Il narratore interno si identifica con il soggetto accovacciato, introducendo nel meccanismo ecfrastico un osservatore-personaggio parlante che decifra la scena a partire da una posizione preferenziale e attiva. Sanguineti suggerisce un parallelismo tra la postura seduta e malinconica del personaggio e la sagoma di uno dei dannati del Giudizio universale, condensando questo riferimento in un accenno ludico e inserito incidentalmente all’interno di un’enumerazione caotica di attributi («esco, stanco alquanto, da un giudizio piuttosto universale, congestionato rachitico, ringiovanito ma delinquenziale, probabilmente omicida, specialmente fratricida»).

In questo esempio, inoltre, il gioco interlineare con la fonte visiva non è l’unico espediente citazionistico esibito dall’autore, che inserisce all’interno della narrazione-inventario anche un prelievo in francese dai Chants de Maldoror di Lautréamont («Quand tu le replaceras dans sa position ordinaire, tu reparaîtras tel quel la nature t’a formé, ô jeune magicien. Cela, parce que je t’aime et que j’aspire à faire ton bonheur»),[32] che Sanguineti immagina proferito da «una voce fuori campo, dall’etere etereo».[33] Un’altra citazione dai Chants de Maldoror (stavolta dal XVI capitolo) viene adoperata da Sanguineti come chiosa finale e pronunciata da una «voce tropicale» («allez-y voir vous-même, si vous ne voulez pas me croire. FIN DU CHANT»)[34] – formula conclusiva che, peraltro, compare più volte anche nei romanzi di Philippe Sollers,[35] autore del Nouveau Roman che Sanguineti conobbe e frequentò a Parigi. Le brevi indicazioni sceniche sull’avvicendarsi delle voci fuori campo o la didascalia integrata nel testo («–Un silenzio, o due–») sembrano suggerire un’ambientazione teatrale; al termine della rappresentazione scenico-visiva, il protagonista conclude «timbrando la carta intelata, cm 110 x 73» e «numerando l’insieme come 14 (quattordici)», come se, da disegno antropomorfo, passando per personaggio attivo della narrazione, diventasse alla fine artefice della rappresentazione in cui è inserito.

In questa prosa, insomma, il referente artistico non agisce come oggetto specifico e prioritario di riflessione, ma come campo semantico di suggestioni chiamate a intersecarsi e a reagire con l’intorno citazionistico, in quel «catalogo permanente»[36] che rappresenta l’archetipo della poesia sanguinetiana. L’ecfrasi si manifesta qui come uno tra i possibili e alternativi dispositivi citazionistici tramite cui appropriarsi, attraverso il già-detto sedimentato nella cultura del lettore ideale, del mondo.

 

5. Decafoto (Aldo Ponassi)

1.
qui una donna si appoggia la sua mano,
ma il suo pollice è l’ala di un gabbiano:
due parlano al telefono, e un bambino
è lì che aspetta, fermo, in passeggino:
a sinistra due gambe, bene in vista,
le ha fatte, ripiegate, il graffitista:
ha i sandali, nei piedi, la murale,
che, accucciata accosciata, è niente male:
 
Aldo Ponassi, Piazza delle erbe, 1999
2.
lui e lei si sostengono a vicenda,
due statuine, amorose, da leggenda:
l’uomo si tiene il pugno chiuso, stretto:
è come irrigidito, e ha il suo berretto:
ma lei sta curva, è come un nero smalto:
“l’illustrascarpe” io leggo, dietro, in alto:
la gente, intorno, sta immobile e muta:
contempla cosa che le è sconosciuta:
 
Aldo Ponassi, Piazza De Ferrari, 2005
3.
vedo, in Canneto Lungo, una coppietta
di anziane, colloquianti senza fretta:
si fissano, bloccate, lì, sostando:
una, in testa, ha un foulard, stava rientrando:
avrà acquistato gamberi sgusciati:
si svendono, oggi, qui, a prezzi stracciati:
16.000, e non 22.000: per averli avrà fatto la sua fila:
 
Aldo Ponassi, Canneto il Lungo, 1993
4.
sotto il tendono, sulla scalinata,
lì al comizio, la folla si è affollata:
guardano là a sinistra, tutti in piedi:
tu, in prima fila, invece, tu ti siedi:
gli occhi, dietro gli occhiali, affaticato,
li hai chiusi, e ascolti: sei il pensionato:
ci sono frasi che tu hai già sentito:
ma il comunismo, si dice, è finito:
 
Aldo Ponassi, Porto Antico, 1994
5.
forse mi sbaglio, ma forse è rumena
la “sinora”, mi pare: ma serena
è, direi, la bambina: dorme, in mezzo
a una strada, a Loano: sopra un pezzo
di cartone, si chiede una “oferta”,
si dice “grazzie”: ma è semideserta
questa città, a quest’ora: è “militare”,
il marito: e il problema, qui, è “mangiare”:
 
Aldo Ponassi, Loano, 1991
6.
sarà una processione, questa: piove:
c’è una selva di ombrelli che si muove:
sotto un paracqua piccolo e fiorito,
schiacciato in testa, molto colorito,
due bambinelle tutte incappucciate
camminano lì molto appiccicate:
c’è un rosario che pende da una croce:
chi la porta mi guarda, senza voce:
 
Aldo Ponassi, Borgio Verezzi, 1992

 

7.
sta entrando il cardinale, in San Donato:
è quello che, una volta, io ho intervistato,
persino, per la tele vaticana:
parlo di Tettamanzi, ma è lontana
quella faccenda, ormai: lui sta a Milano:
peccato, era un cristiano molto umano!
cristiani umani non li trovi più:
poveri noi! e povero il Gesù!
 
Aldo Ponassi, Chiesa di San Donato (Cardinale Tettamanzi), 1996

 

8.
sono in quattro, seduti a un tavolino:
sulla tovaglia ci sta un accendino,
ci sta una penna, ci sta un portacenere:
tabacco, sì, ma non bacco, no venere:
qui due giuocano a carte, ma due no:
tutti hanno in testa un cappello, però:
guarda che vene forti, nelle mani!
guarda che sguardi, tanto intensi e strani!
 
Aldo Ponassi, Genova. Partita a carte, 1991

 

9.
sopra uno scoglio piatto, cauto e lento,
viene avanti un bagnante corpulento:
è mezzo calvo, ma sta palestrato:
lo scoglio sta fortemente inclinato:
il bagnante sta in slip, ma porta al collo
una collana: e un altro, frollo e mollo,
legge, seduto, un giornale: ma, al fianco,
si tiene una ragazza, anche se è stanco:
 
Aldo Ponassi, Liguria, 1988

 

10.
se guardi, sopra, il ragazzo che salta,
vedi le gambe, appena; e così, alta
vola la sua figura, si può dire,
tra due panchine: ma se vuoi capire
la scena, guarda giù, che capovolta
sta l’immagine, e allora, questa volta,
in un laghetto d’acqua, a specchio, riesce
tutto chiaro: e il ragazzo è come un pesce:
 
Aldo Ponassi, Porto Antico, 1993

 

L’inserimento, all’interno di Varie ed eventuali,[37] di una collaborazione artistica con un fotografo potrebbe richiedere, forse, alcune specificazioni sulla legittimità di applicare l’etichetta di ecfrasi a descrizioni estranee ai campi convenzionali della pittura e della scultura.[38] Varcata la soglia degli anni Duemila, tuttavia, non sembra più pertinente un simile dibattito gerarchizzante, e anzi l’aggiornamento in chiave tecnologica di un genere retorico viene felicemente esibito dal poeta, che adopera e manipola gli scatti di Aldo Ponassi esattamente ‘come se’ si trovasse di fronte a un quadro.

Sanguineti stesso, in un’intervista del 1998, accennava all’ormai consolidato accesso della fotografia nelle sale di esposizione museale, asserendo che

 

sempre più spesso mi capita, girando i musei e le grandi mostre, di trovare ingrandita la sezione dedicata alla fotografia come forma d’arte, e ormai in un museo si trovano con estrema frequenza esposizioni dedicate a fotografi, spesso con risultati straordinari.[39]

 

L’eccentricità di questa collaborazione intermediale risiede nel fatto di non identificarsi propriamente con il genere del fototesto[40] – come saremmo portati a pensare, trovandoci di fronte a materiali fotografici e non, come nei casi precedentemente esaminati, a pitture o sculture visualizzate attraverso il medium fotografico –, ma di applicare gli strumenti dell’ecfrasi tradizionale alla fotografia. Pertanto, non si tratta di un esempio standard di fototesto, in cui lo sviluppo della trama nasce dalla sinergia tra testo e immagine, ma di una forma di poesia nata per accompagnare un catalogo fotografico.

Tra le tecniche caratterizzanti della scrittura ecfrastica, si ritrovano, ad esempio l’uso insistito della deissi spaziale e temporale («un bambino / è che aspetta», I, 3-4; «si svendono, oggi, qui», III, 6; «questa città a quest’ora», V, 7; i corsivi sono miei),[41] il ricorso a verba videndi o a determinazioni puntuali di luogo («a sinistra, due gambe», I, 5; «io leggo dietro, in alto», II, 5; «vedo, in Canneto Lungo», III, 1; «guardano là a sinistra», IV, 3).

Il quarto componimento inventa una cornice esplicativa a una scena che si presentava all’osservatore come una semplice inquadratura in cui, a una folla di persone in piedi, si contrapponeva un anziano seduto, il cui sguardo rivolto al pavimento contrastava con gli occhi della platea puntati verso il luogo in cui era plausibilmente collocato il palco o l’evento fuori scena. Sanguineti costruisce una trama narrativa ipotizzando un comizio politico e spiegando il gesto dell’anziano come simbolo di una stanchezza ideologica nell’ascoltare «frasi che tu hai già sentito» (v. 7), in una drammatizzazione verosimile ma arbitraria della scena – la cui didascalia di accompagnamento recitava soltanto «Genova 1994, Porto Antico».

In alcuni testi si registra l’ingresso dell’io poetico all’interno della scena, in quanto soggetto dotato di un proprio vissuto personale che viene attivato dal contenuto iconografico delle istantanee. Nella settima poesia, ad esempio, il narratore-osservatore racconta un aneddoto autobiografico (un’intervista al cardinale Tettamanzi), sovrapponendo perentoriamente il proprio sguardo interpretativo allo scatto fotografico, in una poesia che rinuncia alla descrizione puntuale per deviare verso temi generali legati alla figura storica e cronachista del personaggio centrale («lui sta a Milano: / peccato, era un cristiano molto umano», vv. 7-8).

Il dinamismo dell’azione viene ottenuto facendo interagire elementi eterogenei della fotografia e mettendo in relazione oggetti e situazioni che, pur coesistendo nell’ambiente ritagliato dall’inquadratura, non dialogavano necessariamente ed esplicitamente nella fissità temporale della scena. A proposito di questa intromissione della categoria temporale e diacronica, nella terza poesia il contenuto della borsa portata da una delle due «anziane colloquianti» (v. 2) viene fantasiosamente dedotto dai cartelloni pubblicitari appesi al muro della pescheria («avrà acquistato gamberi sgusciati: / qui si vendono, oggi, a prezzi stracciati: / 16.000 e non 22.000», vv. 6-8), in una ricreazione automatica e meccanica delle azioni a partire dalla staticità di un istante temporale di cui vengono dedotti il prima e il dopo («una, in testa, ha un foulard, stava rientrando», v. 4; «per averli avrà fatto la sua fila», v. 9), desunti induttivamente dallo sguardo soggettivo dell’osservatore.

Risulta interessante leggere un passaggio di un contributo sanguinetiano intitolato Ma com’è fotogenica la realtà… anche troppo, in cui il poeta riassume il passaggio dalla posa all’istantanea fotografica nei termini di un inserimento «nello spazio dell’immagine della categoria di tempo»; l’immissione di una diacronia comporta un ripensamento sullo statuto generale dell’immagine fotografica, che perde la sua aura apparente di neutralità rivelando che la realtà stessa «è sempre in posa», non si pone mai in modo ‘naturale’ di fronte all’osservatore-decifratore. Quando ogni velleità documentaria, pertanto, diventa un artificio, una falsificazione,

 

Di fronte all’essere perennemente in posa della realtà, di fronte alla sua essenziale fotogenia, l’istantanea può parlare in termini di poesia documentaria, assai prima e assai meglio che di verità documentaria. L’umanesimo fotografico, in breve, si sposta integralmente sul versante dell’interpretazione del documento, e insomma dall’occhio del fotografo allo sguardo dell’osservatore del prodotto. La forza della fotografia è nel fatto che non scriviamo noi, con la luce, ma che la luce scrive, e che noi possiamo tentare di leggere il testo che ci esibisce. Chi abbia poi in orrore, comunque il rischio di una riduzione documentaria, può confortarsi con il pensiero che permane, e diventa dominante, un’analogia primaria con un tratto pittoricamente primario, che è l’immaginare immagini, dotabili di senso, sopra le forme delle nuvole, le macchie sopra i muri, le tavole di Rorschach. Se oggi possiamo proclamare che ogni testo è un test, è perché, in fondo, la fotografia ce lo ha insegnato.[42]

 

Oltre alla categoria di tempo e alla scoperta della falsificazione connaturata al reale, l’adozione dell’istantanea implica che il ‘testo fotografico’ si apra a un’interpretazione non più direzionata dall’inquadratura arbitraria del fotografo, ma che richiede una cooperazione attiva da parte del pubblico per attribuire un senso a immagini altrimenti scarsamente denotative.

Sanguineti dimostra qui, vestendo i panni dell’osservatore, come gli elementi di un’inquadratura fotografica possano essere «dotati di senso» grazie a una lettura equiparabile a quella dei pazienti cui vengono somministrati i test di appercezione tematica. Il parallelismo tra decifrazione di una poesia e interpretazione delle tavole di Rorschach rappresenta un Leitmotiv ricorrente all’interno delle dichiarazioni teoriche di Sanguineti, a denunciare l’esplicito legame con la dimensione inconscia e l’assunzione dell’onirico come «problema di linguaggio» finalizzato ad ampliare le modalità (cognitive e narrative) di accedere al reale.[43] In questa digressione sul messaggio fotografico, Sanguineti ribadisce l’importanza delle proiezioni subcoscienti nell’interpretazione di qualsiasi sistema segnico,[44] giacché ogni codice risulta «dotabile di senso» da parte di un osservatore-bricoleur, a sottolineare ulteriormente l’ipocrisia di una presunta naturalità dello sguardo, in una imprevedibile alleanza elettiva tra ecfrasi e psicanalisi nella decifrazione di un inconscio (patologico o visivo) depositato nella memoria collettiva dei lettori-osservatori. Un «corto circuito tra surrealismo e iperrealismo»,[45] insomma, di cui la scrittura ecfrastica diventa medium e dispositivo stilistico privilegiato per osservare (e trascrivere millimetricamente) il mondo e i suoi simulacri.

 

 


1 Si vedano, a questo proposito, le importanti considerazioni di M. Baxandall, Forme dell’intenzione. Sulla spiegazione storia delle opere d’arte, Torino, Einaudi, 2000.

2 J. Hollander, The Gazer’s Spirit: Poems Speaking to Silent Works of Art, Chicago, University of Chicago Press, 1995.

3 Sull’aspetto letterario e ‘mentale’ delle immagini mariniane, cfr. ad esempio F. Guardiani, L’idea dell’immagine nella Galeria di G. B. Marino, in A. Franceschetti (a cura di), Letteratura italiana e arti figurative, Firenze, Leo S. Olschki, 1985, II, pp. 647-654. Per quanto riguarda la definizione di «notional ekphrasis» a proposito della scrittura mariniana, si veda il saggio di V. Surliuga, ‘La Galeria di Marino tra pittura e poesia’, Quaderni di italianistica, 1, 2002, pp. 65-84.

4 R. Barthes, L’ovvio e l’ottuso, Torino, Einaudi, 1985, p. 9. Cfr. anche P. Bourdieu, La fotografia. Usi e funzioni sociali di un’arte media [1965], Rimini, Guaraldi, 1972; A. Pinotti, A. Somaini, Cultura visuale. Immagini sguardi media dispositivi, Torino, Einaudi, 2016.

5 C. Clüver, Ekphrasis Reconsidered. On Verbal Representations of Non-Verbal Texts, in U. B. Lagerroth, H. Lund, E. Hedling (edited by), Interart Poetics. Essays on the Interrelations of the Arts and Media, Amsterdam-Atlanta, Rodopi, 1997, pp. 18-33: 21.

6 Come asserisce Michele Cometa a proposito del genere del fototesto, il nuovo formato del libro a stampa «ha costruito una sintassi completamente originale per quel che riguarda i rapporti tra unità testuali e unità visuali (relazione tra testo e immagine: contiguità, nessuna relazione, libera associazione, etc.)» (M. Cometa, ‘Forme e retoriche del fototesto letterario’, in M. Cometa, R. Coglitore (a cura di), Fototesti. Letteratura e cultura visuale, Macerata, Quodlibet, 2016, pp. 63-101: 83). Sulla dialettica tra scrittura e istantanea fotografica, segnalo anche i seguenti contributi, che verificano gli assunti teorici relativi al genere del fototesto attraverso l’analisi puntuale di una campionatura di testi contemporanei: S. Albertazzi, F. Amigoni (a cura di), Guardare oltre. Letteratura, fotografia e altri territori, Roma, Meltemi, 2008; S. Albertazzi, Il nulla, quasi. Foto di famiglia e istantanee amatoriali nella letteratura contemporanea, Firenze, Le Lettere, 2010.

7 Si veda in particolare il saggio più canonico per la definizione: G. Cohen-Séat, Problèmes actuels du cinéma et de l’information visuelle, Paris, Les presses universitaires de France, 1959.

8 Michele Cometa ha parlato efficacemente di una vocazione cinematografica dell’ecfrasi antecedente all’invenzione tecnica del cinematografo, proprio per quanto riguarda la «dinamizzazione delle immagini» – l’operazione di attribuire a un’immagine fissa uno statuto spazio-temporale e una storia che ecceda la durata e la stasi narrativa cui è normalmente destinata qualsiasi scena cristallizzata in un oggetto plastico. In questo senso, il meccanismo ecfrastico avrebbe subito «un improvviso inveramento dopo l’invenzione dei dispositivi mediali che fondano il loro effetto sulla persistenza retinica (afterimage)», ossia sul fatto di poter accogliere entro il proprio spettro il prima e il dopo di qualsiasi immagine (M. Cometa, La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale, Milano, Raffaello Cortina, 2012, p. 45).

9 Per le definizioni di image e picture, rimando a W. J. T. Mitchell, Picture Theory: Essays on Verbal and Visual Representation, Chicago, The University of Chicago, 1994, p. 89.

10 Dal titolo di un omonimo paragrafo del saggio di P. Conte, In carne e cera: estetica e fenomenologia dell’iperrealismo, Macerata, Quodlibet, 2014.

11 Per un inquadramento generale dell’iperrealismo americano nel contesto artistico e storiografico di emersione del fenomeno, cfr. almeno L. Cempellin, L’iperrealismo «fotografico» americano in pittura. Risonanze storiche nella East e nella West Coast, Padova, CLEUP, 2004; L. Chase, Hyperrealism, New York, Rizzoli, 1975.

12 T. Lisa, Pretesti ecfrastici. Edoardo Sanguineti e alcuni artisti italiani, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2004, p. 22.

13 Ivi, p. 175.

14 Ivi, p. 114.

15 La casistica proposta all’interno di questo articolo è parziale e non tiene volutamente conto di due raccolte centrali per il discorso ecfrastico – la silloge intitolata significativamente Ecfrasi (a proposito della quale mi permetto di rimandare a C. Portesine, ‘Un barocco novissimo: la «forma-galeria» nella produzione poetica della Neoavanguardia’, in A. Torre, M. Pacini (a cura di), Parola all’immagine. Esperienze dell’ecfrasi da Petrarca a Marino, Lucca, Fazzi Editore, 2019, pp. 249-265; specialmente al paragrafo 4.2 dedicato alla raccolta Ecfrasi, pp. 258-261) e, in generale, la produzione Fuori catalogo, che è stata esaminata approfonditamente dal poderoso saggio di L. Weber, Usando gli utensili di utopia. Traduzione, parodia e riscrittura in Edoardo Sanguineti, Bologna, Gedit, 2004 (in particolare, la prima sezione intitolata Il Fuori catalogo alle origini del nuovo corso, pp. 17-128). Un’analisi approfondita di questi due capisaldi del percorso sanguinetiano avrebbe necessitato di un’introduzione preliminare rivolta ai rapporti tra unità e macrotesto – con un esame puntuale del contesto di pubblicazione dei singoli componimenti e del travaso a posteriori all’interno della raccolta –, comportando una digressione troppo ampia rispetto al taglio generale scelto per questa sede.

16 E. Sanguineti, Varie ed eventuali. Poesie 1995-2010, Milano, Feltrinelli, 2010, pp. 58-59.

17 In L. Mengoni, La circolazione della linfa, Locarno, Armando Dadò, 2006; le pagine non presentano numerazione.

18 Ringrazio l’artista Luca Mengoni per le precisazioni relative alla genesi del progetto e per le preziose informazioni.

19 E. Sanguineti, Varie ed eventuali, p. 128.

20 S. Spagnoli, Nelle felici stanze. Piccola antologia personale, Milano, Mazzotta, 2007, p. 8.

21 A questo proposito, è interessante segnalare alcuni saggi relativi all’appropriazione di contenuti non figurativi (e anti-referenziali) dell’arte astratta da parte della scrittura ecfrastica: C. Clüver, ‘A New Look on an Old Topic: Ekphrasis Revisited’, Todas as Letras: Revista de Língua e Literatura, XIX, 1, 2017, pp. 30-44; R. Webb, ‘Ekphrasis ancient and modern: The invention of a genre’, Word&Image, XV, 1, 2012, pp. 7-18.

22 Per la dialettica tra descrizione e narrazione nella tecnica ecfrastica, cfr. J. A. Heffernan, Museum of words. The Poetics of Ekphrasis from Homer to Ashbery, Chicago, The University of Chicago Press, 1992. Per la proposta di ulteriori tipologie di movimenti dello sguardo ecfrastico e di narrativizzazione delle immagini, si veda anche M. Cometa, La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale, in particolare pp. 85-145.

23 Sull’operazione complessiva di recupero della forma-sonetto nella poesia contemporanea, si veda N. Tonelli, Aspetti del sonetto contemporaneo, Pisa, ETS, 2000 e il più recente F. Magro, A. Soldani, Il sonetto italiano. Dalle origini a oggi, Roma, Carocci, 2017. Per quanto riguarda, invece, un’analisi dell’originale e trasgressiva metrica sanguinetiana, nel suo dialogo citazionistico e aperto con il codice tradizionale, si veda L. Weber, Usando gli utensili di utopia (in particolare, il paragrafo dedicato al Recupero del sonetto, pp. 96-100).

24 Tra gli esempi inventariabili nel terzo tempo della produzione sanguinetiana, segnalo i Cinque semisonetti per Antonio Bueno (E. Sanguineti, Il gatto lupesco. Poesie 1982-2001, Milano, Feltrinelli, pp. 466-467), Sestina per Eugenio Bolley (ivi, p. 332), e Quintine per Salvatore Palladio (ivi, pp. 153-155) – che enfatizzano, fin dal titolo, l’importanza dell’intelaiatura metrica.

25 E. Sanguineti, Varie ed eventuali, pp. 49-50.

26 C. Pozzati, Ristoria Prioritaria. 163 cartoline non spedite, Pontedera, Bandecchi & Vivaldi, 2004.

27 Segnalo in nota i riferimenti biunivoci tra le sezioni del catalogo pozzatiano e l’incipit dei componimeni di Sanguineti: Dal dizionario delle idee ricevute – n. 1, «cavallo nudo è acefalo vestito»; Restaurazione – n. 2, «duplice faccia è quasi un francobollo»; Naturalizzazione – n. 3, «natura fa le pere e gli asterischi»; Avevo sei anni – n. 4, «quando avevo sei anni, che talento!»; L’impiego del tempo – n. 5, «quello è un campione che è senza valore»; Il pittore è il burattinaio – n. 6, «guardali qua, questi rozzi pupazzi».

28 ‘Concetto Pozzati intervistato da Renato Barilli’, Marcatrè, II, 7, 1974, pp. 145-146: 145 (corsivi miei).

29 P. Fossati (a cura di), Carol Rama, Torino, Circolo degli artisti, Umberto Allemandi, 1989. Il racconto non risulta pubblicato in altre sedi editoriali, e non è incluso nella raccolta Smorfie. Romanzi e racconti.

30 Cito il testo da E. Sanguineti, Carol Rama, Torino, Franco Masoero, 2002, p. 49; i corsivi sono miei. Segnalo in nota le ulteriori corrispondenze linguistiche tra sintagmi che compaiono nel disegno e rielaborazioni narrative della prosa sanguinetiana. La frase «diagramma degli sforzi tangenziali» (collocata nella sezione blu del disegno) viene così riformulata nel racconto: «Sono un dramma di diagramma […] è tanto tangenziale» (ibidem); analogamente, le scritte che compaiono in corsivo sul lato destro del disegno (vicino alle gambe della figura femminile) – «cielo pratico del motore», «espansione» e «compressione» – si ritrovano nel testo sanguinetiano in questi termini: «cancello la mezza espansione […]. Il ciclo è cielo, comunque, anche se si esibisce come assolutamente pratico» (ivi, p. 51).

31 Ivi, p. 51.

32 Lautréamont, Chants de Maldoror, Paris, E. Wittmann, 1874, p. 40; il testo è stato digitalizzato dalla Bibliothèque Nationale de France all’indirizzo: https://fr.wikisource.org/wiki/Livre:Lautreamont_-_Chants_de_Maldoror.djvu [accessed 20 August 2019].

33 E. Sanguineti, Carol Rama, p. 51.

34 Lautréamont, Chants de Maldoror, p. 332.

35 La citazione compare, infatti, in Trésor d’amour (2011) e Un vrai roman (2013).

36 E. Sanguineti, Segnalibro. Poesie 1951-1981, Milano, Feltrinelli, 1982, p. 39.

37 E. Sanguineti, Varie ed eventuali, pp. 70-73.

38 Già Cecilia Bello Minciacchi aveva adottato l’etichetta di ékphrasis per Decafoto, in un breve saggio dedicato alla raccolta Varie ed eventuali («e poi nitidissime èkphrasis di immagini in Decafoto, istantanee di vita quotidiana che colgono con gran finezza gesti e spaccati sociali in tempi e ambienti diversi», C. Bello Minciacchi, ‘«Omnibus usu». Su Varie ed eventuali di Sanguineti’, il verri, XLV, 2011, pp. 156-159: 158).

39 Cit. in T. Lisa, Pretesti ecfrastici, p. 54.

40 Sul problema del fototesto, segnalo alcuni studi aggiornati e recenti di G. Carrara, ‘Per una fenomenologia dell’iconotesto narrativo ipercontemporaneo’, Comparatismi, II, 2017, pp. 27-55; Id., ‘Les origines du dispositif photo-littéraire: 1840-1903’, Trans-. Revue de littérature générale et comparée, XXIV, 2019, pp. 1-23.

41 A questo proposito, cfr. E. Ò’Cealláchain, ‘From ‘Worldwatching’ to ‘Remixing’: Sanguineti’s Varie ed eventuali’, Neophilologus, I, 98, 2013, pp. 95-110: 103.

42 Cit. in C. Marra, Le idee della fotografia. La riflessione teorica dagli anni sessanta a oggi, Milano, Mondadori, 2001, pp. 304-305.

43 G. Galletta (a cura di), Colloquio con Edoardo Sanguineti, Genova, il melangolo, 2005, p. 184.

44 Del resto, il titolo stesso di una raccolta sanguinetiana, T.A.T., prende a prestito dalla psicoanalisi una sigla per indicare il Test di appercezione tematica, adoperato dai terapeuti per le indagini sulla personalità, al pari delle più famose tavole di Rorschach. Sanguineti stesso suggerisce, in un resoconto sull’Esperienza dei Novissimi, un parallelismo tra componimenti lirici e tavole dei test psicologici proiettivi, asserendo che «le parole hanno la singolare virtù [...] di funzionare pur sempre, anche valutate a livello minimo, e cioè in condizioni di asintassìa furibonda, come le troppo celebri tavole di Rorschach, dove ogni spettatore ci vede quel che ci sogna sopra» (E. Sanguineti, Ideologia e linguaggio, Milano, Feltrinelli, 2001, p. 98). Come le parole giustapposte sulla pagina in uno stato di «asintassìa furibonda» possono funzionare nei termini di nuclei attivatori dell’onirico, analogamente (e forse ancor di più) le immagini innescano associazioni alogiche immediatamente convertibili, attraverso il lessico dell’ecfrasi, in ipotesi di senso o congetture sulla decifrazione di contenuti iconografici di significato non trasparente e univoco, come quelli inventariati nella casistica precedente. In entrambi i casi si tratta di operazioni di traduzione e di transcodificazione dal momento che, come ci ricorda Sanguineti, l’onirico è a tutti gli effetti «un problema di linguaggio» (F. Gambaro, Colloquio con Edoardo Sanguineti. Quarant’anni di cultura italiana attraverso i ricordi di un poeta intellettuale, Milano, Anabasi, 1933, p. 84). Oltre a questa forma di decifrazione rorschachiana del testo poetico, Sanguineti metterà in campo un’altra forma di decrittazione extraletteraria dell’immagine, presa a prestito dal mondo dell’enigmistica e inaugurata dalla raccolta Rebus (1984-1987). Questa tecnica, che implicherà un rinnovamento strategico dello sguardo sulle opere d’arte, verrà sistematizzata all’interno di numerosi saggi programmatici, diventando un ingrediente centrale dello stile ‘comico’ dell’ultimo Sanguineti. A questo proposito si veda l’articolo di E. Sanguineti, ‘Enigmistica pedagogica’, Secolo XIX, 21 maggio 1982; oppure, su temi analoghi, ‘L’enigma di massa’, l’Unità, 26 aprile 1981).

45E. Sanguineti, ‘Questo è questo’, in Id., Cultura e realtà, Milano, Feltrinelli, 2010, pp. 240-249: 241.

 

 

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