1. «Prima la donna»
Ella ci ha rivelato una poesia che ignoravamo – la poesia delle vesti – ella ci è apparsa come il prodotto tragico e vittorioso di un secolare lavorìo di selezione e di raffinamento, ella è insomma la nostra modernità, la donna del nostro tempo.
Entriamo subito nel cuore della recensione: la mostra Lyda Borelli primadonna del Novecento, attualmente in corso presso la Galleria di Palazzo Cini a Venezia (chiuderà i battenti tra pochissimo, il 15 novembre), merita di essere visitata perché ci restituisce il profilo di una donna e di una artista del «nostro tempo», che non è solo quello dei primi anni Dieci del secolo scorso, secondo quanto ricorda Mario Carli nella citazione in esergo tratta da una dedica presente nel romanzo Retroscena del 1915, ma è anche quello del nostro presente, ovvero degli anni Dieci del nuovo secolo. Certo l’immagine e la fama di Lyda Borelli sono indissolubilmente legate all’Italia che si preparava e poi affrontava la Grande Guerra, che era attraversata da sussulti modernisti e iniziava a conoscere grandi trasformazioni negli stili di vita, nell’organizzazione urbana, nelle manifestazioni artistiche. Si tratta tuttavia di aspetti che altre mostre e altri libri si sono già presi il compito di rammentare in precedenti circostanze.
Il merito della personale curata da Maria Ida Biggi, e fortemente voluta dall’Istituto per il Teatro e per il Melodramma della Fondazione Giorgio Cini, è invece quello di aver cercato di compiere un passo in avanti, valorizzando gli aspetti della vita dell’attrice spezzina che parlano anche agli spettatori e alle spettatrici di oggi. Già conoscevamo Borelli per essere stata la più celebre Salomè dei palcoscenici italiani e, forse ancor di più, per essere stata, con Francesca Bertini ed Eleonora Duse, una delle più famose dive del cinema muto internazionale; l’allestimento della Galleria di Palazzo Cini ci restituisce invece una donna a tutto tondo, dove accanto a preziosi materiali dell’epoca che ne documentano il successo professionale (stampe, locandine, recensioni, fotografie di scena) ne emergono altri, altrettanto eterogenei (quadri, costumi, fotografie, vetrini, sculture e molto altro), che esaltano invece la sua straordinaria consapevolezza, contemporanea appunto, nei modi di essere e di apparire, nelle condotte sociali da adottare e nelle passioni da coltivare, fuori e dentro i teatri di posa o i palcoscenici teatrali.
In tale direzione il sottotitolo dell’esibizione appare particolarmente appropriato per la stratificazione di senso che offre il termine «primadonna», specie se associato al profilo di Borelli: «primadonna» in quanto prim’attrice di diverse compagnie teatrali (in modo particolare per la Drammatica Compagnia Sociale di Virgilio Talli, per la Compagnia Italiana Gandusio-Borelli-Piperno, per la Compagnia Ruggero Ruggeri e infine per la Fert diretta da Ermete Novelli); «primadonna» in quanto capace di attirare l’attenzione su di sé per voluttà, «capricci» o abilità nel conquistare uomini (si vedano a tal proposito i ruoli di femme fatale interpretati al cinema in film come La donna nuda, 1914, Fior di male, 1914, Malombra, 1917, tutti firmati da Carmine Gallone o Rapsodia satanica di Nino Oxilia, anch’esso del 1917); «primadonna» soprattutto nel senso di «prima la donna», secondo un’accezione che antepone all’artista e alla professionista, all’interprete e all’attrice, la sensibilità e la presenza del femminile, anticipando caratteri culturali e identitari che ora non esiteremmo a definire «femministi».
2. Volevo i pantaloni
La mia persona ha un po’ corso il pericolo della Pianella dannunziana: morire artisticamente sotto una metaforica pioggia di rose. Ma io ho sempre tentato di sottrarmi a questa morte profumata che ha cercato di sedurmi con una réclame smodata alle mie toilettes e con una sottile e talvolta impertinente fisiologia dei miei connotati fisici. La mia modestia può giungere sino alla protesta, non sino alla smentita. Ma questa protesta io l’ho sempre che ho potuto affidata all’arte che amo, alla quale dedico ogni mia forza, ogni mio studio, ogni energia della volontà e dell’ingegno. E credo ormai di aver persuaso la gente di buona fede che per me il teatro è una fonte di gioia spirituale, di ardua identità creativa e non una vetrina.
Si diceva che la mostra su Lyda Borelli ci consegna il profilo di una donna complessa, sfaccettata, risoluta. La citazione tratta da L’arte muta – più precisamente dal primo numero del 1916 ora ristampato tra i documenti di lettura del volume Le dive italiane del cinema muto scritto da Cristina Jandelli per L'Epos – basterebbe da sola a confermare quest’impressione. Al netto della retorica che richiede qualsiasi pubblica rappresentazione del sé, le parole scritte in prima persona dall’attrice colgono un atteggiamento di pervicace consapevolezza e una prontezza di spirito inedita per il suo tempo, tali da consentirle di non lasciarsi incasellare in ruoli codificati. D’altronde, se non può essere definita ancora una «società dello spettacolo» nel senso di Debord, l’Italia a cavallo tra gli anni Zero e i Dieci del Novecento è già capace di attivare alcuni meccanismi intermediali che tendono a «sovraesporre» l’immagine di artisti e letterati come Duse, D’Annunzio e la stessa Borelli, rendendo difficile conciliare l’iconografia divistica pubblica con la vita e i desideri del privato. Da questo punto di vista Lyda pare però muoversi con sorprendente equilibrio in un panorama artistico e intellettuale del quale si sente sì partecipe e integrata, ma anche distante o meglio sufficientemente libera per violarne regole e attese sociali, almeno fino al suo prematuro addio delle scene all’indomani del matrimonio con Vittorio Cini.
Il percorso espositivo veneziano conferma quanto vado dicendo, mettendo in contatto il visitatore con una Borelli che carteggia con alcuni illustri esponenti della cultura dell’epoca (tra cui ricordo almeno Roberto Bracco, Gabriele D’Annunzio, Fausto Maria Martini, Ada Negri, Enrico Prampolini, Marco Praga, Matilde Serao, Renato Simoni, Arturo Toscanini) oppure con una Borelli che diviene oggetto di ammirazione tanto per artisti «futuristi» come Boccioni quanto per altri «decadenti» come Gozzano, incarnando così sia la promessa di cambiamento del modernismo, sia la piacevole nostalgia del crepuscolarismo; o ancora con una Borelli icona di stile, ma anche brand da apporre su piccoli oggetti di poco conto come francobolli, caricature e carte da gioco; e dulcis in fundo con una Borelli che abbandona appena può le quattro mura dei teatri o degli studios per godere dell’ebbrezza della velocità (era appassionata di automobili e persino di traversate aeree) o per sperimentarsi fotografa amatoriale, in particolare durante le sue lunghe tournée all’estero.
Tuttavia, se dovessimo scegliere un solo tipo di documento presentato a Palazzo Cini capace di restituire questa ricchezza polisemantica incarnata da Borelli, probabilmente bisognerebbe individuarlo nella serie di ritratti che il fotografo Mario Nunes Vais dedica all’attrice nel corso degli anni Dieci e in particolare nelle stampe che la immortalano mentre indossa la prima forma di pantalone femminile, la jupe-culotte. Come sa chi si occupa di storia del costume, le gonne-pantalone introdotte prima in Francia a inizio secolo (ne parla Benjamin nei suoi Passages dedicati alla moda parigina), poi in Italia qualche anno dopo, destarono grande scalpore nell’opinione pubblica. Borelli li indossa fuori dalle scene, in momenti mondani o durante servizi fotografici, sollevando un vespaio di polemiche, persino in alcuni articoli comparsi nelle prime pagine dei quotidiani nazionali. E tuttavia, la scelta di vestire abiti così inusuali suggerisce non solo la capacità della «primadonna» di andare controcorrente o di cercare di imporre un proprio stile di abbigliamento trasgressivo, ma anche la volontà di muoversi con maggior agio dentro il proprio tempo, senza costringersi in pesanti fardelli e nei sette veli di una iconografia femminile tradizionale.
3. «Mai in ombra»
Attraverso un caso esemplare [quello di Lyda Borelli, ndr] vorrei mettere in luce quanto l’immagine della diva del cinema italiano degli anni Dieci del Novecento debba non solo al teatro, ma anche alla pittura e alla fotografia. Un caso d’intertestualità, anzi d’intervisualità, il termine lanciato dallo storico dell’arte Nicholas Mirzoeff, considerato uno dei principali esponenti del nuovo terreno di studio dei Visual Culture Studies.
Qualche anno fa Ivo Blom, in un saggio intitolato eloquentemente Lyda Borelli e la nascita del glamour. Dal teatro, via pittura e fotografia, al cinema, offriva la migliore chiave di lettura per interpretare e apprezzare (anche) la mostra veneziana.
Partendo dal cortocircuito di senso che si creava in una fotografia intitolata Nello studio del pittore e firmata da Emilio Sommariva, Bloom evidenziava come la fama di una diva del teatro e del cinema dipendesse non solo dalla propria bravura o dall’eccellenza raggiunta in una particolare arte, ma anche da una capacità di presidiare, capillarmente, tutti i sistemi espressivi e i dispositivi mediali a disposizione, producendo discorsività diffusa all’interno di un’efficace ed ampia rete intertestuale e ‘intervisuale’.
Nel lavoro di Sommariva convivono e si arricchiscono vicendevolmente diversi modi di rappresentazione: fotografia, pittura, letteratura e, ovviamente, teatro e cinema. Lo scatto, ambientato nello studio di Cesare Tallone, immortala infatti la seguente situazione: sulla destra vediamo il pittore mentre conclude il ritratto di una donna collocata al centro dell’immagine, nella medesima posa del quadro, fasciata da un vestito sfarzoso e collocata sopra un piedistallo; sulla sinistra ci sono altri due quadri, sempre firmati da Tallone, il primo che ritrae Lina Cavalieri, considerata in quel periodo la donna più bella del mondo, e il secondo che ritrae Ettore Baldini, co-fondatore della casa editrice Baldini & Castoldi. Naturalmente la donna dipinta da Tallone e due volte catturata dalla foto di Sommariva è Lyda Borelli, a quel tempo – siamo nel 1911 – già tra le più note attrici teatrali italiane.
Senza aver lo spazio per ripercorrere l’esaustivo studio di Blom, né i saggi altrettanto puntuali presenti nel catalogo della mostra, a cura di Maria Ida Biggi e Marianna Zannoni, a cui rimando per ulteriori approfondimenti, mi limito a confermare che la fotografia appena descritta rende emblematica l’ ‘intervisualità’ di Borelli per il semplice fatto che l’attrice è contemporaneamente protagonista della fotografia di Sommariva, del dipinto di Tallone, nonché della «vita vera» (perché situata in carne ed ossa e su un piedistallo nello studio dello stesso pittore), in una moltiplicazione della sua immagine divistica che fa il paio con la sua capacità di essere primadonna nel teatro, nel cinema e nei giornali. In altre parole, tutti i sistemi espressivi qui convocati (letteratura, fotografia, cinema, teatro, pittura, scultura, moda, arti applicate) partecipano, come in una danza di matissiana memoria, a un circolo di discorsi e di immaginari che vedono al centro la figura della nostra eroina. Parafrasando altrimenti, si potrebbe dire che Borelli si accorge di essere o diventare agli occhi del mondo uno dei primi personaggi a dover gestire una stratificazione semantica della propria immagine che è contemporaneamente materiale ed evanescente, analogica (come la fotografia) e «digitale» (come il quadro), come oggi capita quotidianamente anche alle persone comuni se si lasciano «ingabbiare» nei vari dispositivi di (auto)rappresentazione che ci circondano.
È però forse nella sua avventura cinematografica che tale consapevolezza emerge con ancora maggior evidenza, in un continuo gioco di esibizione e nascondimento del proprio corpo e del proprio volto che rimanda costantemente alla sua vita «extradiegetica», sia pubblica sia privata. Penso alla rivisitazione del Faust in Rapsodia satanica di Nino Oxilia, quando invecchiata artificialmente, la donna riscopre la sua bellezza giovanile, in virtù di un patto con il diavolo che le consente di spogliarsi dei veli che le coprono rughe e vecchiaia; o alla serie di sequenze di L’amor mio non muore! di Mario Caserini, ambientate nel camerino di un’attrice teatrale (un doppio intradiegetico della Borelli, visto che la protagonista del film interpreta proprio la Salomè), dove la sua silhouette si riflette in una specchiera a tre ante in una delle prime occorrenze del motivo cinematografico della stanza degli specchi reso noto da Il Circo di Charles Chaplin o La signora di Shanghai di Orson Welles. Qui, come altrove, la «primadonna» Borelli – per parafrasare il titolo di un altro suo celebre film, Malombra di Carmine Gallone, tratto dall’omonimo romanzo di Antonio Fogazzaro – si accorge di vivere nell’impossibilità di essere «mai in ombra» e, come se non bastasse, di essere il risultato frankensteiniano di una serie di immagini riflesse che, come in un dipinto cubista, cercano di conciliare faticosamente prospettive, sistemi espressivi e punti di vista diversi. Rappresentando, questa volta senza alcuna possibilità di consapevolezza, uno dei casi più interessanti di anticipazione della cultura visuale contemporanea.
Bibliografia
M.I. Biggi, M. Zannoni (a cura di), Il Teatro di Lyda Borelli, Firenze, Fratelli Alinari, 2017.
I. Blom, ‘Lyda Borelli e la nascita del glamour. Dal teatro via pittura e fotografia, al cinema’, in I. Innamorati, M. Pistoia (a cura di), Attraversamenti. L’attore nel Novecento e l’interazione fra le arti, Roma, Bulzoni, 2010.
A. Dalle Vacche, Diva. Defiance and Passion in Early Italian Cinema, Austin, University of Texas Press, 2008.
S. Dagna, Ma l’amor mio non muore! La diva e l’arte di comporre lo spazio, Milano/Udine, Mimesis, 2014.
G. Ginex (a cura di), Divine. Emilio Sommariva fotografo. Opere scelte 1910-1930, Busto Arsizio, Nomos Edizioni, 2004.
C. Jandelli, Le dive italiane del cinema muto, Palermo, L'epos, 2006.