Sandro Penna, che poeta era costui? Secondo Cesare Garboli, si colloca all’apice della poesia lirica italiana laddove la critica più accademica non gli ha riconosciuto una simile centralità. Questa duplice ricezione viene in qualche maniera richiamata dallo spettacolo di Massimo Verdastro, Sandro Penna. Una quieta follia, che si avvale del testo scritto dal principale studioso del poeta, Elio Pecora, sodale dei suoi ultimi anni, e andato in scena a Teatri di Vita a Bologna, dal 16 al 18 dicembre 2016.
Lo spettacolo si distingue in primis per la scelta, non ovvia, di rendere omaggio alla poesia e in particolare ad un autore di cui nel 2017 ricorre il quarantennale della morte. Nei testi di Penna emergono i temi della diversità, dell’esclusione e della discriminazione sociale, derivanti tanto dal dato autobiografico quanto dalla peculiare evidenza del tema erotico all’interno della sua opera. L’eros infatti costituisce di per sé un motivo di scandalo, di disappunto, avvertito dai più come inopportuno e pericoloso. È, altresì, la lente attraverso cui Penna si rapporta col mondo, vede gli altri e sé stesso, in una maniera ‘pura’ e forse per questo ancora più dolorosa, proprio perché aderente al reale e insieme motivo di esclusione.
Il tormento di Penna, tra difesa della propria diversità e desiderio di essere accettato, viene affidato alla poesia, che assolve così a una funzione conciliativa, ma anche, in ciò, contraddittoria, divenendo nello spettacolo di Verdastro l’elemento attorno a cui gravitano sia il poeta sia il ragazzo, interpretato da Giuseppe Sangiorgi, che poi si moltiplica in ulteriori figure. L’arte poetica è infatti l’equivalente del desiderio, ma non di meno è il principio regolatore di tale desiderio attraverso la sublimazione in una forma che lo rende socialmente accettabile. Penna può così confessare la sua ‘colpa’ pubblicamente; la ricerca di una perfezione estetica, di grazia, di leggerezza, di candore, serve a compensare l’irregolarità morale. Tuttavia, al contempo, l’armonia dei testi penniani sembra farsi voce e riflesso dell’eros in quanto tale (come se, soltanto grazie ad essa, il poeta dicesse che il contenuto non si sublima ‘veramente’ nella forma). E su questa linea, lontana dall’interpretazione canonica della poesia di Penna, più incline a sottolineare il concetto di senso di colpa e di doloroso ripiegamento interiore, si muove il lavoro di Verdastro, che si incentra sulla capacità di veicolare in versi l’eros con leggerezza e slancio vitale. Nel suo spettacolo emerge ciò che possiamo considerare abbia prevalso nella poesia e nell’esistenza penniana: una strana gioia di vivere in cui la diversità connessa all’omosessualità è pur sempre moto di felicità o resa tale dalla forza del desiderio che è lievito di vita.
Verdastro, che interpreta Sandro Penna grazie anche ad una somiglianza fisica sorprendente, entra in scena di bianco vestito snocciolando una raffica di brevi componimenti, cosa che ci permette da subito di ascoltare l’inimitabile grana lirica della voce dell’autore. Il lavoro di regista e interprete arricchisce quindi e integra la complessa e raffinata partitura drammaturgica di Elio Pecora, tesa a scavare nelle pieghe del personaggio, senza celare i tratti più scomodi e controversi del suo orientamento sessuale. Il racconto scenico, tra confessione e autobiografia, viene difatti rilanciato ed esaltato dai frammenti dei versi recitati. Verdastro si muove in uno spazio privo di scenografia, connotato da pochi oggetti (una sedia, dei grandi fogli di carta, un pennello e un barattolo di vernice nera); una regia minimale, in levare, speculare alla poesia di Penna, laddove la semplicità non è mai banale, ma sempre ricca di molteplici significazioni. E dunque il letto di fogli di carta spiegazzati che, a un certo punto, ricopre il palcoscenico rinvia sia alla volontà di dispersione di Penna (da intendere come un darsi totale e scompigliato al mondo, come un giocoso e amoroso rincorrersi tra il poeta e i fanciulli concupiti), sia al disordine psico-esistenziale dei suoi ultimi anni di vita. Nel gioco scenico tra Verdastro e il suo partner, la poesia appare sia un caldo rifugio sia un vortice verbale che, seppur vitale, fagocita e risucchia Penna medesimo in una ferita d’eros. Il deuteragonista intreccia una vibrante dialettica psico-fisica con Verdastro-Penna, per cui non solamente, di volta in volta, egli incarna il cugino ovvero il primo amore del poeta, i ragazzi bramati, il giovane marinaio, l’Eros tout court, ma anche una sorta di alter ego. Così nella scena del denudamento e della rivestizione vediamo, quasi in un incrocio simbolico, il giovane, abbigliato di scuro e con la cravatta, passare-donare all’altro sé stesso adulto e seminudo il medesimo abito.
Si deve inoltre sottolineare la funzione nella messinscena della partitura musicale, che quasi riflette gli sbalzi d’umore del personaggio e accompagna una scrittura di corpi e di gesti, sia in assolo che in ‘dialogo’ tra i due interpreti.
Nel passaggio dal torpore al risveglio, dal presente al ricordo e viceversa, lo spettacolo culmina in una sorta di dissolvenza scenica: l’addio di Penna a un mondo di memorie felici e di volti e corpi amati che hanno dato luce e senso alla sua avventura esistenziale di scrittore e uomo sempre proteso a soddisfare il proprio naturale bisogno d’amore.
Sandro Penna. Una quieta follia
di Elio Pecora
drammaturgia, regia e interpretazione Massimo Verdastro
con Giuseppe Sangiorgi
musiche originali Riccardo Vaglini
progetto luci Paolo Calafiore
suono Marco Ortolani
aiuto regia Giuseppe Sangiorgi
produzione Compagnia Diaghilev srl
in collaborazione con Compagnia Massimo Verdastro