Io sono la tua carne,

la carne eletta del tuo spirito.

Non potrai mai visitarmi nel giorno

prima che il puro lavacro del sogno

mi abbia incenerita

per restituirmi a te in pagine di poesia,

in sospiri di lunga attesa.

Alda Merini, La carne e il sospiro

 

 

Schermata dietro una vetrina in plexiglas, isolata ma (sovra)esposta allo sguardo del pubblico, la regina Erodiàs pare svegliarsi di soprassalto da un sonno senza tempo, scossa dalla propria voce fuori campo che erompe in un grido viscerale «Jokan!», per poi modularsi in gioco di parole, in vibrante catena di metaplasmi: «Lan, Lanjokaan, Jokaslaan, Slanjokaan…».

Il ritmo ipnotico delle variazioni onomastiche con cui la «tragica reina» appella l’oggetto del suo desiderio, il profeta Giovanni il Battista, apre lo spettacolo Erodiàs diretto da Renzo Martinelli e con protagonista Federica Fracassi, basato sul monologo di Giovanni Testori parte del suo ultimo capolavoro Tre lai. Cleopatràs, Erodiàs, Mater Strangosciàs (1994).

Già dalle primissime battute del dramma è impossibile non riconoscere il registro linguistico-espressivo forgiato dal grande autore lombardo, quell’idioletto capace di contorcere il Ê»corpoʼ delle parole attraverso stranianti acrobazie sintattiche, plasmando l’ardore dei personaggi col fervore espressionistico del suo moto continuo. La lingua testoriana è il primo elemento che emerge nello spettacolo di Martinelli, travolgendo da subito lo spettatore nella bufera affabulatoria della sua protagonista: la celebre concubina di Erode alla quale Testori attribuisce una qualità anfibologica e contraddittoria, immaginandola divisa tra una femminilità gravida di passione per il Battista, e un mascolino impulso alla violenza e alla vendetta, suscitato dal netto rifiuto del profeta alle sue continue profferte d’amore.

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Sandro Penna, che poeta era costui? Secondo Cesare Garboli, si colloca all’apice della poesia lirica italiana laddove la critica più accademica non gli ha riconosciuto una simile centralità. Questa duplice ricezione viene in qualche maniera richiamata dallo spettacolo di Massimo Verdastro, Sandro Penna. Una quieta follia, che si avvale del testo scritto dal principale studioso del poeta, Elio Pecora, sodale dei suoi ultimi anni, e andato in scena a Teatri di Vita a Bologna, dal 16 al 18 dicembre 2016.

Lo spettacolo si distingue in primis per la scelta, non ovvia, di rendere omaggio alla poesia e in particolare ad un autore di cui nel 2017 ricorre il quarantennale della morte. Nei testi di Penna emergono i temi della diversità, dell’esclusione e della discriminazione sociale, derivanti tanto dal dato autobiografico quanto dalla peculiare evidenza del tema erotico all’interno della sua opera. L’eros infatti costituisce di per sé un motivo di scandalo, di disappunto, avvertito dai più come inopportuno e pericoloso. È, altresì, la lente attraverso cui Penna si rapporta col mondo, vede gli altri e sé stesso, in una maniera ‘pura’ e forse per questo ancora più dolorosa, proprio perché aderente al reale e insieme motivo di esclusione.

Il tormento di Penna, tra difesa della propria diversità e desiderio di essere accettato, viene affidato alla poesia, che assolve così a una funzione conciliativa, ma anche, in ciò, contraddittoria, divenendo nello spettacolo di Verdastro l’elemento attorno a cui gravitano sia il poeta sia il ragazzo, interpretato da Giuseppe Sangiorgi, che poi si moltiplica in ulteriori figure. L’arte poetica è infatti l’equivalente del desiderio, ma non di meno è il principio regolatore di tale desiderio attraverso la sublimazione in una forma che lo rende socialmente accettabile. Penna può così confessare la sua ‘colpa’ pubblicamente; la ricerca di una perfezione estetica, di grazia, di leggerezza, di candore, serve a compensare l’irregolarità morale. Tuttavia, al contempo, l’armonia dei testi penniani sembra farsi voce e riflesso dell’eros in quanto tale (come se, soltanto grazie ad essa, il poeta dicesse che il contenuto non si sublima ‘veramente’ nella forma). E su questa linea, lontana dall’interpretazione canonica della poesia di Penna, più incline a sottolineare il concetto di senso di colpa e di doloroso ripiegamento interiore, si muove il lavoro di Verdastro, che si incentra sulla capacità di veicolare in versi l’eros con leggerezza e slancio vitale. Nel suo spettacolo emerge ciò che possiamo considerare abbia prevalso nella poesia e nell’esistenza penniana: una strana gioia di vivere in cui la diversità connessa all’omosessualità è pur sempre moto di felicità o resa tale dalla forza del desiderio che è lievito di vita.

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