Renzo Martinelli, Erodiàs

di

     

 

Io sono la tua carne,

la carne eletta del tuo spirito.

Non potrai mai visitarmi nel giorno

prima che il puro lavacro del sogno

mi abbia incenerita

per restituirmi a te in pagine di poesia,

in sospiri di lunga attesa.

Alda Merini, La carne e il sospiro

 

 

Schermata dietro una vetrina in plexiglas, isolata ma (sovra)esposta allo sguardo del pubblico, la regina Erodiàs pare svegliarsi di soprassalto da un sonno senza tempo, scossa dalla propria voce fuori campo che erompe in un grido viscerale «Jokan!», per poi modularsi in gioco di parole, in vibrante catena di metaplasmi: «Lan, Lanjokaan, Jokaslaan, Slanjokaan…».

Il ritmo ipnotico delle variazioni onomastiche con cui la «tragica reina» appella l’oggetto del suo desiderio, il profeta Giovanni il Battista, apre lo spettacolo Erodiàs diretto da Renzo Martinelli e con protagonista Federica Fracassi, basato sul monologo di Giovanni Testori parte del suo ultimo capolavoro Tre lai. Cleopatràs, Erodiàs, Mater Strangosciàs (1994).

Già dalle primissime battute del dramma è impossibile non riconoscere il registro linguistico-espressivo forgiato dal grande autore lombardo, quell’idioletto capace di contorcere il ʻcorpoʼ delle parole attraverso stranianti acrobazie sintattiche, plasmando l’ardore dei personaggi col fervore espressionistico del suo moto continuo. La lingua testoriana è il primo elemento che emerge nello spettacolo di Martinelli, travolgendo da subito lo spettatore nella bufera affabulatoria della sua protagonista: la celebre concubina di Erode alla quale Testori attribuisce una qualità anfibologica e contraddittoria, immaginandola divisa tra una femminilità gravida di passione per il Battista, e un mascolino impulso alla violenza e alla vendetta, suscitato dal netto rifiuto del profeta alle sue continue profferte d’amore.

L’Erodiàs testoriana è un personaggio fortemente bidimensionale, non soltanto per la sua scoperta metateatralità (e metatestualità, giacché spesso interpella direttamente l’autore), ma innanzitutto per la sua condizione di discrasia e ambivalenza: bloccata in una sorta di limbo/Purgatorio per aver punito con la morte l’uomo che non l’ha corrisposta, la «squinternada» regina patisce la sofferenza di ʻessere a metàʼ fra l’attrazione e l’odio per il Battista, e fra la negazione e l’accettazione di quel dio incarnato, il Cristo, per il quale egli l’ha rifiutata. In lotta tra maledizione e salvezza, così come tra istinti e passioni – la gelosia, l’eros, la violenza, la vendetta  femminili e maschili, la psicologia ancipite di Erodiàs è colta nel segno dall’operazione registica di Martinelli, che in apertura della recita si avvale di un’immagine ʻad effettoʼ per esprimere la conflittualità androgina della protagonista: la figura che vediamo dietro la vetrina in plexiglas è un manichino settecentesco decapitato e insanguinato che regge in grembo la testa del Battista, ovvero il volto della stessa Erodiàs/Fracassi su cui spicca la «mascula barba» del profeta.

 Federica Fracassi in una foto di scena di Erodiàs, regia di Renzo Martinelli, © Lorenza Daverio

Un tableau vivant dal taglio camp e queer parody sorretto da un’intuizione drammaturgica di forte evidenza e semplicità, per cui il sembiante lussurioso di Erodiàs si metamorfizza nel feticcio sanguinante del capo mozzo di Giovanni, visualizzando un’identificazione totale tra l’eroina testoriana e il suo ʻidoloʼ di amore e morte.

La sostanziale equivocità e obscuritas del personaggio di Erodiàs, cioè la sua fondamentale anfibologia, sono espressi anche dalla composizione scenica, che vede la regina ʻsospesaʼ su uno sfondo totalmente nero dietro la vetrina trasparente, quasi fluttuasse in uno spazio-tempo privo di coordinate. Qui gradualmente si libera dell’abito da damina e della barba posticcia, mentre dà sfogo al suo tragico ʻlaiareʼ contro il profeta colpevole di non aver ceduto alla sua foia lussuriosa; ma disattendendo le indicazioni sceniche di Testori non si rivolge più alla sua «crapa santa» contenuta in un bacile, bensì al suo attributo genitale ʻmuseificatoʼ in una teca illuminata e poi brandito a mo’ di randello.

 Federica Fracassi in una foto di scena di Erodiàs, regia di Renzo Martinelli, © Lorenza Daverio

La scelta di modificare l’interlocutore muto di Erodiàs è concettualmente rilevante, perché il fallo/simulacro di Giovanni, come prima la barba finta, funziona da metaforica sineddoche di una virilità maschia, che ella brama a tal punto da voler possedere e trasferire su di sé.

 Federica Fracassi in una foto di scena di Erodiàs, regia di Renzo Martinelli, © Lorenza Daverio

Altri elementi della recita sottolineano il gioco d’identità della «reina», la quale, abbandonati i leziosi veli girly da bambola di porcellana, incede sul palco in body aderente e tacchi a spillo, quasi una mantide assassina accecata dalla rabbia, sprofondata in un’abiezione bestiale per cui uccidere diviene l’estremo atto d’amore.

La scena è illuminata da abbaglianti fari che, accesi e spenti a più riprese, creano una partitura bicromatica optical e chiaroscurale, perfetta per conferire all’habitat della terribile concubina un’atmosfera ancestrale, orfica e venata di erotismo.

La drammaturgia sonora è stratificata in più layers acustici, alcuni prodotti dal vivo e altri registrati e trasmessi fuori campo; clangori metallici, tintinnii di strumenti idiofoni, rumori di vetri infranti si sovrappongono alle plurime voci (on e off) della regina e a dirompenti sonorità ʻmodernizzantiʼ (geniale l’uso della cover dei Fantômas, arrangiata in chiave metal, del brano Investigation of a citizen above suspicion di Ennio Morricone), secondo una logica di accumulo di verbalità, suono e musica funzionale ad esprimere l’ingorgo dei sentimenti della protagonista.

L’approccio di Martinelli al tragico testoriano si colloca pertanto nel solco di un teatro immagine immersivo, che si nutre di citazioni, dei segni della contemporaneità, per attualizzarne temi e meccanismi generativi. È interessante notare come dentro a una mise en scène così tecnicamente elaborata, plastica e formale, il ruolo dell’attrice non è messo in ombra ma al contrario enfatizzato, complice la strepitosa prova di Fracassi che colpisce per visceralità, concentrazione, dinamico equilibrio tra le spinte contrastive del testo.

L’opzione ultima della drammaturgia di Testori coniuga teatro e rito attraverso la figura dell’attore, perseguendo l’idea di una parola ʻincarnataʼ che si radica nella sua dimensione corporea e da essa trae significato. Si tratta del tentativo di restituire un ʻcorpoʼ alla lingua, con la finalità di ricreare un rapporto, più precisamente una comunione rituale, tra monologante e spettatore. In tal senso l’interpretazione di Fracassi si pone efficacemente come parola incarnata/azione incarnante, grazie alla sua bravura nell’assimilare il magmatico dettato drammaturgico e quasi lasciarsi invadere dalla sua forza espressiva, per poi controbattere con la propria energia fisica, con l’uso potente della voce e del gesto.

L’invettiva di Erodiàs contro il «Don Juan de merda» si sviluppa in ripetuti ʻincendiʼ verbali che ardono di insulti, volgarità, imprecazioni, sempre resi sotto forma degli idiolettici moduli inventivi testoriani; ma la particolarità della scrittura consiste anche nello stemperare la furia della concubina inserendo nella sua dizione lo scarto di un’apertura al comico, al grottesco, al parodico, che crea un meccanismo dove tragedia e guitteria diventano indistinguibili.

Qui entra in gioco prepotentemente la tecnica dell’attore, poiché per trasmettere al pubblico l’equilibrio tra questi poli opposti egli stesso deve trovare un bilanciamento fra diversi stili espressivi, e nel contempo seguire il gesto registico che di volta in volta dà forma ai due estremi della teatralità testoriana. Anche alla luce di queste considerazioni si conferma un sicuro plauso per Fracassi, che pare modulare la propria interpretazione secondo il calibrato principio del francese Talma: «Cuore caldo e mente fredda». Si avverte infatti il suo trasporto passionale, ispirato, emotivo nell’indossare i panni della «reina», non contrapposto ad una diderottiana distanza ʻscientificaʼ e misurata, ma alimentato da un’intelligenza sensibile che si rivela proprio nella capacità di comprendere e oggettivare la ʻlogica dei contrariʼ che rende terribile e ironica l’arringa di Erodiàs.

Così, ad esempio, l’impeto indiavolato e blasfemo con cui grida al fallo di Giovanni: «Te e sol te arei ciavas, e con te ciavas sarei et inculato el dio de te incarnato», viene poi trasfigurato nel tono beffardo e piagnucoloso con cui ricorda della sua ʻtragicaʼ impotenza: «Oh, il rammento, non ti veniva duro mai, sed proprio mai».

Fracassi ʻcavalcaʼ le fluttuazioni timbriche del testo, traducendole in tensione continua e progressiva verso il grido, il sussurro, il rantolo, il pianto. Delle varianti, e variazioni, del verbo testoriano riesce a fare risuonare gli echi più profondi, restituendo i molteplici livelli della scrittura e insieme la cifra della regia di Martinelli, cioè il dualismo identitario del personaggio.

La sua Erodiàs sa che «se non si passa attraverso il dolore, anche a rischio di perdere la mente, se non si ci lascia toccare, invadere, tutto è inutile»,[1] pertanto non fugge il tormento ma lo abita con ostinazione; la sofferenza del rifiuto, della perdita, dell’assenza dell’amato diventa in lei una forza scaturente, non solo miccia del proprio furor, ma anche sostegno nell’attesa di una via di salvezza.

 Federica Fracassi in una foto di scena di Erodiàs, regia di Renzo Martinelli, © Lorenza Daverio

Proprio per questo, giunta alla fine della recita, sudata e sfatta per il gran dispendio di energie, Fracassi scavalca la vetrina/diaframma e si siede direttamente di fronte al pubblico; da qui in uno stato di oscuro rapimento, di allucinato e violento interrogarsi/interrogare, rivolge a Juan l’estrema domanda, chiede come potrà porre fine al proprio lamento. Finalmente sembra che la bocca del profeta si dischiuda ed esali una risposta, «specciare dise», aspettare. Ancora i tempi non sono maturi per accogliere l’annuncio di Cristo, per compiere il passaggio a quella dimensione evangelica dell’amore, fatta di pietà, dolcezza e «fraternala clemezza», di cui sarà testimone la Madonna, la «Mater strangosciada». Alla concubina di Erode non resta che sussurrare per l’ultima volta il nome del Battista, ricevendo però soltanto silenzio: non c’è religione per la sua sventurata croce.

 

 

Erodiàs

di Giovanni Testori; regia di Renzo Martinelli; con Federica Fracassi; dramaturg Francesca Garolla; assistente alla regia Irene Petra Zani; suono Fabio Cinicola; luci Mattia De Pace; consulenza artistica Sandro Lombardi; creazione costume d'epoca Cesare Moriggi; consulenza e realizzazione oggetti di scena Laura Claus; produzione Teatro i; con il contributo di Regione Lombardia / NEXT


1 G. Testori in G. Santini (a cura di), Giovanni Testori. Nel ventre del teatro, Urbino, Quattroventi, 1996, p. 96.