Nymph()maniac: nudi alla metà

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C’è un momento, all’inizio del secondo volume di Nymph()maniac di Lars von Trier, in cui Joe (Charlotte Gainsbourg) arresta il suo flusso di coscienza sessuale e inchioda il povero Seligman (Stellan Skarsgård).

Lo fissa dal letto in cui l’avevamo lasciata nel primo volume e solo allora capisce la verità: Seligman non si eccita per le sue peripezie sessuali, per i vestiti ‘scopami subito’, per il meccanico che le prende su richiesta la verginità, per la ‘sensazione’ che può dare una corda in palestra. Seligman si eccita per le combinazioni numeriche, per il 3+5 che appare sullo schermo in entrambi i volumi a marcare una rottura, un passaggio, che appare, così quantificato, più simbolico che reale. Seligman si eccita per la serie di Fibonacci – che molti in sala, finalmente, sentono di avere capito –, per Bach e la sua polifonica matematica, che ci regala uno dei più armonici split screen della storia del cinema. Seligman insomma si eccita per le ‘slides’ di Lars von Trier, per quel saggismo che informa e sovraccarica, con ironia, il film quasi a fare il verso alla struttura invece volutamente saggistica di quest’opera, per l’appunto, in due volumi.

Seligman non può eccitarsi per nient’altro perché è vergine, non conosce donna – né uomo, ci tiene ad aggiungere – e dunque astrae, sublima, traccia coordinate auree che vorrebbero trovare il senso della ninfomania di Joe, che trasformano la sua ‘maxima vulva’ in una sorta di apocalisse, figura della condizione umana. Seligman dice di essere vergine e, subito dopo, causalmente, di essere innocente.

Ora però il punto è un altro. In quello scambio di sguardi, intenso, capace di bloccare con decisione l’andamento felicemente narrativo di questo saggio, lo spettatore si scopre dentro la storia. Non è una sensazione semplice da creare al cinema, soprattutto in un film che non fa del coinvolgimento emozionale il suo obiettivo. Eppure accade. Non è Seligman a ritrovarsi nudo e a dover confessare la sua verginità, siamo noi, noi che non sappiamo più cosa ci aspettavamo da questo film, che non siamo scandalizzati e ci troviamo a pensare che il senso di Nymph()maniac stia nelle spiegazioni di questo personaggio, nel gioco intellettuale che neutralizza la corporeità selvaggia di Joe e la pone al fondo dei simboli del nostro pensiero.

Lo spettatore, per tutto il primo volume e per parte del secondo, cerca pervicacemente rifugio nella parodia, inseguita e trovata laddove von Trier non la rivela mai del tutto, e naturalmente a uscirne ridimensionata è Joe, non Seligman, che diventa piuttosto il motore di questo atteggiamento, il personaggio che si vorrebbe serio e invece con i suoi interventi finisce per apparire comico, che si vorrebbe saggio e che contrariamente con la sua smania interpretativa risulta folle. Si arriva a ridere di Joe, che è un personaggio drammatico, attraverso Seligman e di Seligman pensandolo alle prese con le gesta narrate da Joe. Il cupio dissolvi di lei svanisce a sua volta man mano che lui dà un senso alle sue perversioni. Se, come proprio in relazione a Nymph()maniac ha scritto Pietro Bianchi su «Le parole e le cose» riprendendo il Lacan de Lo stordito (1973), il sesso è l’assurdo, il non-sensato, Seligman appare come colui che, negando la corporeità insensata di Joe, le restituisce una nuova forma, astratta e simbolica, portatrice di senso. Se Joe è altro dal senso, Seligman è altro dal sesso, due personaggi che si affermano diversamente, che attestano il loro io diversamente: il cogito ergo sum di Seligman contro il – si passi la formula – copulo ergo sum di Joe.

 

Nymph()maniac ci dice, quasi ad ogni capitolo di entrambi i volumi, che il sesso è la forza più dirompente e meno controllabile nella vita di un essere umano e, proprio per tale ragione, questa forza è imperscrutabile. Joe non può guarire con la terapia di gruppo che censura la parola ‘ninfomane’ – una sequenza dagli echi metatestuali piuttosto espliciti – e può invece contagiare chi lotta ostinatamente contro l’imperscrutabilità di quella forza cui non ha mai ceduto. La verginità di Seligman, lo dice lui stesso, ne sancisce l’innocenza, col che ne viene che la ninfomania di Joe ne stabilisce la colpevolezza: «mea vulva, mea vulva, mea maxima vulva», ripete la giovane Joe con le amiche della sua setta, mentre giurano di non innamorarsi mai. Sarebbe interessante, alla metà dei due film, quando si scopre che Seligman siamo noi – e che il volume secondo ci piace meno anche per questa ragione –, riflettere sul valore che innocenza e colpa hanno per lo spettatore in sala, che cerca suo malgrado la fuga nell’ironia e nella distanza superiore del suo sguardo curioso eppure ritratto.

 

 

Nymph()maniac è la storia di un dialogo tra un innocente e una colpevole, il primo deciso a dare forma e senso alle performance e alle provocazioni della seconda, ad alleviare il suo senso di colpa dando alla colpa un senso, e la seconda decisa dapprima a confessarsi per scandalizzare, ma soprattutto eccitare, e poi, dopo la metà, quando finalmente anche Seligman è nudo, a lasciare che cogito e copulo si confrontino a carte scoperte fino alle estreme conseguenze. Ciò che rende Seligman innocente sarebbe il suo essere vergine e questa verginità, impedendogli di empatizzare con la carnalità sorda di Joe, gli permette di scorgerne il significato profondo, disincarnato e depositatosi qua e là in secoli e secoli di pensieri e azioni virtuose del genere umano, oppure in simboli che hanno cristallizzato, anestetizzato e reso diversamente produttiva quella furia, riempito, per così dire, altri buchi…

Ne verrebbe che la cultura e il pensiero di cui si fa portatore Seligman – quello stesso pensiero e quella stessa cultura che assolvono il voyeur in sala tenendo a distanza di sicurezza la follia di Joe – sono il segno, la marca di quell’innocenza. Non sfugge però neanche a Seligman, in un percorso di de-formazione delle sue stesse spiegazioni, che quell’innocenza si innesta sulla colpa, procede dalla fisicità esasperata, dalla ‘sensazione’, dallo scuotimento dei sensi e del senso, dalla paura dell’abbandono, del dissolvimento, della perdita del significato razionalmente inteso. Non è Joe ad aver bisogno di Seligman – come ci dice il finale del film –, ma Seligman ad aver bisogno di Joe. La scoperta, il segreto, non sta nelle visioni, nei numeri, nelle armonie dell’intellettuale, sta nella reductio ad corpus della ninfomane, che però è inaccettabile, violenta, mortifera già all’inizio del film e poi, diversamente, alla fine e che necessita di terapie oppure di spiegazioni. In questo circolo, in cui la forza e l’imperscrutabile si caricano vicendevolmente di energia che l’essere umano non riesce a dominare, le sovrimpressioni di von Trier sono la nostra storia, la nostra vita, il nostro modo di figurarci il mondo. Sono Seligman, siamo noi.

Il vero scandalo di Nymph()maniac è lo scavalcamento di campo che si compie alla metà del film, dal quale lo spettatore, messo a nudo, non riesce più a fare ritorno. Uno scavalcamento che improvvisamente ci mette di fronte all’ingranaggio narrativo del film e al nostro posizionamento rispetto ad esso, fino a farci pensare che quello di Joe possa perfino essere un virtuosistico esercizio di storytelling, un romanzo fiume in forma, dicevamo, di flusso di coscienza, mentre Seligman assume il ruolo dell’analista, del saggista e crede alle cose che sente, non si accontenta più di gravitare all’esterno del racconto e vorrebbe entrarvi, diventare materia da analizzare, farsi corpo per ritrovarsi simbolo, o forse per liberarsi del tutto dai simboli. Ma quello di Joe è un racconto che non si può violare, il sesso è solo nel flashback, non si dà nel presente, è qualcosa di cui, ancora, né Seligman né lo spettatore possono dirsi testimoni. Che si stia discettando di nulla? O possibile che proprio ora questa ninfomane si sia redenta, proprio ora che l’ultimo dei vergini era pronto a rinunciare alla sua innocenza? La si pensi come si vuole, Lars von Trier ci dice solo che quella del racconto (o dello schermo) è una soglia che non si può oltrepassare. 

Probabilmente c’è del vero in quel che scrive sull’ultimo numero di Trafic (90, 2014) Antoine Mouton: Nymph()maniac è il più solitario film di von Trier, il più spettrale, dove amore-morte e grazia-condanna – temi da tempo nel cuore apparentemente di pietra del maestro danese – si attorcigliano fino a confondersi, e addirittura von Trier sarebbe un nuovo Marcello, che segue Amleto in un luogo deserto perché capisce l’importanza e il valore degli spettri e si accorge, naturalmente, che c’è del marcio in Danimarca…