Pier Paolo Pasolini, La nebbiosa

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Il 10 ottobre del 1959 sulle pagine di «Vie Nuove» Pasolini firma un articolo (La colpa non è dei teddy boys) in cui prende posizione sul fenomeno dei teddy boys, avviando quella lunga inchiesta sulla nuova gioventù che lo condurrà nei decenni successivi alla polemica sui i fatti di villa Giulia, al Discorso dei capelli e poi giù fino a Petrolio e a Salò. L’occasione è data dal convegno sul disagio giovanile che si era tenuto a Venezia a settembre di quello stesso anno e che pare offrire a Pasolini, non per i risultati dei lavori ma come fatto in sé, la spiegazione del caso in questione. La «presunzione pedagogica», la «cecità reazionaria», lo «sciocco paternalismo», la «superficiale visione dei valori» e il «represso sadismo» della società italiana messi a fuoco in quella sede sono a suo parere la causa della presenza in tante città di «una gioventù insofferente e incattivita». Pasolini riprende e fa sue le osservazioni di Musatti, che sottolinea la natura conformista, borghese e moralistica della ribellione dei giovani. Analizza poi le differenze della «gioventù traviata» del Nord e del Sud del nostro paese evidenziando la dimensione moralistica e borghese dei teddy boys, «prodotto della società neocapitalistica irrigidita moralisticamente nelle sue sovrastrutture» dell’Italia settentrionale. In altra occasione scriverà: «i teddy boys sono numericamente proporzionali agli elettrodomestici: là dove non è reperibile nemmeno un elettrodomestico non è sicuramente reperibile nemmeno un teddy boy» («Nuova generazione», 21 novembre 1959). In realtà, però, l’interesse sociologico di Pasolini non si può scindere del tutto dalla passione per l’universo giovanile, che è la matrice originaria dei tanti ritratti e delle tante storie friulane e romane che popolano i suoi versi, i suoi romanzi e i suoi primi film. È all’interno di questo contesto che va collocata, infatti, la stesura della sceneggiatura della Nebbiosa, realizzata nel 1959 su commissione del produttore milanese Tresoldi, il quale poi decise di non utilizzarla per il film Milano nera, diretto nel 1963 da Gian Rocco e Pino Serpi. Il testo, per la prima volta proposto nella sua versione integrale dal Saggiatore (a cura di Graziella Chiarcossi, con la prefazione di Alberto Piccinini e la nota al testo di Maria D’Agostini), aggiunge un tassello importante al capitolo altrettanto significativo dell’apprendistato pasoliniano della scrittura per il cinema e offre un inedito ritratto della gioventù milanese degli anni Sessanta.

La forma della sceneggiatura/romanzo, ibrida e aperta come alcuni dei pezzi che compongono Alì dagli occhi azzurri, intrisa di lirismo come tante delle successive scritture per i film, è già tutta qui. Nelle prime scene le note di regia descrivono «l’obiettivo che inquadra in primissimo piano» i vari protagonisti della storia e ‘legge’ sui loro volti «qualcosa di terribile», che fa presagire i misfatti di cui saranno capaci nella notte di capodanno che sta per trascorrere. Dai primi piani si passa poi alle panoramiche di Milano, alle inquadrature attraverso il finestrino delle auto. Pasolini descrive il film che pre-vede nella sua immaginazione e cerca la ‘complicità’ del lettore perché traduca questa ‘scrittura che vuol essere altra scrittura’ nel film da farsi.

L’atmosfera testoriana della periferia lombarda del Ponte della Ghisolfa (che l’anno dopo avrebbe ispirato il capolavoro di Visconti Rocco e i suoi fratelli) sembra incontrarsi e contaminarsi con le reminiscenze della gioventù bruciata di Nicholas Ray (Rebel without a Cause, 1955). Ne viene fuori una notte brava dei ragazzi di vita milanesi, non borgatari ma borghesi teddy boys allo sbando. Fra azioni vandaliche, balli e canti a squarciagola si consuma la piccola tragedia del Rospo, del Gimkana, del Contessa e dei loro amici. Pasolini indugia sulla descrizione dell’abbigliamento dei teddy boys milanesi (la loro «divisa» col giubbotto di cuoio nero, la sciarpetta al collo, il berretto con la visiera e i loro «ciuffi spettacolosi»), sugli aspetti di costume (oltre alle loro facce, le auto, le moto, le abitazioni); ma il segno che forse si fa carico maggiormente di rappresentare la loro anarchica e confusa protesta contro la Milano bene è il rock’n’roll. Le «canzoni da urlatori» esplodono spesso come colonna sonora dell’avventurosa e teppistica notte di capodanno che Pasolini racconta. Nella scena dell’orgia con le tre signore di Via Montenapoleone, per esempio, è proprio la musica a marcare l’incontro-scontro (sociale e generazionale) dei due gruppi umani. Mentre Ornella, la più giovane, si lancia in balli scatenati con il Teppa («un roteare di corpi, giovani, potenti, sfrenati»), Nella, la più contrariata, prima di ‘cedere’ anche lei alle violente avances dei ragazzetti, canta «con una certa classe, la vecchia canzone di Alida Valli» Ma l’amore no. Del resto, se la musica è il segno di riconoscimento della disperata vitalità della banda dei nuovi ‘riccetti’, la luce e lo scintillio che avvolge le loro scorribande incarna l’occhio della ville lumière che contempla impassibile ed estraneo le loro vite violente.

L’altra protagonista della storia è certamente la Milano che si staglia sul fondale delle scene e sulla quale Pasolini indugia con compiacimento. È questa forse la più importante novità che la pubblicazione di questo testo aggiunge alla geografia poetica pasoliniana. Le «Visioni di Milano, inquadrate dalla macchina in corsa», sono il refrain figurativo del racconto. Le luci dei grattaceli e lo splendore della metropoli, che nell’ultima notte dell’anno brucia ogni energia e ogni briciola di vitalità, squarciano il buio fitto delle strade percorse dalle auto e dalle moto dei teddy boys, catturano l’obiettivo virtuale del futuro regista. Il fascino visivo della città irretisce il suo sguardo, le didascalie che descrivono l’«esterno/notte» del Quartiere del Grattacielo Galfa sono ben più di una notazione di servizio. Il poeta delle borgate romane non rimane indifferente di fronte alle «immagini stupende» dei palazzoni che «sfolgorano di luci come giganteschi diamanti, come colossali fantasmi pietrificati». I volti e i luoghi di questi borghesi ragazzi di vita hanno ancora una scintilla che allontana lo scrittore dalla condanna spietata che formulerà nei confronti dei loro fratelli un decennio più tardi. Nell’insistito simbolismo della dialettica fra luce e buio (di cui si può avere qualche riscontro nei versi della coeva Religione del mio tempo) Pasolini scioglie il suo canto a un’altra «stupenda e misera città». Dopotutto a Milano «anche il progresso ch’ha le sue bellezze»!