Sono andati in scena presso il Centro Zo di Catania nei giorni 1-2-3-4 settembre i quattro spettacoli, Tifeo, De Cinere, Soggiornando vicino e Non si vive nemmeno una volta, che compongono il progetto Kthack, curato dall’associazione culturale Retablo per quel grande contenitore di eventi multidisciplinari che è il Festival I-ART.
Kthack, titolo del progetto, è il risultato della crasi tra Katane, l’antico nome di Catania, e Hack, termine che rinvia all’attività degli hacker volta a forzare un programma o un dispositivo informatico. La mescolanza tra Katane e Hack indica il filo conduttore tematico del progetto: l’intreccio tra miti e memorie letterarie proprie della storia di Catania e il linguaggio sempre più pervasivo delle tecnologie digitali, qui adoperate per attivare nuovi modi, non standardizzati, di fruire dell’esperienza scenica.
Originalità e sperimentazione sono, infatti, le direttrici portanti che innervano l’architettura visiva dei quattro spettacoli, basata sull’impiego di un grande telo-schermo che, posto davanti allo spazio di azione performativa, ospita proiezioni video live e tridimensionali.
La scena italiana contemporanea ci ha ormai abituato al trattamento della materia teatrale sotto le insegne deformanti del multimedia digitale, ma nel vasto quadro degli esperimenti video-performativi non sempre si ha la giusta razionalizzazione nell’uso dell’elemento tecnologico, o un’efficace integrazione di quest’ultimo nel concept della narrazione scenica.
Per questa ragione, merita un sicuro plauso il progetto di Retablo, il quale sviluppa una fruttuosa linea d’intervento tecnologico sulla drammaturgia teatrale, facendo leva sulla semantica elettronica per restituire/rendere/trasporre scenicamente il linguaggio crepuscolare dell’inconscio, del mito, della decostruzione/ricostruzione della realtà.
Il palinsesto drammaturgico di Kthack si apre con lo spettacolo Tifeo, scritto, diretto e interpretato da Turi Zinna. L’autore di Retablo coglie la valenza allegorica del mostruoso gigante dalle cento teste e cento braccia serpigne che, secondo il mito, combatté ferocemente contro Zeus e, sconfitto da una pioggia di folgori, fu sepolto vivo sotto la massa dell’isola siciliana con la testa schiacciata dal vulcano. Relegato per sempre nel mondo ctonico della Sicilia, Tifeo diventa così l’àition delle eruzioni laviche dell’Etna, perennemente impegnato nel vano tentativo di liberarsi. Turi Zinna, solo performer in scena, dà corpo e voce a un’originale versione del mostro mitologico, presentandolo come un folle, un disadattato, un soggetto clinico trattato con farmaci ed elettroshock. È un Tifeo che, per sua stessa ammissione, ha «perso il mostruoso», è vittima di allucinazioni uditive, si sente smarrito, depresso, emarginato.
Cerca di curarlo il Dottor Cadmo, deuteragonista interpretato dallo stesso Zinna, in una schizofrenica alternanza di ruoli affidata all’uso strategico di una videocamera. L’attore, infatti, si serve del mezzo tecnologico per imbastire lunghi dialoghi tra Tifeo e il suo medico curante, alternando l’interpretazione del mostro rivolta verso il pubblico, a quella del dottore indirizzata all’obiettivo della videocamera e quindi proiettata sul telo-schermo. Il close-up del Dottor Cadmo è poi manipolato digitalmente in diretta, con un effetto di apparizione evanescente, simil-olografico, che ridefinisce il video live.
Il telo-schermo, grazie alla tecnica del video mapping, funziona anche da scenografia elettronica di uno spazio performativo altrimenti privo di allestimenti materiali, e ospita proiezioni digitali fantasiose: giochi di linee e forme geometriche colorate, che seguono i movimenti dell’attore e richiamano, ripensate col dinamismo della computer graphics, le masse volumetriche dell’arte suprematista. Lo spazio drammaturgicamente attivo diventa così un costrutto astratto e mentale, quasi un’immagine soggettiva della psiche alterata del protagonista.
Zinna, da parte sua, è bravissimo nel mettere in scena lo strazio del gigante, la sua altalena emotiva tra vani reflussi d’impeto mostruoso e ricadute in una reductio ad nihil che ne spegne la potenza devastatrice. La capacità vocale dell’attore, di per sé notevole, è in più intensificata dall’utilizzo di particolari software che, processando l’audio scenico in tempo reale, realizzano effetti di spazializzazione del suono e deformazione della voce.
Altrettanto intensa, sia a livello fonico-verbale sia gestuale, è la recitazione di Turi Zinna in Soggiornando vicino, secondo spettacolo del progetto interamente affidato alla sua interpretazione, qui posta sotto la guida del regista Federico Magnano San Lio.
La performance è ispirata all’omonimo racconto dello scrittore catanese Turi Salemi, scomparso alla fine del Novecento, al termine di un’esistenza tragica, da poète maudit, divisa tra ricoveri manicomiali, povertà e solitudine, confortata soltanto dalla scrittura.
Particolare, e a tratti incomprensibile, fu però il suo rapporto con la pratica letteraria, poiché Salemi scriveva sempre di getto e su supporti improvvisati, senza preoccuparsi di conservare la sua opera, abbandonandola o addirittura distruggendola egli stesso. Per questa ragione è rimasto ben poco dei suoi lavori, e per lo stesso motivo Salemi può intendersi come il simbolo dell’impermanenza catanese, il trait d’union tra la fugacità della creazione artistica e la natura instabile della città etnea, votata a un restart continuo.
Nel racconto Soggiornando vicino, Salemi immagina di trasformarsi in un foglio di carta assorbente, sul quale desidera che si imprimano come un inchiostro le parole dell’amata. Il testo drammatico dello spettacolo, messo in voce da Zinna con grande intensità, descrive il delirio allucinato del poeta, la sua angosciosa metamorfosi vissuta come uno spleen lisergico e interiorizzato, punteggiato d’immagini metaforiche e dolorose sensazioni fisiche. Zinna si accartoccia su se stesso, si produce in viscerali torsioni della voce, mettendo in figura la sofferenza del suo immaginario corpo cartaceo, mentre viene lacerato, inciso da un reticolo di segni, minacciato dal risucchio di un’aspirapolvere o dall’assalto di un ragno. Lo stato disforico del protagonista non è tanto tradotto in forma concettuale, quanto in modo materico e sensibile, così come prettamente fisico sarà il suo appagamento finale, quando riuscirà a posarsi sul corpo disteso dell’amata e a trovar requie nel solco del suo ventre.
Anche qui il telo-schermo accoglie suggestivi giochi di luce e grafiche computerizzate, ma particolarmente interessante risulta la scelta di proiettare in tempo reale diverse frasi pronunciate dal protagonista, distillando così in una sorta di sovrimpressione allungata, richiamo al flusso narrativo caro a Salemi, l’enfasi espressiva del testo. L’effetto visivo è potente: le parole del poeta si stagliano davanti agli occhi degli spettatori, galleggiano sul velo trasparente che fa da schermo, cullate da un tappeto sonoro melanconico ed evocativo.
La creazione di un sound environment di gran pregio è certamente la cifra di un altro spettacolo del progetto: De Cinere, nuovo affondo nel patrimonio simbolico etneo, filtrato dallo sguardo della regista Maria Arena e della performer Daniela Orlando. Il titolo dell’opera rinvia all’iscrizione «melior de cinere surgo», posta sull’arco della Porta Ferdinandea a Catania e chiaramente riferita all’araba fenice. Il mito della fenice è emblema della storia di Catania poiché quest’ultima è sempre rinata dalle proprie ceneri, instancabilmente ricostruita dopo terremoti, eruzioni vulcaniche e invasioni straniere.
Nello spettacolo De Cinere Daniela Orlando è una fenice smarrita e provata, contrastata da un potere corrotto (personificato da Turi Zinna) che ha bloccato il ciclo di morte e rinascita, consegnando la terra a un futuro di desolazione.
L’attrice catanese dà vita magistralmente alla creatura mitologica, mimandone il battito d’ali con un costume dal rutilante drappeggio, e soprattutto orientando le proprie capacità vocali per alternare i gorgheggi, i lamenti selvaggi e il canto melodioso del favoloso uccello. Fluttuando coreograficamente sulla scena, la fenice interpella il pubblico, chiede aiuto per ritrovare la speranza, infine libera un urlo straziato e si lascia incenerire da una cascata di fiamme proiettata sul telo-schermo, per poi risorgere più splendente e vigorosa, pronta a contrastare con il suo canto il male che minaccia la terra. I melodiosi accenti della sua voce e la grazia dei suoi movimenti sono poi accompagnati dalle note di un’arpa, suonata dal vivo dalla musicista Lucilla Scalia. L’esotico vibrato dello strumento sublima la poesia visiva della danza della fenice determinando, con l’ausilio dei fasci di luce proiettati sul telo-schermo e della sofisticata piattaforma sonora creata digitalmente, un coinvolgimento pluri-sensoriale, quasi ipnotico.
Chiude il percorso video-teatrale del progetto Kthack lo spettacolo Non si vive nemmeno una volta, scritto, diretto e interpretato dall’autrice di Retablo Maria Piera Regoli. La performance si propone come una allegoria drammatica, incentrata sulla riscrittura del mito di Demetra e della figlia Persefone. Qui la dea dell’agricoltura (sdoppiata nell’interpretazione alternata della Regoli e di Cinzia Finocchiaro) è una madre in coma a causa di un incidente, che ha rimosso il trauma del rapimento della figlia (l’attrice Irene Tetto) da parte di Ade, dio dell’oltretomba. Demetra si percepisce paralizzata e osserva sé stessa, rappresentata dall’immagine olografica di un corpo sospeso, mentre è chiusa nel buio di una morte apparente. La voce fuori campo di un medico la riporta alla realtà: non è lei la vittima del tragico infortunio, ma Persefone, in verità rapita e imprigionata negli Inferi.
A questo punto la Regoli mette in scena una straniante deformazione del mito, immaginando che la dea olimpica, la madre inconsolabile, ripartorisca in serie nuove figlie divine, infiniti cloni di Persefone condannati però al suo stesso destino tragico. Solo la morte di Demetra potrà interrompere la maledizione, bloccando però anche il ciclo delle stagioni, il giro di ruota della fertilità della terra.
Pur contando sullo stesso impianto mediologico delle altre rappresentazioni, questo spettacolo non risulta altrettanto convincente sull’asse della partitura narrativa. Le suggestioni visive create dalle proiezioni olografiche sul telo-schermo, o le sonorità dirompenti della musica elettronica campionata digitalmente, non bastano a compensare uno svolgimento diegetico nebuloso, che a tratti si fatica a interpretare, nonostante si apprezzi l’intento di attualizzazione/riscrittura mitologica.
Emerge comunque il richiamo allegorico alla città etnea; le continue rinascite di Persefone sono le stesse che ha vissuto e vive Catania, un loop scandito in tre tempi, come dice Demetra: «Caduta, buio, rinascita. Da capo, sempre da capo!».